la società

Il Clandestino, prima parte

Il risveglio
Tre colpi pesanti, insistenti sulla mia vecchia porta, priva di campanello e di lucchetto… mi alzo pigramente dal mio letto di fortuna, realizzato con vecchi cartoni racimolati davanti ad alcuni supermercati del quartiere e subito si affaccia alla mente un pensiero: chi sarà a disturbare la mia travagliata quiete all’alba di un nuovo giorno? Non è mai accaduta una cosa del genere. Mai!
Sono un signor nessuno, uno che non dà nell’occhio, anche se questa è solo pura illusione. In realtà, più desidero nascondermi, più gli altri mi vedono e gli stracci che ho addosso non mi aiutano ad essere discreto: rappresento in qualche modo l’invisibilità visibile.
Chi può venirmi a disturbare se non la polizia, visto che sono un cosiddetto clandestino, uno che è entrato illegalmente in questo Paese e al quale non sono riconosciuti i diritti di cittadinanza? La mia situazione mi sembra differente rispetto a quella dei colonizzatori dell’Africa che arrivavano e s’impossessavano di tutto, maltrattando e uccidendo chi osava sfidarli. Io non ho ammazzato nessuno e nemmeno ho l’intenzione di rubare il benessere a qualcuno. Sono solo un rifugiato al quale non è stato riconosciuto il diritto d’asilo. Guerre, fame e voglia di libertà mi hanno convinto a lasciare il mio amato Paese. Di fronte alla commissione che aveva valutato il mio caso, ho commesso il grave errore di dire che ero scappato dalla mia terra, non per gravi motivi, ma perché volevo vedere il resto del mondo e godermi una libertà che non avevo mai sperimentato.
– Quindi lei ha lasciato il suo Paese per il piacere di lasciarlo, se non ho capito male?
– Sì!
– E cosa pensava di trovare qui?
– La libertà e tutto ciò che la televisione ci raccontava sull’Italia. Amo davvero l’Italia!
Il presidente della Commissione, dopo avermi guardato lungamente dalla testa ai piedi, con evidente stupore aggiunse:
– Mi rendo conto del suo amore sincero per l’Italia, ma se tutti i poveri del mondo fossero colpiti da tale amore e pensassero di venire qui nel nostro Paese, non ci sarebbe più posto per nessuno, e nemmeno per noi lo capisci?
– Si lo capisco.
Caso chiuso in un batter d’occhio.
Dopo aver respinto il mio iter, mi è stato consegnato un foglio di via e, non avendo più il diritto di stare nella struttura che accoglieva i richiedenti-asilo, mi sono ritrovato in mezzo alla strada. Non me lo sarei mai aspettato da questo Paese che ho sempre amato e ammirato. Ma la realtà è realtà: nessuno mi vuole. Non è solo questo gruppuscolo di giudici a rimandarmi a casa, ma un intero Paese!
Non posso credere che qualcuno abbia bussato alla mia porta. Ma chi può essere?
Chi può venire a disturbare un clandestino se non la polizia oppure altri clandestini?
I primi per ovvii motivi. Ma non sempre la polizia riesce ad intervenire nei miei confronti. È il degrado del mio abitacolo che li tiene alla larga. Non osano entrare nella mia capanna per paura di beccarsi qualche malattia. Un giorno gliel’ho sentito dire, prima di aggiungere che, in fondo, io ero più facilmente controllabile, vista la mia innata passività. Queste parole sussurrate dai poliziotti avrebbero potuto offendere chiunque, ma non me. Costituivano una specie di garanzia per me: sanno dove abito, possono venirmi a prendere in qualsiasi momento e proprio per questo non vengono.
Gli altri miei visitatori sono altri indigenti. Arrivano spesso a piccoli gruppi, per condividere con me avanzi di cibo o per chiedermi qualche aiuto economico. Non si stupiscono mai del degrado attorno a me, anche perché qualcuno di loro sta peggio. E che dire della condivisione: che si condivide di più e meglio quando ci si sente simili, oppure, come nel caso attuale, alla feccia dell’umanità.
Dopo i primi tempi e soprattutto le prime sofferenze che mi procurava questa mia situazione, mi ci sono abituato e oggi mi sento felice o almeno come ci si può sentire “felici” nella situazione in cui mi trovo.
Ho una casa, se possiamo chiamare così l’angolo ammuffito e freddo dove vivo, ho un vecchio televisore a pila, in bianco e nero, che mi permette di vedere la realtà per quella che è davvero: in bianco e nero, ovvero senza i colori belli e pieni dell’incontro e della condivisione.
E la mia capanna? È una lunga storia. Un giorno il direttore di un supermercato, dove vendevo cianfrusaglie da mattina a sera, prese a cuore la mia sorte e volle aiutarmi a trovare un lavoro decente e un alloggio. Al primo tentativo il fallimento fu assai eclatante e non perché non riusciva a trovarmi un impiego, ma perché ero io a non essere in grado di svolgere qualsiasi mansione adatta ad una persona sedentaria.
Si trattava di un enorme capannone di periferia che avrei dovuto pulire tutti i sabato dalle 8 alle 12, per 25 euro. La paghetta era più che dignitosa per me, ma rifiutai l’offerta perché era impensabile per me trascorrere quattro ore della mia giornata, rinchiuso lì, senza vedere gente allegra e gente triste. L’altezza e lo spessore dei muri del capannone mi ricordavano la galera e i locali dove fummo ammassati io e ed altri clandestini al mio arrivo in questo Paese. Da allora non amo tutto ciò che mi ricorda la prigione.
Il proprietario del capannone mi congedò con l’aria stupita. Non capiva le mie ragioni che, comunque, non ritenni di dover esternare. Dal canto suo il mio benefattore dimostrò maggiore comprensione.
Due giorni più tardi sentii un rumore improvviso alla porta della mia baracca:
– C’è qualcuno?
Stavo per infilarmi sotto il mucchio di cartoni in parziale decomposizione, come facevo ogni qualvolta sentivo dei rumori sospetti, quando riconobbi la voce del direttore.
Come la polizia, anche lui non entrava mai nel mio tugurio che versava in uno stato davvero pessimo.
Mi vestii e uscii salutandolo con grande cordialità, come avveniva sempre, quando ci vedevamo.
– Ti ho trovato un nuovo lavoro! Lavapiatti in un ristorante! Ti piace?
Non risposi e mi feci condurre direttamente al nuovo posto di lavoro.
Accettai senza grande convinzione il lavoro, che mi permetteva di stare in mezzo a tanta gente e a tanti rumori allegri, ma non resistetti a lungo e dovetti scappare a causa degli sguardi. Tutti i miei nuovi colleghi mi guardavano con aria stupita e sembravano dirmi:
– Cosa fai qui? Ma quando te ne vai?
Dopo due giorni, scappai e al mio infaticabile benefattore venne un’idea:
– Perché non stai qui davanti al mio supermercato?
– Ma volentieri! In realtà è da anni che sto davanti a questo supermercato.
– Ora è diverso: prima non avevi il mio permesso, ora sì. Ecco, io non ti posso dare un salario, però ti offro un angolino dove dormire e poi, stando qui davanti, incontrerai sicuramente molto persone e saprai guadagnarti qualcosa.
Fu così che iniziai a proporre i miei servizi ai clienti del supermercato: all’anziano che aveva troppe borse proponevo l’aiuto, a chi aveva un carrello della spesa vuoto proponevo di riportarlo indietro, magari recuperando il prezioso soldino che era inserito dentro. Qualcuno mi dava un po’ di soldi, qualcun altro condivideva la spesa con me, porgendomi sacchetti d’insalata, bevande di bassa qualità e cibarie varie. Ma c’era anche chi m’insultava, chiedendomi di andare a lavorare, non qui dove vivo da anni, ma in Africa. A uno di questi dissi un giorno:
– Io sono l’angelo Albert!
Mi rise fragorosamente in faccia:
– Un angelo! Un angelo nero, per di più! Ma lasciamo stare. Altro che angelo, tu sei un clandestino che deve tornare a casa sua.

Continua…

 

Disegni dell’autore

Tratto dall’antologia “Futuro Remoto”

curato da Energheia di Materia, 2014

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