la società

Blues e dintorni

Nell’autunno del 1966 – era il solito piovoso e noioso novembre milanese – Jeff Beck mandava dall’Inghilterra quelle note acide, distorte e nasali della sua Telecaster in “The Nazz Are Blue”, un blues inesorabile, cadenzato dalle incursioni delle sue corde in frequenti ed inaspettati salti tonali: note “fuori posto”.
Era come se, percorrendo un sentiero di montagna, arrivato in vista della cima dove ti aspetteresti di trovare un lago, immobile e cristallino, improvvisamente ti si aprisse un irresistibile dirupo, una voragine scura e paurosa, ovvero, alla fine di un ripido declivio ritenuto conclusivo, ti trovassi di fronte ad una parete verticale, incombente ed inaccessibile.
Cambiava così il modo di suonare la chitarra. I pezzi non erano “proposti” per un ascolto spesso indifferente e abitudinario. Erano “imposti” per segnare una frattura definitiva con la tradizione compositiva ed interpretativa. E non potevi fare a meno di esserne turbato. E affascinato.
Quelle – ma lo misero a fuoco solo molti anni dopo, quando la maturità rese loro evidente l’insieme e la complessità delle emozioni – furono le sensazioni inconsapevoli di molti giovani apprendisti stregoni della chitarra. Tra loro un giovane a cui l’enorme talento avrebbe consentito una carriera di musicista vero e ricercato, diventato presto noto nella Milano musicale di fine anni sessanta.
Claudio, con il suo Les Paul comperato da un musicista americano di passaggio a corto di quattrini, una chitarra unica, intrisa del profumo delle sale di Memphis e che gli dava lo scettro del mito, conquistando il cuore di tutti: maschi estasiati dalla tecnica e femmine incantate dalla grazia e dall’eleganza della leggenda, quando, con calma e sorriso, si avventurava nella riedizione perfetta di “Jeff’s Boogie”.
Per tutti gli altri, non toccati dalla musa, restava il sogno, il desiderio dell’emulazione.
Processo di identificazione? Era così per quasi tutti i ragazzi dell’epoca, amanti della musica e dell’idea di fuggire da realtà anguste, insopportabili.
Dopo pochi anni, pochissimi, nel sarcastico intento di “essere realisti”, avrebbero “chiesto l’impossibile”. E, al posto di Claudio, altri miti si sarebbero sostituiti, più definiti in senso ideologico, anche se, poi, si sarebbero rivelati inconsistenti proprio sotto quel profilo. Diversamente da Claudio, destinato a rendere sempre più concreta la sua carriera artistica.
Era, come sempre, la fascinazione che il leader esercitava sul pubblico che spingeva a salire sul palco, qualunque palco. Non sempre con effetti positivi. Ma lo si sarebbe visto, chiaramente, molto dopo.
Erano anni in cui i giovani sognavano e speravano che i loro desideri, i loro ideali (eh sì, allora c’erano ancora…) si sarebbero un giorno realizzati. Bastava volerlo.
Alla musica si sovrapponeva, inevitabilmente quanto allora necessariamente, l’eccesso, la poetica visionaria della trasgressione, in una spinta libertaria e ribellistica – solo più tardi connotata politicamente – di cui non si potevano prevedere gli esiti.
Vittime designate di tale processo autodistruttivo – perché tale fu, da tutti riconosciuto – sarebbe stata una massa multiforme. Di giovani, quasi esclusivamente, vecchi mancati. Ma era il tempo in cui , Roger Daltrey degli Who cantava “Hope I die before I get old”.
Travolti proprio da quelle pulsioni ideali in cui la dismisura era la regola, e non esisteva consapevolezza del proprio destino, contemporaneamente ai miti stessi, anche molti “spettatori” di seconda e terza fila si persero. Alcuni, troppi, per sempre; altri, numerosi, se ne andarono nei rivoli dell’inquietudine, dell’inconcludenza, dell’indeterminatezza dell’essere: nel fallimento esistenziale.
Vittime del desiderio di un protagonismo sognato quanto impossibile, di un’epoca in cui lo stato di tensione emotiva permanente prostrava l’anima e il fisico.
Le colpe? Di tutti. Dei miti, inconsapevoli artefici di esempi devastanti; dei cattivi maestri, irresponsabili professionisti del Male; delle vittime, compiaciute nel dondolio della deriva, verso l’ultima meta.
Ma tutto questo venne dopo. E il grandissimo Jeff con la sua Telecaster non c’entrava nulla.

 

 
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9 comments

  1. Blue 2 febbraio, 2015 at 18:07

    Ringrazio Kokab che ha aperto il dibattito ad altre (e più importanti, almeno secondo i miei intenti) considerazioni di cui la musica del grande Jeff, costituiva solo lo spunto iniziale.
    Il tema del mito, del modello che ognuno insegue e che spesso conforma la nostra esistenza, e in generale una intera generazione.
    Cinquanta anni fa ma soprattutto dopo, gli slittamenti esistenziali furono progressivi e la musica (e l’arte, in generale) li rappresentava. Oggi i miti ed i modelli sono diversi, non necessariamente pieni di carica poetica come allora.

    • Osita V 11 marzo, 2015 at 11:23

      il 68 l’anno della contestazione ,della ribellione dei giovani agli schemi,e ai valori del modello capitalistico che si andava affermando.Da ricordare Woodostock,il grande raduno del 69 che rappresenta l’espressione più matura del movimento hippies,dei figli dei fiori,dei capelloni,tutte cose che attiravano i giovani ma suscitavano scandalo tra gli adulti .Da ricordare anche i film come EASY RIDER e FRAGOLE E SANGUE che esprimevano chiaramente questo contrasto di reazioni fra i due mondi generazionali.Sono anche gli anni dell’affermazione del femminismo e delle manifestazioni e cortei dove si gridava:si si si abortiamo la DC e Tremate,tremate le streghe sono tornate .E vi ricordate i comitati di quartiere che ,però,a dire la verità ,funzionavano bene ,infatti fu evitata a Roma la cementificazione della campagna che sta a via Damiano Chiesa con l’intento di costruirci asili nido e biblioteche,cose che non sono mai state fatte però

  2. Kokab 1 febbraio, 2015 at 22:32

    riflettendo su questo scritto mi viene da considerare quanto a volte l’arte c’entri poco con la vita, e quanto spesso la vita la strattoni in molte e diverse direzioni che nulla avevano a che vedere con l’artista e la sua attività creativa, in questo caso uno dei chitarristi più originali della storia del rock e del blues.
    la musica di quegli anni aveva certamente un contenuto libertario e una carica anti istituzionale, ma era la musica di un mondo, quello anglosassone, spiccatamente individualistico, che poco o nulla c’entrava con la tradizione e la cultura marxista di molti paesi europei, fra cui il nostro, dove pure quella musica è diventata un patrimonio, un simbolo e un riferimento per le molte sinistre esistenti, quasi la colonna sonora di quella generazione che in buona parte si è persa.
    sicuramente jeff non pensava a questo quando suonava “the naff are blue”, e quando il tempo avrà cancellato il ricordo di quella generazione, del suo rapporto con la musica resterà probabilmente solo la musica.
    non saprei dire se è meglio così.

    • Blue 1 febbraio, 2015 at 09:39

      Jeff Beck è un chitarrista dallo stile unico, inarrivabile. Un grandissimo artista, che ha evoluto il suo stile in una continua ricerca di suoni nuovi, allontanandosi dai canoni tradizionali iniziali – ma si vedeva già allora che non era inquadrabile nella tradizione blues standard, a differenza di Clapton che non se ne è mai allontanato – ed arrivando nei tempi recenti a queste proposte astratte che hai citato su cui potremmo considerare a lungo…

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