attualità

Flessibilità è solidarietà

Rimane difficile comprendere perché in Italia sia così difficile, intaccare i diritti a contenuto economico acquisiti da una miriade di soggetti e da interi ceti (privilegiati), in forza di leggi o atti amministrativi particolari.Nel diritto privato, e segnatamente in ambito contrattuale, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari, è possibile per la parte onerata sciogliere ovvero risolvere il contratto, a meno che una delle parti non decida in modo autonomo, di eliminare la sproporzione verificatasi, riportando il contratto ad una condizione di sostanziale equità. Trattasi di uno strumento per eliminare l’ingiustizia di condizioni contrattuali, conseguente a mutamenti di carattere straordinario. Ciò impedisce che una parte si possa ingiustificatamente avvantaggiare o arricchire in danno dell’altra.

La crisi economica strutturale ha determinato per l’amministrazione statale e per quelle periferiche, l’impossibilità se non a costo di gravosi sacrifici, di mantenere i livelli di spesa assunti prima della crisi. Le spese per la remunerazione dei diversi fattori dell’amministrazione, quali l’attività di funzionari, dirigenti, tecnici, addetti, risultano in molti casi sproporzionate rispetto alla qualità e quantità delle rispettive controprestazioni e, in genere dei servizi erogati. Le spese sono talvolta inammissibili e incompatibili, sotto il profilo quantitativo, con la contingente situazione economica caratterizzata dalla riduzione della crescita, delle entrate e del flusso di cassa generato dalle molteplici attività statali. A titolo esemplificativo ma non esaustivo della numerosa casistica, potrei citare i compensi dei Presidenti di Regione, dei dirigenti delle municipalizzate, dei burocrati ministeriali, degli addetti agli uffici elettivi e rappresentativi. Siamo ormai arrivati ad un punto di non ritorno e i trattamenti il cui ammontare rasenta il privilegio non possono essere più consentiti e mantenuti, siccome tra l’altro non risultano nemmeno in linea con quelli erogati in altri paesi più ricchi, più grandi e popolosi del nostro. La società non potrà riequilibrarsi e non potranno essere attuate serie politiche di redistribuzione del reddito, se non verrà rimosso lo schermo di protezione, se non verrà infranta la copertura della serra dei cd “diritti quesiti”. Qualunque tentativo di perequazione è destinato a fallire se non verranno abbattuti il tabu’ e il totem dell’inflessibilità verso il basso dei trattamenti economici. Per uno strana idea, che ha come presupposto, l’inarrestabilità della crescita e dello sviluppo, nonché l’assenza di previsione di recessione o di contingenze sfavorevoli, i trattamenti economici di dirigenti sia politici che amministrativi, delle persone che ricoprono cariche pubbliche, di una nicchia di fortunati pensionati, di funzionari e burocrati appartenenti alle molteplici amministrazioni e alle società di diritto privato controllate dallo stato, sono espandibili sono verso l’alto e non tollerano compressioni nemmeno in periodi di crisi. La rigidità di siffatta struttura impedisce di effettuare manovre correttive efficaci, sotto il profilo del contenimento della spesa. L’intero sistema risulta anelastico e incapace di adeguarsi alle mutate condizioni economiche.

Lo Stato dunque è costretto a subire il peso impeditivo di errori iniziali ovvero di politiche errate senza poter fare interventi modificativi e risolutivi. Tutto irrimediabilmente si infrange sulla scogliera dei diritti economici acquisiti, non più derogabili né abdicabili. Diversamente , specie in situazioni di necessità, ritengo che non debbano sussistere diritti e situazioni soggettive a contenuto economico-patrimoniale aprioristicamente intangibili. Introdurre il principio di flessibilità verso il basso dei trattamenti economici assolutamente sproporzionati o comunque ingiustificati, specie in periodi di congiuntura economica negativa, risponde a principi costituzionalmente tutelati quali l’equità, l’uguaglianza, la ragionevolezza la solidarietà tra le diverse componenti della società. Il principio di che trattasi consente altresì di attribuire a ciascuno diritti economici proporzionati e sufficienti e soprattutto diritti adeguati e rispondenti quasi con una plastica aderenza a quella che di volta in volta è la reale situazione economica e finanziaria del paese. D’altra parte in periodi connotati da crisi, continuare ad erogare trattamenti sproporzionati a qualunque livello è comportamento sconsiderato che reca offesa principalmente ai ceti più svantaggiati, e poi siamo sicuri che possiamo continuare a permetterci tutto questo?

I diritti a contenuto economico sono sensibili e reattivi alle mutate condizioni, lo sanno bene tutti coloro che hanno sperimentato la riduzione della propria capacità reddituale, per perdita del lavoro, della salute, per eventi distruttivi imprevedibili, per mutamento delle condizioni di mercato, di impresa, per la modificazione peggiorativa di qualunque fattore incidente in ambito economico e finanziario. Forse la nostra Costituzione non è come si suol spesso dire, “la migliore del mondo”, poiché diversamente per esempio da quella francese, ha omesso di codificare il principio di fraternità, che implica e ricomprende quello di solidarietà tra tutti gli appartenenti al consorzio civile. In tal senso, la costituzione (Art. 3), pur essendosi preoccupata di assegnare allo Stato il compito “di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”, ha omesso di dare rilevanza al diritto / dovere di solidarietà che è il cardine, il cemento unificatore che tiene insieme come un legame quasi parentale / fraterno, tutte le componenti della società. La solidarietà permette di superare gli antagonismi in nome del superiore comune interesse, permette di livellare odiose ingiustizie e disparità di trattamento, consentendo di realizzare in modo sostanziale il principio di uguaglianza.

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8 comments

  1. Il Salentino 2 gennaio, 2015 at 15:24

    Caro Dario non ti crucciare non so se hai ascoltato i notiziari i vigili di Roma hanno dato prova a capodanno di senso di responsabilità e di commovente solidarietà, l’Italia difficilmente cambierà

  2. DareioS 31 dicembre, 2014 at 13:10

    Intervengo in media res, sentendomi legittimato siccome quasi, chiamato in causa, al fine di fornire ulteriori chiarimenti, non prima di aver comunque ringraziato gli amici che hanno deciso di condividere quella che vuole essere una riflessione e, solo in parte una provocazione. Ritengo che l’Italia non sia un paese solidale, anche se, per esempio in molte realtà gli operai hanno mostrato il segno di una solidarietà di classe, nell’accettare e sottoscrivere i contratti di solidarietà, comportanti una riduzione di stipendio per evitare procedure di licenziamento.Condivido quanto afferma M. Ludi sul fatto che forse l’ingiustizia dei trattamenti economici sproporzionati non deriva dalla congiuntura economica sfavorevole ma è una ingiustizia originaria ovvero genetica. Peraltro uno Stato che impone sacrifici e contestualmente favorisce i furbi, contiene già in sé una contraddizione e i germi della propria autodistruzione. A Gennaro e Dinamite replico che ovviamente il mio scritto breve scritto non è una ricognizione tecnica della spesa pubblica improduttiva finalizzata all’adozione di tagli selettivi, pertanto non può avere il rigore né l’affidabilità di uno studio. Tuttavia voglio precisare che l’adozione da parte degli enti pubblici territoriali, di forme organizzative analoghe a quelle delle imprese e delle società di capitali di diritto privato, non necessariamente è stata una risposta all’esigenza per la pubblica amministrazione di dotarsi di più agili e reattivi strumenti per competere in ambito economico. Invero l’utilizzazione da parte degli enti di tali forme organizzative per erogare servizi e svolgere talvolta semplice attività amministrativa, è stato un modo indiretto di finanziamento dei partiti e della politica e un modo altrettanto efficace di costruzione del potere e del consenso. In tal senso, la moltiplicazione di società di capitali partecipate da enti pubblici, per le quali si applicano le norme di diritto comune, sottratte alla legislazione vincolistica dei concorsi con riferimento all’assunzione di personale, ha garantito e tuttora garantisce ai partiti e alla politica fonte importante di finanziamento, il controllo economico di interi settori produttivi e di servizi, attraverso l’arbitraria designazione delle figure apicali delle società partecipate. Inoltre il meccanismo delle assunzioni svincolate da ogni formalismo selettivo su base meritocratica ha consentito alla politica e ai partiti di creare e consolidare una rete di potere e di consenso fondata sul clientelismo. Dunque come è facile comprendere non si tratta di virtuose imprese assoggettate al diritto privato che agiscono nel libero mercato, ma di architetture giuridiche finalizzate talvolta anche all’arricchimento personale e comunque sempre alla costruzione del potere politico. Per tutto questo è sconfortante pensare che, mentre ci assale la preoccupazione per il nostro futuro e per quello dei nostri figli, la gran parte delle risorse derivanti dal prelievo fiscale, verrà ancora impiegato per ridurre l’ingente debito pubblico, ma soprattutto per pagare i vitalizi, le pensioni da nababbo, e ogni altro emolumento in favore di consiglieri, dirigenti, generali in riposo perpetuo, super manager, direttori generali e capi delle più svariate strutture, per finanziare la politica e tutto l’indotto, e, poco o niente rimarrà da mettere nello zaino dell’incerto domani di una intera generazione. Ciao a tutti e grazie

  3. M.Ludi 30 dicembre, 2014 at 19:36

    Come prima osservazione, permettimi di rilevare che oggi, nella Pubblica Amministrazione, a fronte di un certo numero di persone (non irrilevante) che somma macroscopiche situazioni di privilegio, vi sono milioni di lavoratori che svolgono compiti di grande responsabilità in settori di grande utilità pubblica, senza godere di particolare privilegi (penso in particolar modo alla Sanità ed alla scuola)
    Inoltre permettimi di dubitare che una norma generale come quella da te citata, si possa applicare “hic et nunc”, alle retribuzioni e pensioni nell’ambito della Pubblica Amministrazione, considerando anche il fatto che le eccezioni a tale norma sono tali e tante da non meritare ulteriore approfondimento.
    Infine, nella situazione di fatto (e di diritto) se ad un qualsiasi dei beneficiari “d’oro” proviamo a ridurre gli emolumenti, questi ricorreranno in giudizio e non avranno alcuna difficoltà a trovare una sede (in Italia o in Europa) ove vedersi riconoscere il diritto acquisito.
    Il problema è talmente evidente che ogni provvedimento varato negli anni tendente a intervenire, ha dovuto subire più di una marcia indietro ed anche le situazioni “ponte” (mantenimenti dei diritti acquisiti ma rivisitazione delle retribuzioni da una certa data in poi) hanno presentato più di un profilo di incostituzionalità, tant’è che i ricorrenti hanno spesso ottenuto ragione.
    Per poter affrontare la questione con serietà occorre intervenire ammettendo del tutto chiaramente che certi incrementi nel trattamento di retribuzione e pensione, sono stati ottenuti in modo del tutto ingiustificato, sia nel merito (importi eccessivi) sia nel metodo, essendo gli organi decisionali, spesso composti dai primi beneficiari di detti provvedimenti. Occorre dire a chiare parole che non è la situazione di crisi a dover indurre una revisione di certi trattamenti economici, ma la palese ingiustizia che ne è alla base (crisi o non crisi) e occorrerebbe farlo in fretta, prima che qualcuno decida seriamente di prendere i forconi.
    Altro modo per risolvere la questione è dichiarare l’insolvenza dello Stato; consolidiamo il debito pubblico e sforbiciamo qua e là, già che ci siamo, così facciamo prima e risolviamo davvero un bel pò di problemi.
    L’ultima soluzione è quella che ti attivi nell’opera sociale di convincimento ”ad personam”, ma sono forse un po’ troppi.

  4. Gennaro Olivieri 30 dicembre, 2014 at 17:31

    Caro Dareios, il tuo suggerimento in buona fede e che ha come obiettivo l’eliminazione dei privilegi di pochi, in realtà verrebbe usato ( ed in gran parte viene già usato) per falcidiare salari e diritti dei molti. Sono sacrifici che, ci viene continuamente ripetuto, ci chiede l’Europa: Europa che ha qualche diritto di ficcare il naso nei nostri conti pubblici, ma in realtà pretende (con succcesso, purtroppo) una continua compressione di stipendi, pensioni e tutele contrattuali soprattutto nel settore privato. Se mai dovesse arrivare la sospirata ripresa, l’Europa, il governo, il legislatore, le associazioni di imprese, saprebbero essere grati per la solidarietà e la flessibilità fornita dai lavoratori e sarebbero pronti a ristabilire i salari e le condizioni del periodo pre-crisi?

  5. dinamite bla 30 dicembre, 2014 at 16:51

    in linea di massima potrei essere d’accordo ma… c’è una serie di ma che rendono questo articolo un po’ distante dalla realtà. in primo luogo vien fatto un mischione tra cariche politiche (piaccia o meno sono elettive) e burocrazia e, anche all’interno di questul’ultima tra gran commis e funzionari. gli stipendi dei gran commis italiani sono in linea con quelli di altre nazioni e soprattutto congli omologhi privati italiani; in entrambi i casi (italiani) il problema non è quanto prendano ma se rendano per quel che guadagnano, cioè in fondo il problema sta la reale carenza nei controlli e ciò in italia vale per il pubblico come il privato, ed è uno dei principali motivi per cui gli stranieri investono in italia solo quando possono avere il controllo totale del management (bulgari, alitalia etc… non v’è differenza sia pubblico o privato). per cui non c’è un particolare privilegio nell’essere manager pubblico in italia… il privilegio sta nell’essere manager. se si vuole rendere flessibili, per solidarietà, gli stipendi dei manager pubblici… ciò andrebbe fatto per tutti, e temo sia poco probabile… differente, e meno demagogico, è il voler legare stipendi a risultati, ma si porrebbe un problema: che giudica? o per meglio dire: chi in italia ha l’autorità morale per poter giudicare senza essere seppellito da pernacchie?
    se poi vogliamo parlare dei funzionari pubblici… oddio defininirli privilegiati ha dell’esilarante: sono i meno pagati, e di gran lunga, dell’europa occidentale. lo stipendo medio in busta di funzionario laureato, chessò un insegnante anziano di secondaria superiore, viaggia sui 1600 euro, di un funzionario apicale degli enti locali attorno ai 1700, nelle ASL 1800, di un’ispettore di ps 1900… leggo della costituzione franzosa… punge vaghezza di quale siano gli emolumenti degli omologhi d’oltralpe… o degli alemanni? siamo ben oltre il doppio. e mi risulta altresì non esistano blocchi di contrattazione pluriennali (credo si sia giunti a sette) come nel Bel Paese.
    c’è una porzione di “improduttivi”? più che certo, ma va da se che confondere patologia con fisiologia non serva a molto… comprendo come anni di battente battage berlusconiano (e legaiolo, brunettiano e via genialando) abbiano portto a pensare che tutti i mali della nazione stiano nei dipendenti pubblici, ma generalizzare banalizza.
    Se si vuola incidere cospicuamente sulla spesa pubblica occorre seriamente guardare ad una ad una la pletora di società partecipate, esternalizzate, consorziate ed eliminare la sostanziosa parte inutile… e qui si chiudono i ma: tale fattispecie societarie sono il frutto dell’azione del’ideale liberistico-privatizzante sul pubblico ed hanno portato a devastanti risultati (dis)economici… per farla breve il maggior problema, in termini di diseconomie, del pubblico in italia è il suo lato privato 🙂

  6. Il Salentino 30 dicembre, 2014 at 13:33

    Purtroppo Caro D. nessuno in Italia sarà mai disposto a rinunciare anche solo ad una piccola parte di denaro. La solidarietà non esiste. Lo vediamo quando approvano la legge di bilancio, tutti alla strenua difesa dei propri interessi come banditi danno l’assalto alla diligenza chiedendo il massimo solo per se stessi

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