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Ackerman: “La guerra all’Isis legittima il Califfo”

 

L’Ue reagisce «soltanto con il panico». E così «esaudisce i desideri dei jihadisti». Ma a rischio ci sono pure «idee illuministe e libertà personali». Lettera43 intervista Bruce Ackerman.

di Giovanna Faggionato

 

Il massacro avvenuto a Parigi non è il primo e, dolorosamente, non sarà l’ultimo: «Ne accadrà un altro e un altro ancora».
Dal suo ufficio nella prestigiosa università di Yale, Bruce Ackerman, un’autorità nel diritto internazionale, professore di Legge e Scienza politica inserito dalla rivista Foreign Policy tra i più importanti pensatori globali, non ha dubbi. «Stoppare tutti gli attacchi terroristici è impossibile. E allora c’è un elemento che conta davvero: come reagiamo».

IMPARARE DAGLI ANNI DI PIOMBO. L’autore di Prima del prossimo attacco. Preservare le libertà civili nell’era del terrorismo (edito in Italia dal Mulino) si cimenta nella prova più complessa: richiama alla necessità d razionalizzare, di accantonare per un momento l’emozione e la paura.
Negli Usa, spiega, dall’11 settembre c’è stato un «ampliamento senza precedenti dei poteri del presidente». E oggi l’Europa, che è riuscita a superare il terrorismo «ben più pericoloso» del periodo della guerra fredda, rischia di entrare nello stesso «circolo di panico» e di restrizione delle libertà civili.

ESAUDIRE I DESIDERI DEL CALIFFATO. La guerra di François Hollande è la «prosecuzione» di quella dichiarata da Gerge W. Bush nel 2001, afferma il professore, un conflitto che «legittima lo Stato islamico» ed «esaudisce i desideri del Califfato». Ma dobbiamo guardare in faccia la verità, sostiene Ackerman, «non siamo di fronte a una guerra»

 

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Bruce Ackerman, professore di Diritto e
Scienza Politica all'Università di Yale.

 

 

DOMANDA. Il presidente francese François Hollande l’ha chiamato un atto di guerra, il premier francese Manuel Valls ha parlato di ‘guerra totale’, di più di ‘guerra di civilizzazione’.

RISPOSTA. Ma dichiarare guerra allo Stato islamico ha delle conseguenze.

D. Quali?

R. Legittima lo Stato islamico. Le persone arrestate in Belgio sono prigionieri di guerra? La guerra si fa tra due Stati sovrani e allora dal punto di vista internazionale Hollande sta esaudendo il desiderio del Califfato. E proprio nello stesso momento in cui dice di volerlo «annientare».

D. Una contraddizione.

R. Sì, e non si tratta solo di un concetto figurato, di una formalismo. Sta dicendo qualcosa che ha un significato profondo dal punto di vista legale. Le dichiarazioni di Hollande si innestano in una concezione ben più ampia che ha le sue radici in George W. Bush.

D. Sta dicendo che Hollande prosegue la politica dell’ex presidente Usa?

R. Non la politica, ma la guerra, la unlimited war.

D. E quale sarebbe l’alternativa?

R. Lo stato d’emergenza è l’alternativa. Che come si è visto permette a un governo di avere ampi poteri in materia di sicurezza e limitazione dei diritti civili. Ma temporanei.

D. Il presidente francese chiede di allargarne le maglie perché evidentemente crede che non siano più sufficienti ad affrontare la minaccia attuale.

R. E questo è un problema sostanziale, perché grazie alla rivoluzione tecnologica gruppi di terroristi con rivendicazioni politiche, piccoli e sempre più piccoli per dimensioni, avranno un potere sempre maggiore di distruzione. La questione temporaneamente attraversa l’Islam e lo farà nel prossimo futuro.

D. Ma?

R. Ma anche se riuscissimo a restaurare la pace in Medio Oriente nei prossimi 20 anni, si formeranno comunque altri gruppi terroristici.

D. La considera una tendenza storica.

R. Lo è. È inziata con gli attentati ottocenteschi. Ora gli stati sono molto più sicuri, è molto più difficile avere una nuova Sarajevo. Ma per generare una crisi politica in un Paese occidentale ora non è più necessario uccidere il re, si può fare quello che hanno fatto a Parigi. Danneggiare le società civili.

D. E lei è certo che succederà di nuovo.

R. Sì, perché quella che abbiamo davanti non è una guerra. La verità è che non si possono bloccare tutti gli attacchi terroristici: è semplicemente impossibile. Possiamo stopparne il 90%, fermarne il 98%. Ma qualcuno succederà. E ogni volta ci sarà il panico. E ci saranno reazioni come quella di Hollande.

D. Cioè un ampliamento dei poteri dell’esecutivo.

R. La restrizione dei diritti di cittadinanza, una nuova forma di stato di emergenza, nonostante la Francia abbia già un buon sistema o nuovi poteri di sorveglianza.

D. E poi?

R. Poi dopo cinque anni ci sarà un altro attacco. E allora si dirà: non abbiamo fatto abbastanza, dobbiamo fare di più. E poi cinque anni dopo, di nuovo. Ci sono 7 miliardi di persone nel mondo. Quante hanno rivendicazioni politiche, quante sono estremiste?

D. L’Isis però è un fenomeno nuovo. Al Qaeda è una rete terroristica internazionale, ma non controlla un territorio o non ambisce a farlo: non vuole creare un Califfato. In Siria e Iraq lo Stato islamico ha una vera e propria burocrazia. Per molti non considerare questo aspetto significha sottovalutarlo.

R. Sostenere che l’Isis è un territorio, uno Stato, come l’Afghanistan, è una concezione gravida di conseguenze, perché abbiamo una serie di leggi internazionali, ereditate soprattutto dalla Seconda guerra mondiale. E soprattutto è un discorso intellettualmente perdente per chi lo fa. Io penso che sia troppo presto. E che le persone parlino senza pensare, ma è comprensibile.

D. E a cosa bisognerebbe pensare?

R. Bisogna provare a mettere questo panico, quello creato dagli attentati, in prospettiva storica. Perché non sarà l’ultima volta. Con l’Isis o senza l’Isis. Ci saranno gruppi terroristici anche più potenti. E allora c’è un elemento che conta davvero: il mondo in cui reagiamo.

D. Si spieghi.

R. Se ogni volta ci diciamo: questo è stato un fallimento, dobbiamo creare uno stato di polizia maggiore, arriviamo a una domanda fondamentale: «Ci stiamo allontanando dai principi fondamentali dell’illuminismo?».

D. È la domanda che pone, con altre parole, l’editoriale di Le Monde del 18 novembre.

R. Il mio lavoro è porre le domande giuridiche che portino le persone a riflettere al di là del momento. E credo che dovremmo usare come termine di confronto la Guerra fredda. Che è un confronto comprensibile per l’Ue, la Francia e l’Italia.

D. I dati del Global terrorism database dicono che nel ventennio 70-80, ma per la verità anche in quello 80-90, dove le spinte erano per lo più separatiste, ci sono stati più morti per terrorismo in Europa che dal 2000 in poi.

R. Il conflitto di allora era molto più pericoloso di quello presente.

D. Perché?

R. Pensi all’Italia, dalla svolta di Salerno di Togliatti. Abbiamo avuto in Italia una larga fetta della popolazione che aderiva ai principi del comunismo, quindi del ‘nemico’ del mondo occidentale.

D. Lei parla dal punto di vista americano, da quello europeo si trattava di un grande partito di massa e i gruppi terroristici, almeno in Italia, erano su entrambi i fronti, sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra.

R. Ma è proprio questo il punto. Allora eravamo capaci di distinguere i piccoli gruppi e la maggioranza della popolazione.

D. E oggi invece?

R. Con i musulmani non riusciamo a farlo allo stesso modo. Eppure il problema con cui ci confrontiamo è meno serio a livello di percentuale di popolazione europea coinvolta rispetto a quello di allora.

D. In Italia negli anni di Piombo abbiamo avuto le leggi speciali.

R. Non dico che non ci siano state limitazioni o violazioni dei diritti civili, che forse avremmo potuto risparmiarci. Ma non mi pare ci siano stati cambiamenti di portata costituzionale. Il pericolo ora è che ci siano progressivamente maggiori abusi da parte dello Stato. Non sono un profeta, ma la nostra reazione di oggi è la base per quella futura. E quindi bisogna costruire o mantenere una cornice legale per contenere il panico.

D. Insomma, Hollande non dovrebbe cambiare la Costituzione?

R. Non è certo questo il momento. Il governo francese ha ampi poteri per prendere drammatici provvedimenti e risposte di breve termini. È chiaro che i servizi segreti non hanno funzionato. E così il panico è maggiore. E vogliono fare di più e più in fretta. Era da aspettarselo.

D. Non crede che ci sia una compenente di retorica nella risposta del governo francese?

R. Certo, ma la riforma della Costituzione non è retorica. È seria e durerà per molto tempo.

D. Una vittoria per gli estremisti?

R. Il panico da parte della cittadinanza, dei servizi di sicurezza e della politica può creare un nuovo equilibrio tra libertà e sorveglianza. E i servizi falliranno ancora. E ci sarà una nuova tragedia. E allora si andrà verso un regime ancora più oppressivo.

D. Negli Usa è così?

R. Ci sono voluti 14 anni, dal settembre 2001, per tornare a qualche livello di legalità e di normalità. Ma il rapporto tra sorveglianza e libertà è slittato significativamente.

D. Eppure in Francia più del 60% dei francesi è a favore della nuova legge che rende la sorveglianza più ampia di quella della Nsa. E i sondaggi del 18 novembre dicono che l’84% è disposto a rinunciare a parte della propria libertà in nome di maggiore sicurezza. Un paradosso?

R. Non è un paradosso. È comprensibile nel contesto di una politica della paura. Ma quanto un governo responsabile deve limitare questa paura e quanto sfruttarla?  Questa è una delle domande che l’Occidente si deve porre.

D. E quali sono le altre?

R. Se stiamo mettendo le basi per una nuova guerra di religione. E se stiamo sacrificando l’illuminismo, nato dopo due secoli di conflitti in nome della fede. Se stiamo immolando al panico i valori fondativi della Repubblica francese. E i principi dello Stato liberale.

D. I francesi però hanno reagito. Sono scesi in piazza in onore delle vittime in molte città, nonostante il coprifuoco. Hanno lanciato la campagna #OccupyTerrasse, una forma di resistenza per non rinunciare alla loro quotidianità: non crede che la République abbia i suoi anticorpi?

R. Non sono un profeta. E non penso ci sia da disperarsi, ma il momento è difficile. Se la patria della liberté, égalité e fraternité diventasse la nazione guida dell’islamofobia sarebbe la peggiore delle conseguenze possibili.

D. Crede almeno che abbia senso l’intervento militare contro lo Stato islamico?

R. Non credo che l’Isis possa essere sconfitto con una campagna dal cielo. Lo sforzo dell’amministrazione di Obama di costruire forze islamiche moderate da oppore all’Isis è stato un fallimento, con l’eccezione dei curdi, da cui non possiamo aspettarci che sconfiggano l’Isis da soli.

D. C’è chi chiede anche un intervento di terra.

R. Ulteriori truppe occidentali sul terreno non riuscirebbero a sostenere un ordine politico duraturo. Esattamente come hanno fallito nella guerra contro Saddam. E Obama lo sa.

 

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4 comments

  1. Berto Al 22 novembre, 2015 at 16:26

    PIù che altro credo che legittimi la scelta obbligata dei milioni di musulmani i quali, stretti tra l’odio da parte dell’Occidente e l’offerta del Califfato, si troveranno, loro malgrado, a seguire l’esempio di quest’ultimo. Cosa staranno pensando, in questo momento le decine di migliaia di abitanti di Raqqa che subiscono, incolpevoli, i bombardamenti?

  2. Gennaro Olivieri 20 novembre, 2015 at 13:02

    Mi pare che Ackerman segua dei criteri un po’ ottocenteschi sia nel definire uno Stato che nel definire una guerra. I fatti sono più veloci della capacità degli studiosi di categorizzare. Se il Califfato Islamico non esiste come entità statale, c’è da chiedersi chi diavolo è che oggi sta controllando il nord dell’Iraq e della Siria. Allo stesso modo , c’è da chiedersi se la Siria o la Libia esistano ancora come Stati, stante l’ineffettività, nella maggior parte del territorio, del governo internazionalmente riconosciuto. Ancora: la Palestina viene oggi legittimata da alcuni come Stato, nonostante manchi dei requisiti minimi perchè si dica esistente uno Stato, e, di contro , alcune entità statali pienamente esistenti e funzionanti, non vengono riconosciute come tali da una buona parte del mondo (Israele).
    Riguardo al concetto di guerra, per quanto si voglia negare che in Siria sia in corso una guerra, come definire allora lo scontro senza quartiere di tutti contro tutti che dilania quel Paese ormai da anni? (Guerra civile non è corretto, dato che sono in campo più o meno ufficialmente anche diverse potenze straniere, che si ignorano l’una con l’altra ma indubbiamente bombardano e sparano cannonate.)
    Insomma, i bizantinismi linguistici e giuridici non bastano a nascondere il fatto che ad oggi, davanti a guerre condotte in modo nuovo e spregiudicato, ci troviamo tutti (non solo Ackerman) senza risposte e senza soluzioni.

    • Tigra 20 novembre, 2015 at 14:31

      Mi sa che siamo tornati ad una guerra primitiva, antecedente ai codici e alle regole che ci siamo sforzati di creare nell’era moderna.
      Questo ci spiazza e ci rende incapaci di risolvere il problema dei conflitti.

  3. Por Quemada 19 novembre, 2015 at 16:34

    Bene, mi sono letta il sermone dell’illustre professore, che dice anche delle cose condivisibili.
    Una però mi sfugge, e vorrei che me la spiegaste in parole povere: se all’ISIS non dobbiamo fargli guerra perchè così li si legittima, per combatterli cosa dobbiamo fare, spedire dei mazzi di fiori?

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