le storie

PAROLE SCOLPITE – Amin Malouf, L’identità, 1998

Amin Malouf è uno scrittore libanese, francese di adozione, che scrive romanzi nei quali la contaminazione culturale ha sempre un ruolo fondamentale, al pari delle prevalenti ambientazioni storiche. Forse non dovrebbe stare in questa rubrica, atteso che propongo un saggio invece e non un romanzo, ma credo che a volte si possa arrischiare qualche stravaganza, tanto più che il tema, quello dell’identità, è uno di quelli caldi del nostro tempo, e il tono della trattazione è quello dell’affresco storico di grande respiro. Può essere che queste parole siano meno “scolpite” di altre, ma inducono comunque ad attualissime riflssioni.

“Non è tipico della nostra epoca aver fatto di tutti gli uomini, in un certo qual modo, degli emigranti e degli appartenenti a minoranze? Siamo tutti costretti a viver in un universo che non assomiglia molto al nostro paese d’origine; dobbiamo tutti imparare altre lingue, altri linguaggi, altri codici, e abbiamo tutti l’impressione che la nostra identità, come l’immaginavamo fin dall’infanzia, sia minacciata.
Molti hanno abbandonato la loro terra natale, e molti altri, senza averla abbandonata, non la riconoscono più. Probabilmente ciò è dovuto in parte ad una caratteristica permanente dell’animo umano, naturalmente portato alla nostalgia; ma è dovuto ugualmente al fatto che l’evoluzione accelerata ci ha fatto attraversare in trent’anni ciò che un tempo si attraversava soltanto in numerose generazioni.
…. Prima di diventare un immigrato si è un emigrato, prima di arrivare in un paese si è dovuto abbandonarne un altro, e i sentimenti di una persona verso la terra che ha abbandonato non sono mai semplici. Se si è partiti vuol dir che si sono rifiutate delle cose, la repressione, l’insicurezza, la povertà, la mancanza di orizzonti. …. Parallelamente i sentimenti che si provano verso il pase di adozione non sono meno ambigui. Se ci si è venuti è perché si spera in una vita migliore per sé e per i propri cari, ma tale aspettativa è al tempo stesso carica di apprensione di fronte all’ignoto, tanto più che ci si trova in un rapporto di forza sfavorevole; si teme di essere rifiutati, umiliati, , si spia ogni atteggiamento che denoti il disprezzo, l’ironia, la pietà.
… Nei numerosi paesi in cui si affiancano oggi una popolazione autoctona, …. E un’altra popolazione arrivata più di recente, … si manifestano tensioni che pesano sui comportamenti di ciascuno. … E’ tanto più indispensabile posare uno sguardo di saggezza su tali questioni così passionali.
La saggezza è una linea di cresta, lo stretto sentiero fra due precipizi, fra le due concezioni estreme. … La prima di tali concezioni è quella che considera il paese di accoglienza come una pagina bianca su cui ciascuno potrebbe scrivere ciò che gli piace, o, peggio, come un terreno abbandonato su cui ciascuno potrebbe sistemarsi con armi e bagagli, senza cambiare nulla ai propri gesti né alle proprie abitudini. L’altra è quella che considera il pase di accoglienza come una pagina già scritta e stampata, … a cui gli immigrati non dovrebbero far altro che conformarsi.
Le due concezioni mi sembrano ugualmente prive di realismo, sterili e nocive.”

A me sembra che questo libro riesca a rinchiudere, in poco più di 100 pagine, i peggiori incubi del nostro tempo, oltre a qualche possibile soluzione, e credo che, per chi vorrà leggerlo, sarà possibile, ammirare una grande apertura mentale, una grande capacità di assumere il punto di vista dell’altro, mettendo in discussione il proprio, e una non comune capacità di sintesi.

0 lettori hanno messo "mi piace"
Print Friendly, PDF & Email
Share:

1 comment

  1. Canadair 1 marzo, 2015 at 13:12

    L’essere umano ha insito in se il senso di appartenenza, ad un luogo e di piu’ ancora, ad una comunita’. Ci portiamo dietro, raffinato nei secoli, il nostro vivere tribale della realta’, l’essere nutrito e protetto, prima dalla famiglia, poi dal gruppo; dal “noi”, contrapposto al “loro”. Dagli “altri”, potenziali alleati nei rapporti di consumo e di scambio e, allo stesso tempo, potenziali nemici da dover attaccare o da cui essere attaccati. Molti di questi sentimenti tribali si sono poi sublimati nel tempo, dal villaggio a zone geografiche piu’ ampie. Non avendo in Italia – con l’eccezione della piccola minoranza ebrea – etnie distinte, il senso di appartenenza, per secoli, si e’ catalizzato sul territorio, sulla lingua (molto spesso impropriamente chiamata dialetto), sulle tradizioni e culture di area.
    Io, anche se non strettamente nel senso proprio del termine, appartengo alla seconda generazione di emigranti, con i miei genitori che, per motivo di lavoro, da adulti si sono trasferiti in altre parti d’Italia. Migrazione interna, certo, ma sempre emigrazione che ha portato all’abbandono di una lingua di espressione quotidiana, l’abruzzese, per l’italiano, nuove abitudini e nuovi modi di relazionarsi agli altri. Cosa che, chi ha vissuto la mia esperienza sa, non e’ da poco. E dopo i miei genitori, e’ toccato a me, col conseguente abbandono personale dell’uso quotidiano dell’italiano per l’inglese.
    Cosa comporta tutto cio’? Certamente, nel mio caso, il superamento del mio essere, sia in relazione con me stesso che verso gli altri. Il capire che, in fondo, l’umanita’ e’ una e che, nonostante il mio colore della pelle o la mia provenienza geografica, alla fine non sono diverso, nei miei desideri, e bisogni, nella mia maniera di pensare e di agire, dagli altri. Siano essi nella condizione di immigrati che di autoctoni.
    Cosa che mi ha portato al superamento delle due concezioni estreme cui si accenna sopra. L’accettare la realta’ del paese ospitante non come una scatola chiusa e come una cosa a cui conformarsi acriticamente e neanche un mondo da cercare di voler plasmare sulla base di preconcezioni, abitudini e cultura originarie.
    Questo mi ha inoltre portato al superamento della concetto di “tolleranza” verso gli altri, che implica gia’ di per se, un senso di diversita’, di superiorita’, di divisione tra me, il mio gruppo di appartenenza e gli altri. Il capire che non ha senso chiudersi a riccio per cercare di difendersi da un mondo esterno che si presuppone potenzialmente ostile con, allo stesso tempo, rifiutare di aprirsi alla cultura, le abitudini, le diversita’ degli altri con i quali si convive.
    In questo, debbo dire, sono stato molto facilitato dal fatto che il paese nel quale sono emigrato e’, di per se, fatto da emigranti, sia di vecchia che di nuova generazione. Abituato, se cosi’ si puo’ dire, a relazionarsi con gente proveneinte da tutto il mondo.
    Il capire che la mia vera casa e’ il mondo dove vivo e dove ho messo radici. L’aver capito, finalmente, perche’ i miei genitori, arrivati alla pensione, pur non avendo impedimenti di sorta, non sono tornati nei luoghi nativi, dove pure avevano casa e affetti, ma hanno scelto di rimanere in una citta’ culturalmente e socialmente diversa dalla loro. E il perche’ la stragrande maggioranza degli emigrati in Canada sceglie di rimare qui, piuttosto che tornare in Italia.
    E’ sapere per esperienza vissuta che i ragazzini di colore, visti a Perugia correre felici all’uscita della scuola, sono italiani fin al midollo, molto piu’ di me che in Italia ci sono nato e cresciuto. Italiani come gli altri, non importa quale lingua parlino, quale religione pratichino e quale cibo mangino a casa.
    E’ sapere che la diversita’, il non essere in grado di appartenere pienamentre alla societa’ in cui vivono non e’ la loro. E’ dei genitori, italianissimi, che non fanno giocare i loro bambini coi figli dei marocchini e degli indiani. Senza rendersi conto che, alla fine, sono loro ad essere, nel contesto in cui vivono, i diversi, gli (auto) esclusi e emarginati.

Leave a reply

WordPress Appliance - Powered by TurnKey Linux