le storie

Anacleto, lo scariolante che andò a Genova

Gli scariolanti erano quei braccianti (poichè erano molto meno che operai), che trasportavano la terra con le carriole, durante i lavori di bonifica e di innalzamento degli argini di fiume, soprattutto lungo il corso del Po. Venivano arruolati ogni inizio settimana. A mezzanotte della domenica suonava un corno, e chi voleva avere il lavoro doveva andare con la propria carriola agli argini del Po. Lì avveniva l’arruolamento. La carriola era indispensabile per il lavoro.
Dal XV secolo fino a metà del XX, i lavoratori alzarono argini, scavarono canali, colmarono paludi. Alfiero Gualtieri, scariolante , nel 1966 scriveva così: ”La carriola era un mezzo indispensabile per il lavoro. Ogni scariolante ne aveva una preziosa come quasi le sue braccia. Partiva di casa la mattina, con la carriola al traino, legata alla bicicletta. Qualcuno la portava in testa, con la parte posteriore appoggiata alla schiena e pedalava così.”.
Una canzone nata dopo il 1880 fra i braccianti addetti ai lavori di bonifica delle paludi costiere della ‎Romagna e della provincia di Ferrara (e cantata poi anche durante le analoghe bonifiche dell’Agro ‎Romano e Pontino) dice così: ” A mezzanotte in punto si sente un gran rumor – sono gli scariolanti lerì lerà che vengono al lavor. Volta, rivolta e torna a rivoltar – noi siam gli scariolanti lerì lerà che vanno a lavorar.”

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Anacleto, così si chiamava un fratello di Olmo, di cui ho già raccontato in altro scritto, negli anni ’20 faceva lo scariolante. Come molte altre, la famiglia di origine era numerosa, e assai povera. La guerra aveva sottratto i giovani alla loro vita, e quelli che erano tornati avevano perso il lavoro e dovevano arrabattarsi con i lavori più umili e massacranti. Gli eventuali scioperi venivano duramente repressi.
Anacleto, un bel giorno si stancò di questa vita infame. All’ultima “scariolata” di un giorno faticoso, rovesciò la carriola in fiume, con accompagnamento di sani improperi. Lasciò il paese, andò a Genova, dove lavorò al porto nella riparazione e demolizione delle navi.

 

Regalò al fratello un orologio a muro, tuttora esistente, anche se il meccanismo si è inceppato. Ha il quadrante con le ore indicate da numeri romani, e una chiave che serve per caricarlo. Ai suoi tempi era incassato nel legno di qualche cabina, chissà se di qualche comandante o ufficiale di bordo. Conserva l’aspetto di un oggetto che ai suoi tempi doveva essere prezioso.
Destino vuole che quasi un secolo dopo , una grande nave, la “Concordia”, venga smantellata nel porto di Genova. Nello stesso porto dove Anacleto lavorò alla demolizione di antichi vascelli e vecchi bastimenti alla fine dei loro giorni di navigazione, recuperando un orologio che conserva la memoria di una nave come se fosse una persona oggi sconosciuta, ma che in passato doveva essere importante.

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Fabrizio De Andrè nello struggente brano “D’a mae riva”, parla del distacco del marinaio che si allontana dalla sua Genova e sa che sarà per molto tempo . Vede, mentre la nave si allontana dal porto ,un fazzoletto bianco che sventola, il saluto della sua compagna. Mentalmente fa l’inventario delle cose messe da lei nel baule, che porta con sè: tre camice di velluto, due coperte, un mandolino e in fondo ad un berretto scuro, la foto di quando lei era ragazza…

 

Mi piace pensare che Fabrizio de Andrè abbia saputo interpretare con questo bellissimo brano i sentimenti dei marinai, al momento del distacco dagli affetti e da Genova. Anche di quelli che si imbarcarono sulla nave da cui proviene l’antico orologio.

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