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Catalogna, la democrazia illegale

Catalogna, la democrazia illegale Catalogna, la democrazia illegale

 

In un’atmosfera tra il dramma dell’assurdo e la festa patronale si è tenuto il referendum sull’indipendenza della Catalogna. Nel momento in cui scriviamo, non si conosce quale sia stata l’affluenza alle urne nè quale percentuale (probabilmente altissima) abbia raggiunto il Sì, data la precarietà dell’accesso ai seggi e le condizioni di voto tutt’altro che serene, tant’è che a urne già aperte il Presidente della Catalogna aveva dato libertà ai catalani di votare in qualsiasi seggio anzichè solo in quello di iscrizione. Una consultazione tenuta in condizioni così irregolari sarebbe di per sè invalida, se non fosse che già tutte le parti in causa, compreso il fronte indipendentista, erano pienamente coscienti dell’illegalità di questo voto. Lo stesso Presidente catalano Puigdemont ha dichiarato sabato che il significato del referendum sarebbe stato quello di una “grande mobilitazione” e addirittura di un “momento di trascendenza”. Qualsiasi cosa significhi trascendenza in questo caso, è chiaro che al referendum non conseguirà una dichiarazione di indipendenza da parte del governo della Catalogna.
La presa d’atto da parte degli indipendentisti dell’illegalità del referendum si è avuta quando sarebbe stato chiaro che nessun sostegno nè tanto meno il riconoscimento del nuovo Stato sarebbe arrivato dalla UE nè da altre Nazioni. La giornata ha però assunto il contenuto di una grande manifestazione, dalle modalità del tutto pacifiche e all’inizio addirittura festose, contro il governo Rajoy e genericamente contro la crisi economica. Lo stesso segretario del Partito Socialista Catalano (anti-secessione) ha dovuto riconoscere che l’incapacità della sinistra di dare risposte a rivendicazioni economiche e sociali ha lasciato campo libero all’indipendentismo: l’indipendenza è diventata “l’unica utopia disponibile”.

Resta comunque difficile accogliere in toto la posizione di chi, come lo scrittore Xavier Cercas in una intervista al Corriere della Sera, sostiene che il referendum sia “un attacco alla democrazia portato in nome della democrazia”. E’ chiaro che sia stato portato un attacco all’ordine costituzionale e all’integrità del Regno di Spagna determinato principalmente da poco nobili ragioni di fisco (giacchè, per evidenza e comune ammissione dei catalani tutti, la lingua e la cultura catalane non non sono mai state così tutelate e fiorenti come oggi). Ma la grande dimostrazione di disobbedienza civile che ha avuto luogo domenica e la sua stolida repressione da parte delle forze dell’ordine del Regno appaiono tutt’ora su tutti gli schermi TV del mondo, e lasciano ben pochi dubbi su quale delle due forze in campo stia praticando la democrazia e quale no.

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In questo difficile confronto fra legalità e democrazia, brilla per ignavia l’Unione Europea. La laconicità e la pochezza di contenuti delle dichiarazioni delle alte cariche UE indicano che l’Unione, mentre da un lato non ha la minima intenzione di riconoscere un nuovo Stato qualechesia, ma solo per non creare un precedente pericoloso, dall’altro non va al di là di generiche dichiarazioni sull’integrità territoriale dei Paesi membri, guardandosi bene però da proporre solidarietà e sostegno concreti al governo Rajoy. Insomma: spagnoli e catalani, vedetela voi che noi ne stiamo ben fuori, e beccatevi Tajani.

Si da in effetti una situazione paradossale: pressochè tutti i movimenti indipendentisti del vecchio continente (più o meno attivi) sono tanto vogliosi di liberarsi dalle catene di Stati oppressori quanto di essere accolti nel seno di un’Unione sovranazionale, mentre la UE mostra di ripudiare i suoi ideali primordiali (essere un’unione di Popoli!) e di preferire essere un semplice amministratore di un condominio di Stati (molti dei quali faticano a pagare le spese condominiali), amministratore che spesso infligge ai Popoli grandi sacrifici in nome dell’economia integrata. La UE quindi respinge a priori le istanze di movimenti indipendentisti che hanno in gran parte caratteri democratici, pacifici e filoeuropei, mentre si trova a sostenere governi di Stati che ormai in mezza Europa hanno spesso posizioni antieuropee e addirittura evidenti caratteri antidemocratici.

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Questa ambiguità è per l’Unione potenzialmente disgregante. La rinuncia a dare risposte che non siano l’austerity a una crisi economica che continua a soffocare le popolazioni prima degli Stati, e la rinuncia alle idealità fondanti di quella che nacque per essere un’unione di popoli hanno trovato perfetta espressione nel chiamarsi fuori dalla questione catalana. Ci sembra che il dovere della UE sia invece quello di partecipare al confronto e di favorire la sua composizione, innanzitutto e subito ponendosi come mediatrice tra Catalogna e governo spagnolo; da qui potrebbe anche nascere una discussione feconda sui diritti dei Popoli a scegliere le forme sia dello Stato che della gestione dell’economia, ma forse sarebbe chiedere troppo.

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Di Maio

 

 

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