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Joseph Conrad, il cinema impossibile

Conrad

Joseph Conrad è stato probabilmente un buon marinaio, come testimonia la sua apprezzabile carriera in un’epoca in cui era molto difficile avere il comando di navi mercantili inglesi se non si aveva un vero talento, e se consideriamo che questa carriera è durata solo 16 anni, prima che l’ancor giovane immigrato polacco decidesse di abbandonare il mare e diventare uno scrittore, dobbiamo credere che alcune delle immagini che ha scolpito sul ponte di comando di una nave avessero un carattere almeno parzialmente autobiografico.

Era il tempo in cui la navigazione a vela volgeva al declino, le navi perdevano la loro nobiltà e la loro poesia, cedendo il passo al progresso, e i marinai sostituivano con la tecnica conoscenze e abilità che richiedevano istinto infinito e un tocco di magia. Conrad apparteneva già al passato, era un uomo della vela, uno di quelli che probabilmente ne hanno sofferto in modo diretto la scomparsa, e non saprei dire se l’avvento del vapore abbia contribuito alla sua scelta di lasciare il mare: penso di no, perché il suo talento di scrittore, della cui grandezza era forse cosciente, ma della cui importanza non sarebbe mai riuscito a sapere, era sufficiente per fargli intraprendere la nuova strada, ma mi piacerebbe anche pensare di sì, perché di tutti i mestieri inventati dall’uomo l’unico forse paragonabile per fascino e suggestione a quello del marinaio, fino al volgere del XIX° secolo, è quello dell’astronauta.

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Quale che sia la risposta, che non sapremo mai, Conrad è comunque riuscito a fare due dei mestieri più belli del mondo, e se anche nel suo mondo non c’era un briciolo di ottimismo, e la natura umana era per lui un abisso insondabile e spaventoso, credo che a buon diritto potrebbe essere stato soddisfatto di sé stesso e della sua vita.

Conrad lascia il mare nel 1894, a soli 36 anni, e nei 30 che gli sarebbero restati da vivere, in modesta agiatezza e con un successo sicuramente inferiore alle sue ambizioni, diventa uno dei grandi scrittori di lingua inglese del XX° secolo, prima, in vita, agli occhi degli addetti ai lavori, e dopo la sua morte anche per il grande pubblico, ma questo è un destino che condivide con molti altri autori.

 

 

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  Prova di locandina per il film "Cuore di tenebra", progettato da Orson Welles

 

A meno di vent’anni dalla sua scomparsa un altro artista baciato dal talento si presenterà nella Mecca del cinema con l’intento di passare alla storia, e pur riuscendoci con Citizen Kane, deciderà, prima di realizzare il suo capolavoro, di abbandonare il progetto originario, che era quello di realizzare la trasposizione cinematografica di Heart of darkness, dichiarando in modo più o meno testuale che da lì, da quel libro, non si poteva passare, per fare un film.

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Da Conrad erano già state tratte numerose pellicole di scarsa importanza, una addirittura nel 1919, prima della sua morte, e altre ne sarebbero state girate in seguito, forse a causa dell’ambientazione esotica delle sue opere e di una errata convinzione sulla loro natura avventurosa, ma è innegabile che il giudizio di Orson Welles abbia avuto un che di definitivo, e il giovane avventuriero polacco diventato marinaio e scrittore inglese sarebbe stato (quasi) per sempre uno degli autori “meno cinematografici” della storia della letteratura.

 

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    Orson Welles che valuta scenografie e bozzetti per "Cuore di tenebra".

 

Io credo che il giudizio di Welles fosse essenzialmente fondato, naturalmente non perché ci siano trasposizioni impossibili, se si è sufficientemente bravi quasi tutto si può fare, ma perché nel caso di Conrad è davvero ostica la materia prima da cui si deve partire, e per avere successo ci vuole un talento veramente grande. Welles non l’aveva? Io penso di sì, ma lui ha evidentemente pensato di no, o forse ha semplicemente seguito un’altra idea, e non abbiamo avuto il suo Cuore di tenebra.

Dopo di lui ci hanno provato in pochi, 16 in tutto, mi risulta, alcuni anche di talento, Carol Reed (An Outcast of the Islands – Un reietto delle isole), Richard Brooks (Lord Jim) e Andrej Wajda (The Shadow Line – La linea d’ombra) su tutti, ma solo in due hanno avuto un meritato successo, Ridley Scott con “I duellanti” (tratto da The Duel), e Francis Ford Coppola, a cui non ha mai fatto difetto l’autostima, che si è cimentato con la rinuncia di Welles.

 

 

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Ridley Scott e Francis Ford Coppola (cliccare immagini per miglior risoluzione)

 

Ma perché Conrad è così difficile per il cinema? Se dovessi ridurre il problema all’osso, direi che il motivo sta nel fatto che ti irretisce con soggetti straordinari, dai quali è difficilissimo trarre una sceneggiatura, per almeno tre motivi, intrecciati fra loro, ma che possono forse essere compresi solo se si esaminano separatamente.

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Il primo è legato all’ambientazione marinara di molte storie.

Sul mare si possono fare i documentari, ma non si possono fare film, per due diverse ragioni: innanzitutto il mare, al netto dei moderni effetti speciali, che in effetti hanno ridimensionato il problema, fa quello che vuole lui e non quello che vuole il regista, ragion per cui la messa in scena diventa difficilissima, oppure molto costosa; in secondo luogo per capire il mare di cui parla Conrad bisogna essere dei marinai, se no si parla d’altro e si racconta un’altra storia.

 

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Porto di Glasgow, tardo 19 ° secolo, con un mix di navi a vapore e navi a vela.

 

Fra i tanti disponibili provo a fare due esempi, scelti per la loro qualità letteraria fuori dal comune, uno tratto da Typhoon, legato alla navigazione a vapore, e l’altro preso dal Nigger of the Narcissus, nave su cui Conrad ha effettivamente navigato, ambientato nell’ultima età della vela.

Da Typhoon:

Nessuno – nemmeno il capitano MacWhirr, che solo sul ponte aveva visto avanzare una bianca cresta di schiuma ad un’altezza tale da non credere ai suoi occhi – nessuno avrebbe mai saputo la ripidità di quell’ondata enorme, e del vuoto spaventoso che l’uragano aveva scavato dietro quell’avanzante muraglia d’acqua. Correva incontro alla nave, e il Nan-Shan si fermò un istante, quasi a prender lo slancio, sollevò la prua e saltò”.

Bisogna averla vissuta questa scena per capirla, bisogna averla guardata dal basso un’onda di dieci metri per sapere l’impressione che fa, bisogna averlo aspettato l’attimo in cui la nave si ferma prima di saltare, dopo aver rallentato salendo sull’onda, e poi, quando precipita nel cavo e ti spinge lo stomaco in gola, ti fa credere che da quella caduta non ti rialzerai mai più.

 

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La copertina de The Shadow Line (la linea d'ombra) di Joseph Conrad da cui 
il regista polacco Andrzej Wajda nel 1976 trasse Smuga cienia (La linea d'ombra).

 

Naturalmente tutto questo le parole te lo possono raccontare, perché si possono descrivere le emozioni e si possono spiegare i pensieri, ma le immagini di una burrasca, per chi non le conosce, valgono come un giro sulle montagne russe, e non dicono nulla; del resto Conrad la parte principale della tempesta, quando il mare diventa veramente cattivo, neanche la racconta: il capitolo si conclude con il capitano MacWhirr che riferito alla nave nella burrasca esclama la frase “Mi spiacerebbe perderla”, e la voce narrante che chiosa “Questo dolore gli fu risparmiato”. Il capitolo successivo inizia con il malconcio Nan-Shan che entra in porto, e la potenza narrativa di questa cesura, dove la tempesta è taciuta, ma i marinai la comprendono benissimo, è lontana anni luce da qualunque schermo cinematografico.

Dal Nigger of the Narcissus:

“… il Narcissus entrò in darsena. Le sponde di pietra correvano diritte a destra e a sinistra, racchiudendo uno smorto specchio rettangolare. Delle mura di mattoni salivano alte sopra l’acqua – mura senz’anima, che fissavano attraverso centinaia di finestre sinistre e opache come occhi di bruti troppo sazi. Alla base si accovacciavano delle mostruose gru di ferro, dai cui colli pendevano catene che facevano dondolare ganci minacciosi sopra i ponti di navi inanimate. Un rumore di ruote sul lastricato, il tonfo di cose pesanti che cadevano, lo stridio febbrile dei verricelli, il cigolio di catene tese, ondeggiavano nell’aria. Fra alti edifici la polvere di tutti i continenti turbinava in lente volute; un sentore penetrante di profumi e di sudiciume, di droghe e di pelli, di merci preziose e di cose immonde, saturava lo spazio, rendendo l’atmosfera preziosa e nauseante. Il Narcissus scivolò lievemente al suo posto d’ormeggio, l’ombra delle mura senz’anima l’investì, la polvere di tutti i continenti s’abbattè sul suo ponte e uno sciame di estranei, arrampicandosi sui suoi fianchi, se ne impossessò in nome della sordida terra. Aveva finito di vivere.

 

 

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Prime edizioni britanniche (in alto) e americane (in basso),1897,
     de The Nigger of the Narcissus di Joseph Conrad.

 

Qui c’è l’essenza di Conrad, non solo una narrazione evocativa, che trasforma immediatamente i fatti in sensazioni e in simboli, ma c’è anche, come prima, il linguaggio dei marinai, che è uguale ovunque, ma che appartiene solo a loro: le navi inanimate, la polvere di tutti i continenti, le mura senz’anima e la sordida terra sono la fine della vita. Non importa se altri possono sorridere, i marinai ci credono, perché per loro la vita comincia quando la polvere di tutti i continenti viene scacciata dalla brezza del mare, e come la mostri al cinema la polvere di tutti i continenti? Con quale immagine, con quale forza, se il fulcro non sono le parole?

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Harvey Keitel nei panni di Feraud (Fournier) nel film I Duellanti (1977) di
                      Ridley Scott, tratto da The Duel di Conrad.

 

Il secondo è il carattere introspettivo della narrazione di Conrad, nella quale il pensiero prevale sempre sull’azione, e ne diventa una delle più significative cifre stilistiche. Lord Jim è in ciò un esempio perfetto, il suo atto di vigliaccheria si svolge in un lasso di tempo brevissimo, alla fine è un semplice gesto, ma quei pochi fatti sono dilatati per 17 capitoli e 100 pagine: la vecchia nave col suo carico di pellegrini che urta un relitto a pelo d’acqua, l’equipaggio di bianchi, terrorizzato, che temendo l’affondamento repentino decide di abbandonarla assieme al suo carico umano, per il quale del resto non aveva neppure le scialuppe, Jim che senza sapere perché alla fine salta sulla lancia di salvataggio come tutti gli altri, a dispetto di un travaglio interiore breve nel tempo e lunghissimo nella narrazione, il salvataggio dei naufraghi legati dal segreto inconfessabile, e poi la nave, il Patna, che ricompare, perché a dispetto dei danni non è infine affondata, e torna nel mondo col suo carico di fantasmi che riprendono vita, smascherando l’oscena vigliaccheria. E poi il processo, Marlow, il narratore, che diventa a sua volta protagonista e regge le fila della storia, e non solo del suo racconto. Brierly, uno dei giudici di Jim, il più grande marinaio d’oriente e d’occidente, l’uomo perfetto che non ha mai commesso un errore e che ha navigato per tutta la vita di successo in successo, che improvvisamente crolla sotto il peso di una vicenda che sembra non riguardarlo in nulla, e ci fa vedere in modo emblematico come la tecnica del ribaltamento, tante volte utilizzata da Conrad, come quella che abbiamo visto prima dell’elisione, smascheri le parvenze della realtà per restituirci solo dei misteri più grandi.

È bellissimo, sul piano letterario, l’ingresso in scena di Brierly:

Egli non aveva mai commesso uno sbaglio in vita sua, mai avuto un incidente, mai un contrattempo, mai un intoppo nella sua costante ascesa, e pareva essere uno di quegli individui fortunati che non sanno cosa sia l’indecisione, e tanto meno la sfiducia in se stessi. … Aveva una acuta consapevolezza dei propri meriti e delle relative ricompense. … Sul suo animo contento di se i colpi della vita non avevano maggior effetto del graffio di uno spillo sul fianco levigato di una montagna. Era una cosa invidiabile. Mentre lo guardavo là al fianco del giudice pallido e dimesso che presiedeva l’inchiesta, il suo autocompiacimento offriva a me e al mondo una superficie dura come il granito. Si suicidò pochissimo tempo dopo”.

Come si scrive con il linguaggio delle immagini quel “Si suicidò pochissimo tempo dopo”? La sua inquietudine di fronte a Jim è palpabile, la vediamo diventare angoscia, sappiamo che forse per questo si ucciderà, ma la sua morte perfettamente teatrale e perfettamente dettagliata fin nei minimi particolari resterà un mistero come un mistero è ogni animo umano.

 

 

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La fine di Kurtz in Apocalypse Now.  (cliccare immagine per miglior risoluzione)

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Il terzo, intimamente legato all’introspezione, è il suo costante scavare nella natura umana, con l’occhio freddo e distaccato di chi sa già le risposte, e cerca le domande pur sapendo di non poterle trovare; i suoi personaggi sono tragici, macchiati dal peccato, lacerati dalla colpa, divorati dall’inquietudine, sconvolti dall’insicurezza, hanno un passato che non li porta verso il futuro, e a volte un futuro che divora il passato.

 

Kurtz è il gigante di questi personaggi, li riassume e li rappresentata tutti, e la sua uscita di scena, dimessa, antieroica e banale, vista attraverso gli occhi di Marlow, mai altrove come qui alter ego di Conrad, è uno dei grandi brani della letteratura di ogni tempo, una pagina che tutti conoscono, e che suona nuova ad ogni lettura, perché scritta con parole che lasciano nudi la mente e il cuore degli uomini:

Il destino. Il mio destino! Che cosa buffa è la vita – questo misterioso adattamento della logica implacabile ad un futile scopo. Il massimo che uno può sperare da essa è una certa conoscenza di se stesso – che giunge troppo tardi – messe di inestinguibili rimpianti. Ho combattuto con la morte. È la contesa meno interessante che si possa immaginare. Si svolge in un grigiore impalpabile, senza nulla sotto i piedi, senza nulla intorno, senza spettatori, senza clamore, senza gloria, senza il grande desiderio della vittoria, senza la grande paura della sconfitta, in una atmosfera malaticcia di tiepido scetticismo, senza molta fede nel proprio diritto, e ancora meno in quella dell’avversario. Se tale è la forma della saggezza suprema, allora la vita è un indovinello più grande di quanto alcuni di noi non credano. Fui a un pelo dall’ultima occasione per pronunciarmi, e scopersi con umiliazione che probabilmente non avrei avuto nulla da dire. Questa è la ragione per cui affermo che Kurtz era un uomo notevole. Egli aveva qualcosa da dire. La disse. E poiché anch’io ho sbirciato al di là del ciglio, capisco meglio il significato del suo sguardo fisso, che non poteva vedere la luce della candela, ma era tanto ampio da abbracciare l’universo intero, tanto acuto da penetrare tutti i cuori che battono nelle tenebre. Egli aveva tirato le somme – aveva giudicato. “Che orrore”.

E quando alla fine del libro la tenebrosa bugia di Marlow rifiuta di rendere giustizia a Kurtz, capiamo perfettamente che “… la tranquilla via d’acque che portava ai confini estremi della terra…pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa”.

 

 

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 Francois Fournier-Sarloveze e Pierre Dupont de l'Étang, la pluriennale sfida
                  dei due fu l'ispirazione de The Duel di Conrad.

 

 

Di qui non si passa, diceva il giovane Orson Welles, e anche se poi qualcuno in qualche modo è passato, aveva sostanzialmente ragione: qual è, nel linguaggio delle immagini, “il cuore della tenebra immensa” ?  Con quale faccia si mostra “la contesa meno interessante che si possa immaginare” ?  Come si può vedere l’orrore in uno sguardo che non vede la candela, ma che abbraccia l’universo?

Non si può, e se qualcosa da Conrad si vuole rubare, lo si deve per forza tradire: si prende un’idea, l’ossessione di Gabriel Féraud per l’onore, o lo sguardo di Kurtz sull’orrore, se ne tiene il cuore e si abbandona la struttura, perché non si può impunemente sfidare l’essenza delle parole; i libri di Conrad sono immensi, ricchissimi anche quando sono brevi, complessi e articolati, con una percentuale trascurabile di fatti e una quantità infinita di pensiero, e nel cinema c’è troppa pancia perché vi possa dominare il pensiero.

Dei due che non hanno preso il libro nei denti, il più conradiano mi pare Scott, che si è attenuto a più miti consigli.

 

 

The duel è un piccolo libro, quasi a episodi, e con una struttura teatrale rigida che ti vincola ad una maggior fedeltà: alla fine si ha la sensazione che nella storia dell’onore e della vita di Feraud, conquistati dalla rabbia di d’Hubert, Scott sia riuscito a marciare allo stesso ritmo di Conrad, ma forse il fatto che non ci abbia mai più riprovato dimostra che non deve essere stato facile: nel film successivo chiamare Nostromo l’astronave di Sigourney Weaver sembra allo stesso tempo un omaggio e un saluto.

 

Heart of darkness ha una densità assurda, è un romanzo breve dal quale si sarebbero potute ottenere 500 pagine o anche di più, non ha sintesi unitaria, è smisurato nell’ambizione quanto è contenuto nella dimensione, è persino fortemente autobiografico, ma parla quasi esclusivamente  di ciò che Conrad sa di non conoscere, l’anima dell’uomo.
Se c’è una cosa che mi colpisce del film di Coppola, è che per sfondare quel muro, per passare dalla strada sbarrata, è stato necessario dilatarne i tempi e la struttura, e poi condensare in un’unica scena, teatrale come nessuna, epica e forse irripetibile, la prestazione di un mattatore che voleva sfidare la sua storia. Qui l’infedeltà è totale, immensa come la complessità della lingua di Conrad, ma c’è quell’unica scena che stabilisce il contatto e tiene insieme il film al libro, anche nella giungla della Cambogia, con gli elicotteri che sparano e Jim Morrison che canta la fine.

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In fondo due film riusciti non sono una brutta percentuale per una cosa che doveva essere impossibile …

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