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Da Enrico a Matteo…

 

Enrico Matteo Enrico Matteo Enrico Matteo Enrico Matteo

Negli anni 80 E. Berlinguer alla ricerca di una via nazionale al socialismo per la prima volta affermava “l’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre” di cui quest’anno ricade il centenario.
Con le ovvie differenze stante la diversa rilevanza del fenomeno, oggi possiamo affermare che il partito di Renzi ha sicuramente perso forza attrattiva e la spinta espansiva delle origini. Con Renzi si è conclusa la lenta ma incessante mutazione genetica del PD da erede del più prestigioso partito di massa dell’occidente a partito su base personale del leader.

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La mutazione ormai irreversibile che ha prodotto una dolorosa scissione, ha di fatto aumentato la distanza tra partito e società, tra partito e popolo a tal punto da costituire un corpo estraneo.
Il partito ha ridotto i suoi compiti e le funzioni, limitandosi quasi esclusivamente ad allestire la macchina elettorale per organizzare e catturare il consenso, rimanendo tuttavia distante non solo dalla società e le sue problematiche ma anche dai singoli individui che compongono la società.
Con il renzismo è definitivamente tramontata l’idea che ha reso attrattivo e forte il vecchio PCI, ovvero l’idea di un partito immerso permanentemente nel movimento della società e della vita politica, un partito capace di definire con la società, con le sue forme politiche organizzate, con le varie culture attive al suo interno, gli obiettivi e le tappe del cambiamento. La tradizione del PCI era radicata in un bisogno di democrazia di massa, di popolo che si organizza, di operai e di lavoratori che volevano contare (da subito), contro l’attesa, contro la delega a chi sta in alto, contro la lontananza e la separatezza del potere che caratterizzano l’attuale fase.
L’innovazione era costituita dal bisogno di una democrazia di massa, come base e forma del cambiamento sociale.

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Il vecchio partito riconosceva e coinvolgeva una pluralità di posizioni politiche, di culture, di matrici ideali, richiedeva confronto, libertà, rischio nel creare e nell’innovare, non soffocava i conflitti ma si sforzava di governarli democraticamente. Sotto l’ombrello dell’unità quale valore primario e fondante, erano sconosciuti il disprezzo per la minoranza e l’arroganza decisionale.
La democrazia non può consistere solo nell’esercizio del diritto di voto, non è solo appello al popolo.
La democrazia non è eleggere un leader cui affidarsi, al quale conferire una delega per un governo dall’alto.
La democrazia è soprattutto partecipazione, sì partecipazione alla formazione della volontà di governo e alle scelte.

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La fase attuale si caratterizza per un gravissimo deficit di partecipazione che involge la struttura interna del partito. Più in generale il deficit di partecipazione genera sentimento di impotenza nelle persone rispetto alla possibilità di cambiare le cose con gli strumenti della politica. Ogni tentativo di mobilitazione, di risvegliare interesse risulta infruttuoso. Aumenta la disaffezione persino al voto, il partito di coloro che non votano continuamente si accresce ed è divenuto maggioranza assoluta nel paese.

 

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Toteninsel

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