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La democrazia batte un colpo

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Le elezioni americane di midterm hanno sostanzialmente rispettato le previsioni, che annunciavano la vittoria dei democratici alla Camera dei Rappresentanti e quella dei repubblicani al Senato. Non c’è stato il colpo di coda di Trump, che due anni fa era stato capace di ribaltare tutti i pronostici alle elezioni presidenziali, e non c’è stata la travolgente onda blu dei democratici, che avrebbe trasformato il Presidente nella famosa anatra zoppa ricorrente nella politica degli Stati Uniti. La Camera ha certamente grandi poteri, e Nancy Pelosi non ha aspettato un minuto per ricordare che da questo momento i democratici hanno tutti gli strumenti necessari per condizionare o bloccare l’iniziativa del Governo, ma è anche vero che Donald Trump conserva le leve della politica estera e la possibilità di governare tutte le nomine fondamentali che sono di competenza del Senato.

Nella sostanza i commenti prevalenti sembrano vedere il bicchiere mezzo pieno dalla parte del Presidente in carica, soprattutto per la tenuta in stati chiave per le elezioni presidenziali, come Florida, Ohio e Texas, e forse per questo non è mancato chi ha messo in guardia i democratici dal farsi tentare troppo dall’idea dell’impeachment, che potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, facendo passare Trump per una vittima. Quanto Trump si senta sicuro su questo punto è probabilmente indicato dalla richiesta di dimissioni ad urne appena chiuse rivolta all’Attorney General (Ministro della Giustizia)  Jeff Sessions, che sembrano preludere ad una possibile sostituzione del Procuratore Speciale Mueller, colui che conduce l’indagine sul Russiagate.

Eppure, oltre agli elementi favorevoli a Trump che sono stati evidenziati, ci sono alcuni dati che meriterebbero un maggiore approfondimento, e qualche ulteriore considerazione. Vediamole.

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La prima riguarda i numeri del voto. Trump è stato uno dei pochi presidenti che ha perso il voto popolare, che non è mai una bella cosa, ma se contro Hillary, rivelatasi alla fine il peggior candidato possibile, la differenza di voti era stata marginale, in queste elezioni i democratici hanno staccato di quasi 10 punti i repubblicani. Naturalmente nelle elezioni presidenziali la percentuale complessiva non ha un valore assoluto, ma nessuno ha mai vinto la presidenza con un simile svantaggio nel voto popolare. Per quanto riguarda invece il voto del Senato, che ha premiato i repubblicani, va ricordato che il dato è molto meno significativo di quello della Camera, in quanto ogni stato elegge due senatori, indipendentemente dal numero dei suoi abitanti; è chiaro che se gli eletti provengono da stati poco popolosi, rappresentano un minor numero di cittadini, e questo dato penalizza in modo evidente il partito dell’elefante. I 30 stati meno popolati danno 35 senatori ai repubblicani, e 25 ai democratici, mentre i 20 stati più popolosi ne attribuiscono 24 ai democratici e soli 16 ai repubblicani. Sono numeri stimati perché 3 seggi non sono ancora stati aggiudicati, ma se così fosse, in una immaginaria classifica che assegnasse ad ogni senatore la rappresentanza della metà degli abitanti del suo stato, salterebbe fuori che i senatori democratici rappresentano circa 40 milioni di cittadini in più dei senatori repubblicani.

 

La seconda è relativa alle dinamiche interne del voto, che vedono i democratici prevalere nelle aree urbane e suburbane, oltre che fra le donne, gli elettori più scolarizzati e fra quelli più giovani, mentre rimangono indietro nelle zone rurali e fra i cittadini a più basso reddito. I principali bacini elettorali di riferimento non sono stati stravolti rispetto a due anni fa, ma è indubbio che l’onda blu, pur non essendo travolgente, ha invertito la  tendenza che aveva consentito la vittoria di Trump. Il fatto poi che alcune elezioni di Governatori, come quelli del Texas e della Florida, si sia conclusa con una vittoria di misura dei repubblicani, non è certo per loro un segnale di buona salute. Va infine ricordato che i democratici hanno potuto contare su una maggiore affluenza al voto, che ha spinto, tanto alle primarie del partito quanto ai seggi elettorali, molti candidati riconducibili alla corrente di Bernie Sanders, recuperando elettori che erano rimasti a casa piuttosto che votare per la Cinton. Ciò non si è tradotto in un ribaltamento della collocazione degli eletti democratici, che rimane sotto il controllo della vecchia classe dirigente clintoniana, ma dopo due anni di governo da parte di Trump è probabile che gli elettori di sinistra abbiano spinto sia i propri candidati che quelli centristi, superando almeno oggi una delle ragioni della sconfitta del 2016.

 

 

La terza riguarda invece l’attuale situazione economica americana, la cui ripresa, legata ad un aumento dell’occupazione e dei consumi, ha certamente favorito la corsa dei repubblicani. Quanto durerà? La ripresa americana è stata fatta sostanzialmente in deficit, in una percentuale pari e probabilmente superiore alla crescita stessa, oltre che in presenza di una spinta protezionistica che non ha ancora prodotto effetti, ma che ne potrebbe produrre, di negativi, prima delle prossime elezioni. È così scontato che la benzina inserita nel motore repubblicano da questa politica possa durare altri due anni? Ed è così ovvio che debbano essere sempre i repubblicani a dissestare il bilancio dello stato, come un governo italiano qualunque, nell’illusione che il deficit infinito sia sempre un fattore di sviluppo del’economia? E poi, quanto del programma economico e politico di Trump potrà essere realizzato nei prossimi due anni, con la Camera a maggioranza democratica?

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A me pare che non siano poche le dinamiche che si sono rimesse in moto in questa elezione di midterm, e se era illusorio immaginare un Trump d’ora in poi rinchiuso alla Casa Bianca e assediato dai democratici, non riesco a considerare disprezzabile il risultato di ieri, in un momento in cui vincono le elezioni dei fascisti ributtanti come Bolsonaro, e l’Europa rischia l’onda populista di qui a pochi mesi. Certo, oggi i democratici non hanno un candidato, e non c’è nessun nessuna ragione per credere che il risultato di ieri si possa meccanicamente traslare in una elezione presidenziale. La tenuta di Trump in stati importanti, sia pure con percentuali inferiori a quelle del 2016, non certifica solo la ripresa democratica, ma anche la consistenza repubblicana, e in un meccanismo che non privilegia il voto popolare tutto può ancora succedere. Però se vogliamo essere onesti, bisognerà pur dire che questo è  il primo segnale importante di un riflusso dell’onda populista e sovranista che ha spazzato l’occidente negli ultimi cinque anni almeno. Sta ai democratici, ai loro leader e ai loro elettori, mettere ora a frutto questa occasione, sfruttare il fatto che Trump sia ora in larga minoranza nel voto popolare, e trovare la strada per impedire la rielezione di un presidente capace di far rimpiangere Bush figlio.

 

C’è infine un’ultima questione che a me pare essenziale. L’attuale situazione americana, e non solo quella in realtà, si è sempre più radicalizzata, sotto il profilo ideologico ancor prima che politico ed economico, ed è arrivata in un punto in cui il perimetro della democrazia fatica a contenere gli attori in campo. Si è ormai consumata qualunque forma di reciproco riconoscimento, i valori condivisi sono sempre di meno, e i meccanismi identitari sempre più incompatibili. La razza e i principi etici, specialmente quelli più civilmente reazionari, sono tornati ad essere decisivi, e in alcuni casi sono considerati pure più importanti delle questioni economiche. Del resto, in un mondo in cui si sono disgregati i meccanismi di appartenenza, e gli strati più poveri della popolazione votano a destra senza apprezzabili vantaggi, la lotta è senza esclusione di colpi, e in questo momento non si capisce se e quando sarà possibile stabilire un nuovo equilibrio. Che Trump possa rivincere, e potrebbe farlo, pur essendo chiaramente il rappresentante di una minoranza della società americana, è il paradosso che devono affrontare oggi i democratici. Hanno indubbiamente una grande responsabilità, perché un mondo disegnato da Trump e dalla Corte Suprema che ha creato è un mondo che fa francamente schifo, quali che siano le possibili alternative. Sarebbe un mondo orribile anche se fosse figlio di una larga maggioranza, è insopportabile l’idea che possa nascere con un voto minoritario.

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