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Dobbiamo ripensare la globalizzazione, o il Trumpismo prevarrà

Dobbiamo ripensare la globalizzazione, o il Trumpismo prevarrà

 

 'Lo stabilimento di produzione della Packard Motor Car, abbandonato e
       decadente - Detroit, Michigan'     Foto: Eric Thayer / Reuters
            (cliccare immagine per miglior risoluzione)

 

La colpa di questa tornata elettorale sconvolgente è della crescente disuguaglianza. Continuare a  fare gli affari come al solito non è un’opzione.

 

di Thomas Piketty
(Traduzione Redazione Modus)

 

Sia detto subito: la vittoria di Trump è stata principalmente causata dall’esplosione di disuguaglianza economica e geografica degli Stati Uniti nell’arco di diversi decenni e dall’incapacità dei governi successivi di affrontarla.

Le amministrazioni di Clinton e di Obama spesso hanno condiviso e proseguito la liberalizzazione del mercato lanciato sotto le presidenze sia di Reagan che di Bush. A volte addirittura superandole: la deregolamentazione finanziaria e commerciale effettuata sotto Clinton è un esempio. Quello che ha determinato il risultato è stato però il sospetto che i democratici fossero troppo vicini a Wall Street – oltre che l’incapacità dell’élite dei media democratici di imparare dalle lezioni del voto a Sanders.

Hillary ha vinto il voto popolare per un soffio (60,1 milioni di voti contro i 59,8 milioni di Trump, su una popolazione adulta totale di 240 milioni di persone), ma la partecipazione dei più giovani e delle fasce di reddito più basse è stata troppo limitata per consentire la vittoria negli stati chiave.

La tragedia è che il programma di Trump non farà che rafforzare la tendenza verso la disuguaglianza. Egli intende abolire l’assicurazione sanitaria faticosamente concessa ai lavoratori a basso reddito da Obama, e lanciare il paese in una corsa a capofitto verso il  dumping fiscale, con una riduzione dal 35% al ​​15% del tasso di imposta federale sui profitti delle corporation, tendenza già vissuta in Europa  alla quale gli Stati Uniti avevano resistito fino ad oggi.

Inoltre, il ruolo crescente delle etnie nella politica americana non fa ben sperare per il futuro, se non si troveranno dei nuovi compromessi . Negli Stati Uniti il 60% della maggioranza dei bianchi vota per un partito, mentre oltre il 70% delle minoranze votano per l’altro. In aggiunta a questo, la maggioranza bianca è sul punto di perdere il suo vantaggio numerico (il 70% dei voti espressi nel 2016, rispetto al 80% nel 2000 e le previsioni nel 2040 sono del 50%).

La lezione principale per l’Europa e il mondo è chiara: trattandola come una questione di urgenza, la globalizzazione deve essere fondamentalmente ri-orientata. Le principali sfide del nostro tempo sono l’aumento delle disuguaglianze e il riscaldamento globale. Dobbiamo quindi implementare trattati internazionali che ci permettano di rispondere a queste sfide e di promuovere un modello di sviluppo equo e sostenibile.

Gli accordi di un nuovo tipo possono, se necessario, includere misure volte a facilitare questi scambi. Ma la questione della liberalizzazione degli scambi commerciali non deve più essere l’obiettivo principale. Il commercio deve tornare ad essere uno strumento al servizio di fini superiori. Non avrebbe mai dovuto diventare qualcosa di diverso da ciò.

 

Non ci dovrebbero essere più firme di accordi internazionali che riducono i dazi doganali e altre barriere commerciali senza includere misure quantificabili e vincolanti per combattere il “dumping” (scarico) fiscale e climatico in quegli stessi trattati. Ad esempio, ci potrebbero essere minimi comuni di imposta sulle società e gli obiettivi per le emissioni di carbonio, che possono essere verificati e sanzionati. Non è più possibile negoziare trattati commerciali per il libero scambio con niente in cambio.

 

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Lo stabilimento di produzione della Packard Motor Car, 1954 - Detroit, Michigan
                  (cliccare immagine per miglior risoluzione)

 

Da questo punto di vista il CETA, l’accordo di libero scambio UE-Canada, dovrebbe essere respinto. Si tratta di un trattato che appartiene ad un’altra epoca. Questo trattato strettamente commerciale non contiene assolutamente alcune misure restrittive in materia di questioni fiscali o climatiche. Esso, tuttavia, contiene un notevole riferimento alla “protezione degli investitori“. In questo modo le multinazionali potranno citare in giudizio gli stati in tribunali privati d’arbitrato, bypassando i tribunali pubblici disponibili a tutti e a ciascuno.

La supervisione giuridica proposta è chiaramente insufficiente, in particolare per quanto riguarda la questione chiave della remunerazione degli arbitri privati e porterà ad ogni sorta di abusi. Nel momento stesso in cui l’imperialismo legale americano sta guadagnando forza e imponendo le sue regole e i suoi dazi sulle nostre aziende, questo declino nella giustizia pubblica è un’aberrazione. La priorità, al contrario, dovrebbe essere la costruzione di forti autorità pubbliche, con la creazione di un pubblico ministero, compreso un pubblico ministero europeo, in grado di far rispettare le loro decisioni.

 

Gli accordi di Parigi avevano lo scopo puramente teorico di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Questo fine, ad esempio, richiede che il petrolio presente nelle sabbie bituminose nell’Alberta sia lasciato nel terreno. Ma il Canada ha appena iniziato ad estrarre nuovamente. Quindi, che senso ha firmare questo accordo (di Parigi) per poi, solo pochi mesi dopo, porre la firma ad un trattato commerciale (CETA) che limita fortemente il primo, senza una sola menzione di questa questione (ambientale)?

Un trattato equilibrato tra il Canada e l’Europa, volto a promuovere un partenariato per lo sviluppo equo e sostenibile, dovrebbe iniziare specificando gli obiettivi di emissione di ciascuno dei firmatari e gli impegni concreti per raggiungerli.

 

In materia di margini di dumping e minimi fiscali di tassazione sui profitti delle corporations, ciò ovviamente significherebbe un totale cambiamento paradigmatico per l’Europa, che è stata costruita come una zona di libero scambio, senza una politica fiscale comune. Questo cambiamento è essenziale. Che senso ha un accordo su una politica fiscale comune (che è l’unica area in cui l’Europa ha realizzato qualche progresso per il momento) se ogni paese può quindi fissare un tasso vicino a zero e attrarre tutte le sedi principali della società?

È ora di cambiare il discorso politico sulla globalizzazione: il commercio è una cosa buona, ma lo sviluppo equo e sostenibile richiede anche servizi pubblici, infrastrutture, salute e sistemi di istruzione. A loro volta, questi richiedono sistemi di tassazione equa. Se non riusciamo a realizzare tutto questo, il Trumpismo prevarrà.

 

 

 

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  Packard Hawk Sport, 1958 ultimo anno di produzione della Packard
           (cliccare immagine per miglior risoluzione)

 

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