Eurobabele

Fra la Grexit sventata, forse a dispetto della Germania, e la Brexit riuscita, fra l’incredulità generale e la costernazione dei tedeschi, è passato meno di un anno, e in questo tempo breve ed intenso sembrano essersi consolidati tutti i paradossi di un’Europa mai compiutamente nata nel passato e senza solide prospettive nel futuro, cristallizzata in un presente che sembra dover durare in eterno, nel quale le scarse certezze sull’identità dell’Unione sembrano impedire il progetto e la realizzazione di un percorso che porti da qualche parte.

Dove va oggi l’Europa, nel futuro o nel passato? Di certo l’eterno presente è un’illusione, e comunque, se anche fosse una fase interlocutoria e di passaggio non può durare per sempre: prima o poi le scelte politiche o l’inerzia degli eventi causata dalla loro mancanza determineranno la direzione finale, e non è detto che sia quella che avranno scelto gli europei, ammesso e non concesso che ne scelgano una.

Che l’Unione abbia una ragion d’essere a me pare evidente, sia per proseguire sulla strada della convivenza pacifica dopo secoli di guerre che hanno insanguinato il continente, sia per garantire all’Europa una dimensione e una massa critica sufficienti a reggere il confronto con paesi oggi economicamente più dinamici e aggressivi, oltre che caratterizzati da una dimensione planetaria.

 

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Eurobabele

Eppure, nonostante la forza di questa ragion d’essere, non riesco a nutrire alcun ottimismo nei confronti del futuro, non nell’autorevolezza dei governi, non sulla saggezza dei cittadini, e ancor meno sulle dinamiche della contingenza storica. Per diverse ragioni, così intrecciate fra di loro che se non si affrontassero separatamente e schematicamente rischierebbero di essere difficili da riassumere.

Credo che i temi fondamentali sui quali l’Europa dovrebbe oggi esprimere una visione forte e condivisa per uscire dalle secche in cui si trova siano quelli dell’assetto politico e istituzionale, del governo dell’economia e della gestione del flusso dei migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia; dovrebbe inoltre risolvere in un modo diverso due problemi di natura relazionale e forse anche psicologica, che riguardano il ruolo della Germania e la percezione dell’Unione da parte dei cittadini europei.

Su tutti e cinque questi temi io riesco a vedere solo dei prevalenti segni negativi, che provo ad analizzare.

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   Vignetta di Ramirez        (cliccare immagine per miglior risoluzione)

 

Il sistema politico mi sembra ad un punto morto. L’Unione è governata da sette diverse istituzioni, delle quali solo una, il Parlamento Europeo, è eletta dai cittadini, mentre le altre sono bene o male l’espressione dei governi degli stati membri, e quindi degli interessi nazionali.

La complessa architettura dell’iniziativa legislativa e il riparto delle competenze hanno oggettivamente determinato un sistema difficilissimo da gestire e persino da comprendere per tutti coloro che non sono addetti ai lavori, e ciò era probabilmente inevitabile perché credo che mai nella storia si sia tentata una costruzione istituzionale così ardita fra popoli e culture diverse, su base volontaria e non con la forza; anche se tutto ciò è vero e spiega molte difficoltà, resta il fatto che la complessità del sistema si sta dimostrando inadatta a gestire una crisi drammatica come quella presente.

Il crollo del muro di Berlino ha inoltre triplicato in pochi anni il numero dei paesi dell’Unione, e se ciò è stato comprensibile per ragioni di natura geopolitica e militare, una NATO più grande di fronte alla Russia, lo è stato molto meno sotto il profilo dell’equilibrio e dell’omogeneità della struttura europea, sia perché diversi paesi dell’area ex comunista hanno spesso scelto dei governi che con una certa benevolenza si potrebbero definire clerico fascisti, sia perché questi stessi paesi all’Unione si sono approcciati con uno spirito scarsamente costituente, molto inglese direi, mantenendo un forte nazionalismo e una chiara propensione ad usufruire dei benefici senza mai sacrificare in cambio un briciolo del loro interesse nazionale, qualunque cosa ciò significhi.

Per avere l’Europa coerente al fine servirebbero delle cessioni di sovranità da parte degli stati membri, almeno sulle questioni fondamentali dell’economia, della politica estera e della difesa, e servirebbero anche dei meccanismi decisionali che temperino i diritti di veto delle minoranze, per evitare che i quattro belgi in croce di turno impediscano la realizzazione delle politiche scelte dalla stragrande maggioranza degli stati, servirebbe in una parola una visione d’insieme dell’Unione che non fosse continuamente resa strabica dagli interessi nazionali prevalenti; quello che abbiamo è invece l’esatto contrario, una recrudescenza dei nazionalismi del passato, e con essi delle cento identità che indeboliscono la coesione del continente più piccolo e demograficamente più povero del mondo, che è anche quello che a tutt’oggi consuma di più.

Che poi questa auspicabile unitaria visione d’insieme, visti gli odierni equilibri, i protagonisti e i rapporti di forza, possa anche avere una valenza positiva è un diverso tipo di problema che ora preferirei non affrontare.

 

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Vignetta di Mohamed Sabra

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La politica economica è in una situazione diversa, più avanzata per un verso, e più arretrata per un altro, anche perché l’Unione è sempre stata molto più economica, e oggi monetaria, che non politica.

La moneta unica è stata un potente propulsore, quasi una fuga in avanti per sopperire alle difficoltà politiche e consentire la partenza del treno europeo, ma proprio per questa sua natura la moneta non può rimanere all’infinito orfana della politica, con la Banca Centrale Europea che, unica al mondo, svolge le sue funzioni senza un chiaro potere esecutivo di riferimento, non volendo considerare tale quello della Merkel.

La politica economica, che può beneficiare di regole cogenti che sono sconosciute al resto della politica europea,  è stata sempre indirizzata sul rigore e sul risanamento dei conti pubblici, come ha sostanzialmente imposto all’inizio la Germania; la cosa in sé è sensata e virtuosa, ma è un fatto che in questi otto anni di crisi profonda e lacerante nessun bilancio è stato veramente risanato, e non si è avuta nessuna politica di sviluppo veramente efficace che contenesse l’aumento delle diseguaglianze e della disoccupazione, laddove esistevano o si erano sviluppate, ma se il rigore non serve al superamento delle crisi e allo sviluppo, e a contemperare le diseguaglianze, alla fine diventa una pura vessazione, e come tale sempre più spesso viene percepito dai cittadini europei.

Qui il discorso diventa insidioso, perché la forza dell’euro, che ha passato metà della sua esistenza nel periodo che ha incubato la crisi economica del 2008, e l’altra metà nella tempesta di quella crisi, sta anche nel rigore delle sue regole, ma la sua debolezza, che è anche quella della politica economica, e della politica tout court che si staglia sullo sfondo, sta nella loro rigidità, e cioè quasi nello stesso posto: alla fine le regole troppo rigide, troppo tedesche per usare un luogo comune, sono regole stupide, e difatti la moneta unica, che è europeista per principio e definizione, rischia di erodere la sua natura e la sua vocazione rendendo antieuropeisti milioni di cittadini che si sentono e sono sempre più poveri; forse sarebbero stati ugualmente o addirittura più poveri anche senza l’euro, ma questa non può essere la risposta dell’Unione ai suoi popoli, sia perché sarebbe politicamente suicida, sia perché, ma è un’opinione, penso che sia sbagliata.

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Sui migranti sono scorsi fiumi di parole alimentate da mari di cadaveri che risalgono la corrente a dispetto di qualsiasi barriera, trasportati dalla determinazione di coloro che sono sopravvissuti ai mille inferni della terra.

Si migra sempre per disperazione, mai per avventura, e la precarietà dei poveri e dei disoccupati d’Europa sembra il paradiso a chi viene dal Ghana o dalla Siria; dall’altra parte dello specchio la prospettiva è diversa, e la fame di chi non ha niente da perdere viene percepita come una minaccia mortale da chi ha perso il lavoro e non ha molte prospettive di ritrovarlo, ma ha ancor una minima rete di protezione che gli consente di sopravvivere in qualche modo.

Negli ultimi 20 anni in Europa sono arrivati circa 25/27 milioni di migranti, una cifra in termini assoluti del tutto sopportabile per il mezzo miliardo dei cittadini dell’Unione, e anche indispensabile per compensare il calo demografico in atto, ma la gestione di questo flusso inarrestabile di uomini, donne e bambini è stata improntata molto raramente a criteri di saggezza e di ragionevolezza, e ancor meno ad una seria progettualità politica, quanto piuttosto al suo opposto, e cioè ad una quotidiana gestione dell’emergenza e della convenienza, con uno stile che definirei molto italiano.

Dopo anni di prevalente approssimazione oggi restano, per ogni paese europeo, uno o più spicchi del problema.

I migranti sufficientemente scolarizzati finiscono nei paesi economicamente sani, quelli con poca disoccupazione, e vengono inseriti nel mercato del lavoro, senza creare drammatici scompensi, se non di natura psicologica o culturale.

I migranti con scarsa o nessuna qualificazione finiscono nei paesi più poveri, dove occupano sia posti di lavoro rifiutati dalla popolazione locale, sia posti di basso livello che strappano alla popolazione locale, incidendo comunque positivamente sul dato dell’occupazione complessiva, e sulla produzione del PIL, ma lacerando in modo più doloroso il tessuto sociale.

I migranti sono distribuiti in modo assolutamente ineguale fra gli stati dell’Unione Europea, sono concentrati in quelli più popolosi (Italia, Spagna, Germania, Inghilterra, essendo decisamente diversa per ragioni storiche la situazione della Francia), e sono percentualmente molto meno rilevanti nei paesi di recente inclusione, che più di altri sono xenofobi e razzisti, e che pretendono di costruire muri per lasciare i problemi fuori da casa loro, che vuol dire a casa di chi li ha accolti nell’Unione.

Il costo economico e umano del flusso dei migranti, per sorveglianza, soccorso in mare, accoglienza, morti e proliferazione della criminalità organizzata che lucra sulle loro tragedie sta diventato insostenibile in termini economici, e lo è già da tempo in termini morali; ciò accade per varie ragioni, la principale delle quali è determinata dal fatto che i migranti entrano in Europa clandestinamente, e non con un normale volo aereo o con un traghetto, come fanno oggi gli albanesi, e come facevano fino ad un secolo fa i migranti europei che andavano nel nuovo mondo, con meno problemi per tutti.

Bene, ammettendo che sia possibile, e non lo è, cosa vogliamo fare dei migranti, rispedirli a casa tutti?

Può essere un buona soluzione per diventare dei nuovi paesi poveri, deindustrializzati e marginali, con delle economie di sussistenza che oggi stanno in Africa e in Asia, e con salari sempre più bassi, fino a quando ci potremo di nuovo dedicare al tessile, per fare le magliette da vendere a 5 euro nei mercati di paese, degli altri paesi.

 

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  Vignetta di  John Hendrix    (cliccare immagine per miglior risoluzione)

 

Noi ci stiamo impoverendo perché è declinata la nostra economia, perché non siamo stati capaci di mantenere un ciclo virtuoso di sviluppo e di distribuzione del reddito, perché in tutta l’Europa meridionale c’è un basso tasso di scolarità coniugata a sistemi produttivi sempre più marginalizzati, e in tutto questo l’economia liberista colpisce come un coltello rovente nella piaga, causando disastri sociali che sono oggi evidenti in quasi tutte le nostre periferie urbane.

È indiscutibile che esistono responsabilità soggettive dei paesi in crisi, l’Italia è fra i primi in questa classifica, ma è altrettanto evidente che le cure fino ad oggi applicate non hanno funzionato, e non sembrano promettere niente di buono per il futuro: fuor di metafora, le guerre fra poveri di solito sono vinte da quelli che poveri non sono, perché non le combattono, e per questo l’unica soluzione del problema, che non sia la deriva dell’Europa meridionale verso l’Africa, noi prima degli altri, sta nella nostra capacità di ricreare sistemi economici e sociali più ricchi, più dinamici e più equi, senza confondere la causa con l’effetto e attribuire ai migranti la colpa del nostro impoverimento, che dipende invece dai nostri passati errori e dalla nostra attuale incapacità di porvi rimedio.

Alla fine la realtà è che ci possiamo forse salvare coi migranti, ma non contro di loro, perché se continueremo a contendergli il lavoro marginale, che qualcuno deve pur fare, vorrà dire che la nostra crisi si è ulteriormente avvitata su sé stessa, e da quel buco non usciremo più.

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Restano ora i due problemi più complessi, il ruolo della Germania e la percezione dell’Europa che hanno i cittadini, ed entrambi mi sembrano arenati su una scogliera aguzza e tagliente.

 

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Il primo: non è possibile fare l’Europa senza la Germania, troppo grande e troppo ricca, serve agli altri esattamente quanto gli altri servono a lei, e tuttavia la Germania è forse il più antieuropeista dei paesi dell’Unione, le manca la visione, non capisce che gli imperi si costruiscono con le armi o con il denaro, e vorrebbe avere l’impero senza spendere un soldo, oltre che, per un volta e fortunatamente, senza usare le armi.

 

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 Il ponte aereo di Berlino    (cliccare immagine per miglior risoluzione)

 

La cosa è anche strana per un paese che più di molti altri ha usufruito del Piano Marshall, ma quando la Germania si è trovata di fronte alla crisi della Grecia, causata in egual misura dall’insipienza nazionale dei greci e dalla politica speculativa delle banche tedesche e francesi, oltre che dell’Europa stessa che ha colpevolmente preso per buoni per anni dei bilanci falsi, ha scelto pervicacemente tutte le soluzioni più sbagliate; poteva imporre il risanamento dei conti e lo sviluppo economico, ma ha deciso di fare una speculazione al quadrato e imporre il primo senza il secondo, rendendo di fatto inestinguibile il debito greco e dimostrando con ciò che ragiona da piccola bottegaia di paese invece che da grande potenza che esercita una chiara e autorevole leadership politica.

 

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Fondi inviati alle nazioni europee durante il corso ('48-'52) del Piano Marshall
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Nel caso della Grecia è stato fatto l’esatto contrario di quel che si è fatto, anche col consenso del resto d’Europa, al momento della riunificazione tedesca, ed è difficile sfuggire al sospetto che la Germania immagini una piccola Europa asservita ai suoi voleri, invece che una grande Europa nella quale i tedeschi diluiscono, e perdono, una quota del loro interesse immediato, per scommettere su uno sviluppo più generale e su un’Unione più grande e più forte in futuro: se questo approccio non cambia, non penso che ci sarà alcuna Europa, né grande, né piccola.

Eurobabele

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         Vignetta di Pavel Constantin

 

Il secondo: mentre ci si avvicina al decimo anno di una crisi economica che l’Europa non ha saputo contenere, i cittadini europei percepiscono sempre più diffusamente l’Unione come un soggetto burocratico e lontano dalla propria vita, estraneo o nemico a seconda dei casi, e si vedono sempre meno  come protagonisti di un progetto che li riguarda e che può migliorare il loro futuro.

I partiti populisti crescono ormai ovunque, e puntano chiaramente sull’antico nazionalismo che distrugge alla base l’idea dell’Unione, come se la Cina non fosse immensa, la Russia tutt’altro che spacciata e l’America la più grande potenza economica e militare del pianeta; i partiti tradizionali, democristiani, liberali o socialdemocratici, pur generalmente europeisti, sono tutti geneticamente modificati dal trentennio liberista, governano sempre meno l’economia e non riescono a realizzare politiche di sviluppo laddove servono; il risultato è che i cittadini, stretti fra gli antieuropeisti a parole, quelli che non hanno oggi il potere, e gli antieuropeisti di fatto, ossia quelli che oggi governano in modo inefficace, per protesta o per convinzione scelgono sempre più spesso i primi.

La Brexit, al netto del tardivo pentimento di molti suoi protagonisti, è stata decisa da uno scatto umorale contro gli immigrati da parte di uno dei paesi che meglio li ha integrati e che più avrebbe da perdere dalla loro partenza, uno scatto che ha coinvolto ampie fasce della working class e che assieme alla recente elezione di Trump ha dimostrato che il politicamente scorretto non è più un tabù da nessuna parte: quanti cittadini europei se dovessero votare oggi affiderebbero il loro futuro all’Unione? Si può fare pacificamente l’Europa senza il consenso degli europei? Domanda pleonastica, ovviamente no, quale che sia poi il prezzo da pagare domani.

 

A me sembrano emblematici gli esiti opposti di Grexit e Brexit: il fallimento della prima è stato determinato sulla scorte di politiche liberiste e addirittura neocoloniali; il successo della seconda si è verificato nel paese più liberista dell’Unione, governato dagli eredi della Lady di ferro, e col colpevole contributo del Labour; in entrambi i casi in tedeschi non hanno dimostrato efficaci capacità di leadership, per aver fatto troppo o troppo poco, e le le soluzioni finali, per un verso o per l’altro, gettano palate di sabbia nel complesso ingranaggio nato a Ventotene durante la seconda guerra mondiale.

Alla fine di questo ragionamento resta il fatto che non so più bene cosa dire. Ho spezzettato artificiosamente problemi che dovrebbero stare assieme, perché sono tutti fra loro intrecciati e reciprocamente contaminati, ma non ho trovato nessuna soluzione; dovrebbero in realtà essere uno la soluzione dell’altro, ma sono sempre più spesso, qui e oggi, i punti in cui le soluzioni si perdono, mentre i problemi si avvitano e si aggravano.

Posso anche pensare che il modello liberista, ormai sfuggito a ogni controllo da parte della politica sia l’origine di tutti i mali, e in effetti lo penso, confortato in ciò dal fatto che i più grandi liberisti sono anche i più grandi populisti, non certo solo Trump, sia detto per inciso, e dopo aver accumulato le più spettacolari ricchezze della storia nel modo più ineguale possibile riescono ad intercettare il consenso dei più poveri per mantenerli ancora poveri: tutto ciò mi pare il fallimento della politica, e non vedo nessuno in grado di contrastare questa deriva, forse perché siamo alla fine di un ciclo e ormai non è più possibile.

Di certo, quando guardo all’Europa, all’Unione e alle singole nazioni, alla moneta e all’economia, ai migranti e al razzismo, alle istituzioni e al populismo, in una parola alla politica e ai cittadini, l’unica immagine a cui riesco a pensare è quella dei lupi del Lupo della steppa, che leccavano il coltelli imbevuti di sangue senza rendersi conto che stavano bevendo il loro stesso sangue, e oggi non saprei più dire chi è il lupo e chi il coltello fra la politica e i cittadini di un’Europa che mi pare avviata al declino.

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