le storie

Sogno di fine estate?

Era sola, eravamo una decina su quella spiaggia, e guardava, seduta sull’asciugamano, il mare; da più di cinque minuti non cambiava posizione.

La potevo vedere, alzando solo lo sguardo, mentre leggevo il mio libro, sdraiato sul fianco e appoggiata la testa al palmo della mano: un bagliore, il sole che batteva sul fermaglio fra le coppe del reggiseno, a tratti la nascondeva.

Ero arrivato da quasi un mese e la vacanza era agli sgoccioli; i miei orari erano i soliti, da anni: una pedalata  al mattino presto con la bici, per un caffè a Calapiccola; dal giornalaio a ritirare il quotidiano che, appena arrivato, avevo prenotato fino al termine della vacanza; la piccola spesa per le mie necessità alimentari giornaliere; qualche parola con Antonella, la signora che badava alla pulizia della casa e che, volentieri, variava la mia dieta da scapolo temporaneo con esibizioni, apprezzate, delle sue capacità culinarie.

Scendevo in spiaggia, a cinquanta metri da casa, intorno alle nove; resistevo, con frequenti “calate” in mare, per poco più di due ore e tornavo a casa per una doccia nell’ortale; raggiungevo in bici il chiosco nella pineta e nel fresco della sua ombra, sorseggiando una birra, riprendevo la lettura del libro che accompagna sempre i miei momenti di relax.

In quei giorni ero alle prese con un commissario della polizia ateniese che, tra un’indagine e l’altra, cercava di allontanarsi dal suo passato ai tempi dei colonnelli.

Era sola e la vedevo un po’ sfocata senza gli occhiali, che non porto mai in spiaggia; ero sicuro, in ogni caso, di non averla ancora incontrata, dal mio arrivo e l’impressione era confermata dal pallore del suo incarnato, ancorché olivastro: doveva essere il primo sole dell’anno, per lei, una donna con un fisico ben proporzionato, lievemente appesantito, ma che con il vestito giusto avrebbe fatto la sua figura di bella cinquantenne (così la mia miopia valutava la sua età).

Dopo la lettura di un paragrafo, alzando gli occhi, non c’era più; non era in mare, in quel momento deserto, e non c’era più, nemmeno, il suo simpatico asciugamano (un polpo verde sorridente, a misura d’uomo, in campo blu ondoso con contorno di calamari violetti) che, solo mezz’ora prima, aveva steso a una decina di metri da me, lasciando che si allungasse, spinto dal vento “calabrese”, in un’ordinatezza meteorologica che solo i nati in riva al mare sanno esprimere istintivamente: come scuoterlo dalla sabbia, senza fare bestemmiare il vicino.

Rimasi un po’ deluso: avevo cominciato ad elaborare una sua biografia, come faccio con tutti i vicini di spiaggia che presentino una caratteristica che giustifichi una qualche curiosità nei loro confronti.

Avevo cominciato a pensarla come in attesa di un marito e di qualche figlio adolescente, che a momenti l’avrebbero raggiunta; ma, anche, c’era una fantasia di una donna libera, o liberata da qualche vincolo coniugale, venuta, sullo Jonio, a ripigliarsi una soddisfazione che le era stata negata in passato.

La sua improvvisa mancanza mi lasciò un senso di incompiutezza che si riverberò sulla mia scarsa capacità di leggere, scomodamente, in spiaggia. Mi alzai, raccolsi le mie cose e tornai a casa.

Ero, così, a chiacchierare, nell’ortale , con Antonella nel mezzo di effluvi al  gusto di parmigiana che si liberavano dal forno della cucina.

Veniva, Antonella, ogni mattino da Calapiccola con la corriera, per fare un paio d’ore di servizio da me (da noi, quelle rare volte che Lucia ed io riuscivamo a far coincidere le nostre vacanze dal lavoro ospedaliero): i soliti discorsi sui lavori di manutenzione e miglioramento della casa da programmare per l’inverno, sull’ultima sotto-occupazione del marito e dei figli (“e per fortuna che si trova qualcosa…”), soprattutto sul divieto di spargere aglio sulle pietanze che mi preparava (“dottò, aglio non ne misi, ma non andate a dire che ve l’ha preparato Antonella ‘sto piatto.”).

Ero pronto, dopo la doccia, a prendere la bici per la mia solita puntata in pineta, quando Antonella, continuando un discorso di cui, da un po’, avevo perso il filo, se ne venne con: ”Dottò, ma è vero, allora, che non l’hanno ancora trovata?”.

“Non hanno trovato chi, Antonè?”

“Ma si, quella spagnola che era qui in vacanza da un’amica; c’era sul giornale di ieri, ché da tre giorni è scomparsa e non se n’è saputo più nulla.”.

“Sarà scappata con un pescatore Antonè, chennesò, non leggo il giornale di qui”.

“Un pescatore di bocca buona, allora, che minimo minimo tiene cinquant’anni.”

“’Ché, a cinquant’anni uno è da buttare? Io che devo fare, mi uccido?”

“Ma no dottò, che c’entra, per l’uomo è diverso. Vabbè, vado che perdo la corriera, ciao, a domani”.

“Ciao Antonè, saluta Bruno”.

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Finalmente un po’ di fresco, in pineta, dopo tutto l’umido che portava il “calabrese”; un’ora buona di lettura del commissario Charitos e due boccali imperlati erano scivolati, ugualmente piacevoli, tra ‘ciriveddro’ e gargarozzo. Meglio tornare a casa prima che la tentazione di una terza birra avesse la meglio su una volontà indebolita dall’atmosfera rilassata della vacanza.

Pedalando, con il pensiero alla parmigiana che mi aspettava, maledicevo i miei sempre più frequenti vuoti di memoria: il sole mi accecava, a tratti, attraverso le lenti neutre degli occhiali di riserva e non riuscivo a ricordare dove avessi lasciato quelli con lenti fotocromatiche che uso prevalentemente e che, da qualche giorno, non trovavo..

Arrivato a casa, in un angolo ombreggiato dell’ortale si consumò un’orgia gastronomica che mi lasciò stremato: oltre alla parmigiana quella santa donna aveva preparato una dozzina di braciole (così, da quelle parti, chiamano dei piccoli involtini di carne in salsa di pomodoro); con l’aiuto di qualche bicchiere di un negroamaro rosato, quasi ghiacciato, riuscii, comunque, vincitore in quella sfida ai succhi gastrici.

Al pomeriggio, dopo le cinque, sono nello stesso punto della spiaggia del mattino; qualche famiglia con bambini piccoli e due squadre di ragazzini che giocano a beach volley separati da una rete da pesca appesa a due pali di ferro; sto leggendo, appoggiato sui gomiti, e un colpo di vento mi sbatte in faccia una manciata di sabbia trasportata da fogli di giornale.

Mi guardo intorno, ma nessuno reclama quei pezzi di carta; mi alzo, con aria opportunamente infastidita, e mi dirigo verso il cestino dei rifiuti con il giornale in mano: è il foglio locale di un quotidiano del sud che riporta, ingrandita, la foto tessera di una donna accompagnata da una didascalia: “Il mistero di Carmen Ledesma. Chi l’ha vista?”.

Segue un trafiletto sulla scomparsa di questa signora di Barcellona, ospite di un’amica , “uscita due giorni fa diretta al mercatino settimanale” e, da allora, mai più vista.

La foto mostra il viso di una trentenne bruna dai tratti regolari, un bel sorriso allegro che guarda sopra l’obiettivo: a giudicare dai dati anagrafici riportati dal cronista, la fotografia deve essere piuttosto datata; ripenso al discorso di Antonella quel mattino: ci manca solo un giallo di fine estate per farmi considerare quell’angolo di paradiso come insostituibile, per le mie vacanze. Nelle vesti di un improbabile Poirot in braghette da mare anche quel pomeriggio si lasciò vivere con leggerezza vacanziera.

La mattina dopo si era alzata, finalmente, un po’ di tramontana che aveva appiattito il mare e asciugato l’aria: dovevo, assolutamente, vincere la mia innata pigrizia.

In bici raggiunsi una caletta sulla litoranea, a qualche chilometro da casa, un posto incantevole e poco frequentato, ottimo per santificare una giornata quasi unica in quell’estate di scirocco e “calabrese”.

Quel mare così trasparente e fresco avevo proprio voglia di godermelo quanto più possibile, pensando, poi, che di lì a pochi giorni sarei stato di ritorno al lavoro.

Mi tuffai in quell’acqua, nuotai al largo e, tornando verso riva, mi ci rotolai, sguazzai, illudendomi, per qualche momento, di essere parte di quella meraviglia di cristallo.

Infine, un piacevole sfinimento mi spinse a riva e a stendermi sul telo da mare..

Dovevo avere dormito quasi un’ora, quando un vociare indistinto s’intromise in quel torpore carico di profumi di timo e origano, interrompendo, definitivamente, un sogno confuso in cui, sotto un grande fico era allestita una sala operatoria ed io, a gran voce, ripetevo alla nurse di anestesia che, senza dragoncello, non se ne parlava di cominciare l’intervento.

C’era un capannello di persone ad un’estremità scogliosa della caletta, vedevo qualche divisa militare ed un grosso fagotto portato verso l’interno.

Mi avvicinai e, visto cos’era il fagotto, affrettai il passo: il corpo di una donna, gonfio, lineamenti ormai inesistenti (con il suo naso e le sue labbra i pesci dovevano avere banchettato alla grande), brandelli di un reggiseno avvolti intorno al tronco, una grossa S di ottone a separarne le coppe.

Il colore dei resti di quel costume, quel fermaglio… ma si, senza pensarci troppo mi avvicino al graduato che dirige le operazioni: “Mi scusi maresciallo, ma questa donna l’ho vista ieri in spiaggia, in paese!”… il tempo di parlare e realizzo che sto dicendo una cazzata.

Il maresciallo conferma: ”Ma che sta’ a dici, questa è due, tre giorni che tiene compagnia ai pesci!”.

“Ha ragione, pensare che con il mio lavoro… devo avere visto qualcuna che me l’ha ricordata, buon lavoro marescià”.

“Si, va’, va’.”

Salgo sulle dune verso la bicicletta, un po’ confuso; eppure…

Devio verso una macchia di ginepro, frugo sotto i rami bassi e tiro fuori l’asciugamano arrotolato: lo apro, facendo attenzione a non far cadere i miei occhiali avvolti all’interno.

Il polpo verde mi sorride.

 

 

 

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8 comments

  1. M.Ludi 24 luglio, 2015 at 21:40

    Non si può sapere se si è bravi o meno a fare qualcosa fino a quando non si prova a farlo; l’ingredienti li hai tutti nel tuo bagaglio ed il primo piatto è stato gustoso. Quando vuoi riprovare, faccelo sapere che ti mettiamo a disposizione la cucina; benevnuto dall’altra parte della barricata 🙂

  2. Franz 24 luglio, 2015 at 21:20

    Do per scontato che ci sarà un seguito. L’esperienza fatta con “Se una notte d’inverno un viaggiatore” mi basta e avanza. O hai voluto scrivere un horror? Confesso che sarei un po’ deluso…

    • Scan 25 luglio, 2015 at 22:26

      non volevo scrivere un horror, anche se il noir è il genere che, per passare il tempo, preferisco. non ci sarà, credo, un seguito (nel senso di proseguimento di questa storia) a questo racconto; anche perché il finale mi è giunto, al cervello, fulminante e definitivo, mentre scrivevo le frasi precedenti. come a dire: stop, non sei in grado di scrivere niente di più complesso.

  3. Scan 24 luglio, 2015 at 14:29

    grazie ragazzi: si tratta solo di un “divertimento” di un lettore accanito che ha voluto mettersi dall’altra parte, scoprendo che scrivere è molto faticoso. per un dilettante, ovviamente…

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