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Giovanni Leone, un napoletano al Colle con troppa gente intorno

Giovanni Leone, un napoletano al Colle con troppa gente intorno

Sette anni dopo l’elezione di Saragat, il Parlamento torna a riunirsi in seduta comune nel periodo natalizio. E anche stavolta la strada della decisione è in salita. I nomi in ballo sono Fanfani, Moro, di nuovo Saragat e Leone. Appare evidente che in un modo o nell’altro al Quirinale s’insedierà un democristiano. Ma le guerre intestine del partito di maggioranza determinano incertezza. Come nella tradizione delle precedenti elezioni, il candidato ufficiale viene ripetutamente “bruciato”. Questa volta “il supplizio cinese” evocato da Leone nel ’64 tocca ad Amintore Fanfani. I deputati del Manifesto lo irridono scrivendo sulla scheda frasi come “maledetto nanetto, non verrai mai eletto”. Il brevilineo statista aretino deve arrendersi dopo undici tentativi falliti.

 

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 Giovanni Leone, al Quirinale dal 1971 al 1978

 

La pista che porta a Moro viene scartata per logiche interne. In sostanza, il partito tende verso la destra, sospinto su questa linea da Giulio Andreotti, eterno burattinaio. Fra astensioni, veti e ricerche di compromesso, la soluzione Leone prende sempre più corpo. È già la terza volta che il giurista napoletano, riconosciuto come uno dei massimi penalisti italiani, si avvicina al Colle.

Nel ’62, due anni prima dello psicodramma di Natale, era stato a un passo dalla carica più prestigiosa. Nel giorno dell’elezione di Segni, Leone aveva ricevuto una proposta “indecente” da parte di Palmiro Togliatti. Le sinistre erano disposte a far convergere i voti su di lui, pur di non avere il sardo al Quirinale. Leone, all’epoca Presidente della Camera, rifiutò. Si sarebbe messo in una condizione troppo difficile. Un democristiano spinto dai comunisti. Suonava troppo male. C’era da aspettare. E dopo la beffa del ’64, il sogno di Leone si realizzava alla vigilia di Natale. Dopo 23 scrutini, coi voti determinanti del Movimento Sociale di Giorgio Almirante.

C’è chi grida al rigurgito nostalgico, adducendo la breve militanza di Leone nel fascismo. Ma il nuovo presidente non è uomo di parte. È un mediatore, un uomo di diritto, un tifoso del Napoli e un personaggio pittoresco. Ma non certo un nostalgico. Con lui sbarca al Quirinale una famiglia chiassosa, composta dall’affascinante moglie Vittoria e tre figli maschi. Uno di essi, Giancarlo, è dal 2012 direttore di Rai 1.

 

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 La famiglia Leone ritratta al Quirinale

 

Il Colle diventa un salotto per ospiti provenienti dal mondo della finanza, dell’industria e degli affari. E i maggiori problemi della presidenza Leone nascono proprio dalle sue frequentazioni. Di per sè infatti, i suoi sette anni sono deliberatamente incolori. È il primo Presidente a sciogliere le camere, ma fin da subito marca una rispettosa distanza dalle scelte politiche di governo e parlamento. Si limita a garantire l’osservanza della Costituzione. La sua politica internazionale è ricordata più per esuberanze da turista esagitato che per abili relazioni diplomatiche. Canta, balla, gioca.

Fa da notaio e da giullare. E piace alla gente che adora la sua genuinità partenopea. Ma tutto si spezza nel 1976. A febbraio scoppia uno scandalo internazionale. È una storia di tangenti che riguarda una compagnia aerea americana, Lockheed, che avrebbe corrotto politici di mezzo mondo per convincerli a dotarsi dei mezzi dell’azienda. L’amicizia di Leone con Crociani, amministratore delegato di Finmeccanica, coinvolto nella vicenda, viene ritenuta prova certa del suo coinvolgimento.

 

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   Uno degli aerei dello scandalo: l’Hercules della Lockheed

 

Qualcuno arriva a sostenere che sia uno dei grandi registi dell’intera operazione. Su consiglio di Andreotti, Leone sceglie di non difendersi dalle infamanti accuse. Si dice addirittura che “Antelope Cobbler” , nome in codice scoperto dagli inquirenti, sarebbe proprio lui. I giornalisti si buttano a capofitto sulla storia. Fioccano le inchieste, firmate da Gianluigi Melega e Camilla Cederna. Entrambi lavorano per “L’Espresso”. La Cederna scriverà, in coincidenza con la fine del mandato presidenziale un libro velenosissimo sulla carriera di Leone. Un pamphlet che le costerà una condanna per diffamazione e il pagamento di 35 milioni di lire come risarcimento.

 

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Pisa, 1975: Leone fa le corna a un gruppo di contestatori

 

Intanto Leone, nelle sue visite ufficiali, viene pesantemente contestato dalla gente. A Pisa, risponde agli insulti degli studenti facendo le corna. I maligni dicono che la moglie Vittoria le facesse a lui, senza usare necessariamente indice e mignolo. Col tempo accuse e campane denigratorie nei confronti di Leone si sgonfiano. Troppo tardi per salvare la poltrona presidenziale. Sull’onda della forte campagna denigratoria, i partiti cominciano a chiedere la sua testa. Polemiche che vengono congelate durante i drammatici 55 giorni della prigionia di Aldo Moro. Il Presidente è l’unico insieme ai socialisti a sostenere la linea del dialogo con le Brigate Rosse. Non viene ascoltato. Un mese dopo il ritrovamento del corpo dello statista pugliese, la pressione dei partiti per un suo addio anticipato si fa sempre più soffocante. Il 15 giugno è il giorno decisivo. Il Pci chiede formalmente le sue dimissioni. È il senatore Paolo Bufalini a portargli la formale richiesta del suo partito. Poche ore dopo, Andreotti e Zaccagnini, preso atto della situazione, lo “obbligano” alle dimissioni. Leone si convince che è arrivato il momento di togliere il disturbo.

 

Con sei mesi d’anticipo, lascia il Quirinale. Prima di farlo, rivolge uno struggente saluto televisivo agli italiani. “Avete avuto un presidente onesto per sei anni e mezzo”, dice. Una ventina di anni dopo Marco Pannella ed Emma Bonino si scuseranno pubblicamente con lui, riconoscendo di avere preso un abbaglio.

 

La serie: Tutti gli uomini del Quirinale

Giovanni Leone, un napoletano al Colle con troppa gente intorno

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