le storie

La little Italy di Tianjin in Cina

Esperienze coloniali tra illusioni e realtà

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L’ottenimento nel 1901 del piccolo lembo di territorio alla periferia della città di Tianjin in Cina fu tra le prime conquiste coloniali italiane, preceduta soltanto dall’Eritrea. Per l’esigua dimensione e la notevolissima distanza, questo possedimento non ebbe mai risonanza nella retorica coloniale del primo novecento nè nella propaganda imperialista fascista, rimanendo virtualmente abbandonato a se stesso per poi essere dimenticato nelle nebbie della turbolenta storia italiana del tempo.

La riscoperta della ex colonia non è dovuta agli ex colonizzatori, essendo la sua esistenza pressochè sconosciuta alla stragrande maggioranza degli italiani, piuttosto dalla grande popolarità che sta avendo in Cina come punto di ritrovo privilegiato della popolazione locale e come meta turistica. Notorietà dovuta non tanto alla sua storia, quanto alle sue intrinseche qualità urbanistiche e architettoniche.  La little Italy di Tianjin in Cina
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  Il distretto italiano a Tianjin. Metà anni venti

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La colonia dimenticata

Il turista italiano che viaggia in Cina e visita quello che i cinesi chiamano l’Italian Style Town (il quartiere in stile italiano) di Tianjin si trova a vivere un’esperienza totalmente inaspettata. Piuttosto che trovare uno dei tanti rifacimenti in stile presenti in molti luoghi all’estero, trova invece un quartiere storico, una mini città costruita dagli italiani nella prima metà del secolo scorso. Il visitatore scopre tratti urbanistici e architettonici tipici delle cittadine e dei quartieri periferici construiti in Italia in quegli anni, un’ambiente urbano familiare nel posto dove meno se lo aspetta. Una città, questa, che nasce per una casualità della storia e che nel tempo perde la sua vocazione originaria, evolvendosi per assumerne una totalmente diversa pur mantenendo le stesse forme urbane i cui significati si trasformano nel tempo.

Le sensazioni del visitatore italiano nel visitare l’ex Concessione italiana di Tianjin si possono in parte ritrovare nel libro di Italo Calvino, “Le città invisibili”, con le immaginarie descrizioni delle città visitate da Marco Polo all’imperatore Kublai Kan. Un libro che trae spunto dai racconti del viaggiatore veneziano per scavare nel nostro subconscio, estrapolandone gli elementi che, nel nostro interagire spazio-temporale, plasmano la percezione della realtà che ci circonda, verbalizzandone in maniera originale sensazioni ed emozioni.   little Italy di Tianjin in Cina

Marco Polo immaginava di rispondere (o Kublai immaginava la sua risposta) che più si perdeva in quartieri sconosciuti di città lontane, più capiva le altre città che aveva attraversato per giungere fin là, e ripercorreva le tappe dei sui viaggi, e imparava a conoscere il porto da cui era salpato, e i luoghi familiari della sua giovinezza, e i dintorni di casa, e un campiello di Venezia dove correva da bambino.

…quello che lui cercava era sempre qualcosa davanti a sè, e anche se si trattava del passato era un passato che cambiava man mano egli avanzava nel suo viaggio, perchè il passato del viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto. Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti. 

Italo Calvino, Le citta invisibili. Pag. 34 

Nel libro di Calvino le descrizioni delle immaginarie città visitate da Marco Polo sono quindi personali estrapolazioni di sensazioni della somma delle nostre esperienze che ci aiutano a capire la natura dell’ambiente urbano, delle sue evoluzioni e trasformazioni e degli effetti che lo spazio costruito ha su di noi. Descrizioni che sono parte di immagini e brani di vita vissuta, ricordi di luoghi, odori, rumori, di frammenti urbani che fanno parte integrante del nostro vivere sociale quotidiano che ci portiamo appresso e che ritroviamo in varia maniera, forma e grado ovunque noi siamo.

Fino a meno di un secolo fa la percezione della Cina nell’immaginario comune del popolo italiano era più o meno la stessa di quella dei contemporanei di Marco Polo: una leggendaria terra lontana piena di meraviglie, tesori, usanze misteriose e strane creature. Così, nel 1901, l’occupazione italiana di una zona di terreno alla periferia della città di Tianjin viene ricevuta dalla popolazione tutta con grande curiosità e aspettativa. Tuttavia, dopo le roboanti descrizioni su giornali e riviste della battaglia e dell’occupazione di Tianjin, molto poco è stato riportato dalla stampa italiana negli anni a seguire. Tuttora in Italia l’esistenza di questo piccolo ex possedimento è ancora generalmente sconosciuta, tanto che una recente pubblicazione on line dedicata all’ex colonia è stata titolata “La Colonia dimenticata di Tianjin“. A nostra opinione, più che di una dimenticanza si tratta, come avremo modo di vedere, di un virtuale abbandono da parte dell’apparato politico del nostro paese mentre, al contrario, l’ex concessione italiana di Tianjin è ben nota in Cina, con tutti i principali siti internet turistici di questa nazione che ne danno ampio risalto.

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Le colonie italiane nel 1943

La little Italy di Tianjin in Cina

Le migliaia di ville

Nella pagina dedicata alle ex concessioni straniere di Tianjin del Travel China Guide, uno dei maggiori siti internet cinesi di promozione turistica, leggiamo quanto segue:

Non è esagerato affermare che Tianjin ha una splendida cornice storica. Profanata tuttavia da invasori stranieri molto prima della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. La città era un tempo condivisa da nove paesi: Italia, Germania, Francia, Russia, Gran Bretagna, Austria, Giappone e Belgio. Un’occupazione che ha segnato un periodo estremamente difficile per la città e i suoi abitanti e che ha lasciato segni permanenti nel suo tessuto, il più notevole dei quali è la presenza di migliaia di ville. Oggi queste ville offrono un sapore esotico, valorizzando la bellezza di tutta la città.

Anche tenendo presente la necessità di testi brevi per catturare l’attenzione dei potenziali turisti, resta nel testo un’ambiguità che necessita chiarificazione. Si accenna al periodo difficile per la popolazione, specie durante l’invasione. A segni permanenti nel tessuto della città dovuto, oltre alle uccisioni della popolazione civile con conseguenti stupri e saccheggi, all’abbattimento delle vecchie mura della città e la distruzione delle infrastrutture esistenti, di case, mercati e templi. Viene poi menzionato ciò che gli invasori hanno lasciato alla loro partenza: migliaia di ville.

Ebbene, Tianjin è stato il luogo dove in Cina gli occidentali hanno creato la prima università, la prima zecca, la prima sala cinematografica, il primo sistema di trasporto pubblico e il primo ufficio di polizia. Perché, in un tale contesto, citare solo le ville? E poi perché, di tutte le nove concessioni, c’è così tanta enfasi sulle ville, particolarmente presenti nel settore italiano e che, per la maggior parte, hanno un’architettura che per dimensione e tipologia edilizia difficilmente può rivaleggiare con quella di altre concessioni, specie quella britannica? Certamente quello che oggi è chiamato il Quartiere in stile italiano di Tianjin è diventato un importante punto di attrazione per gli abitanti della città e per i turisti, sia locali che stranieri. La sola presenza di tante ville in stile primo novecento italiano non basta però a spiegare in modo convincente il motivo della così grande popolarità del luogo.   La little Italy di Tianjin in Cina

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   Località soggette ai trattati internazionali

 

Cenni storici

Tianjin, situata lungo la costa a circa 100 chilometri a sud est di Beijing, è una delle quattro megacittà a speciale amministrazione della Repubblica Popolare Cinese. Nel 1404 un decreto imperiale ne sugella ufficialmente lo stato civico. Durante la dinastia Qing assume una notevole importanza come porto e centro commerciale a supporto della capitale. Nel 1842 la firma del trattato di Nanjing alla fine della prima guerra dell’oppio segna l’inizio delle invasioni straniere, seguita nel 1858 dal trattato che pone fine alla seconda guerra dell’oppio, culminata nell’invasione di Tianjin da parte di truppe britanniche e francesi. Le guerre dell’oppio furono così chiamate perchè, oltre a permettere la permanenza di legazioni straniere e missionari e la presenza di installazioni commerciali permanenti, autorizzava il commercio dell’oppio in Cina, praticato per lo più dagli inglesi. Le guerre dell’oppio sono certamente uno dei momenti più bui e degradanti della storia coloniale europea, culminati con la firma dei trattati iniqui, così definiti dalla storiografia cinese perchè ottenuti con la forza in un periodo storico particolarmente fragile per la Cina. Tanto che il periodo che va dal 1842 al 1945 viene generalmente descritto in Cina come secolo di umiliazione.  La little Italy di Tianjin in Cina

 

  Tianjin nella stampa italiana dell'epoca

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La presenza straniera dovuta al trattato del 1860 ha un impatto relativamente modesto nel tessuto urbano di Tianjin, limitato alla costruzione di alcuni edifici commerciali e religiosi da parte inglese e francese, I soli presenti a quel tempo. La situazione cambia nel luglio 1900 quando la città viene occupata da una coalizione multinazionale arrivata a debellare la cosidetta ribellione dei Boxer, una spontanea insurrezione popolare in opposizione alla sempre più crescente infiltrazione straniera. La partecipazione italiana era stata sollecitata dal governo inglese alla ricerca di una legittimazione internazionale per mascherare una spedizione punitiva e un’invasione di una nazione sovrana soggetta a continui ricatti e suprusi, per così continuare e aumentarne i propri interessi economici e commerciali. Il consenso italiano a questa spedizione non era dovuto a motivi di utilità – dato che l’Italia aveva ben pochi interessi commerciali nell’estremo oriente – piuttosto perchè in linea con la politica estera dello stato postunitario. L’acquisizione di terre straniere, simbolo di prestigio e autorità, mirava sia al riconoscimento internazionale di nazione allo stesso rango delle potenze dominanti europee del tempo che al consolidamento di un’identità nazionale solo di recente ottenuta. In meno di mezzo secolo l’Italia passa quindi da nazione oppressa ad oppressore, con gli organi di stampa che passano dal mostrare le immagini della popolazione di Milano insorta alle truppe austriache nel 1848 a quella delle truppe nazionali che soffocano l’insurrezione popolare di Tianjin nel 1900.  La little Italy di Tianjin in Cina

 

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Le concessioni straniere di Tianjin, 1901

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La creazione dei distretti stranieri

Alla fine delle ostilità l’alleanza lascia una forza di occupazione permanente che mette in moto una drastica trasformazione del paesaggio urbano, occupando col trattato di pace circa mille ettari di terreno nei pressi della vecchia città di Tianjin, dei quali all’Italia vengono assegnati circa quarantacinque. Territori poi tornati alla Cina alla fine della seconda guerra mondiale. L’intenzione degli occupanti era quella di creare centri permanenti di occupazione con la costruzione di agglomerati urbani, uno per ogni nazione occupante, in posizione strategica lungo il fiume Hai in vicinanza del porto. Le concessioni, da strumento di supremazia coloniale per la promozione e l’espansione di attività commerciali, assumono presto un significato di propaganda e immagine d’orgoglio nazionale. Il risultato sono distretti urbani autosufficenti, affiancati eppure disgiunti l’uno dall’ altro, con modalità e identità proprie e distinte, con ognuna i suoi organi amministrativi, regolamenti e piani regolatori. Ogni distretto diventa quindi un ambiente urbano a sè, una sorta di “spazio artificiale” ognuno con la sua peculiarità. Una vetrina dove esporre modelli urbani e architettonici derivati dalla storia e cultura dei paesi occupanti, col risultato di far apparire le concessioni una sorta di mini Esposizione Universale, fatta però di edifici permanenti. A questo proposito il giornalista americano John Hersey così descrive Tianjin in un libro di ricordi.

Che città bizarra quella nella quale sono cresciuto. Con tre o quattro monetine potevo girare in risciò dalla mia casa, in Inghilterra, fino in Italia, poi in Germania, Giappone, o in Belgio. Andavo a piedi in Francia per lezioni di violino. Attraversavo il fiume per raggiungere la Russia, cosa che ho fatto spesso, dato ché i russi avevano un bellissimo parco alberato con in mezzo un lago.

 

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Immagini della concessione britannica

 

La concessione Britannica è quella fra tutte che meglio esemplifica la trasposizione in Cina di un modello urbano e architettonico che esprime la cultura di una superpotenza colonizzatrice volta a sfruttare politicamente e commercialmente territori d’oltremare. La sua via principale, Jiefang Road, mostra una sequenza di edifici imponenti con grandi colonnati che adornano ex sedi di banche e società finanziarie, uffici e hotel. La concessione francese presenta caratteristiche simili anche se con una minore presenza di edifici pubblici, prevalentemente in stile neoclassico, frammiste ad alcune strutture commerciali in stile Art Deco. La concessione giapponese viene invece principalmente utilizzata come strumento di penetrazione politica e militare. E’ qui dove l’ultimo imperatore è relegato, confinato per anni nella gabbia dorata di due suntuose ville appositamente costruite.

 

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 La concessione austriaca e quella italiana

 

I distretti austriaco e italiano che si trovano fianco a fianco sulla sponda sinistra del fiume Hai mostrano, nel grande contrasto del tessuto urbano e dell’architettura, la piena espressione della loro diversità ideologia, socio-politica, storica e culturale. Nel pianificare con grande alacrità e efficenza burocratica il loro distretto, gli austriaci adottano un linguaggio architettonico che nella sua organizzazione formale mostra un’immagine di potenza e di grandezza, rispecchiante la vocazione imperiale della loro storia e il prestigio politico che allora questa nazione godeva. Il risultato è un’architettura di buona fattura, espressa in grandi strutture la cui imponenza può essere pienamente apprezzata solo dalla distanza. Usando per questo la riva del fiume come proscenio per una visione d’insieme di grande effetto e drammaticità scenica.

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Concessione austriaca

  La concessione austriaca vista da fiume Hai

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Dalla distanza, invece, il distretto italiano appare ben poca cosa, con un approccio formale molto più contenuto in scala, dimensione e intenzioni. L’elemento generatore della sua architettura non sono construzioni imponenti, piuttosto gli spazi aperti delle piazze, elemento caratteristico principe dello spazio urbano italiano. Spazi che diventano punto di aggregazione e di generazione della forma urbana, alla maniera della maggior parte delle nostre città storiche. Quello che ne risulta sono piccoli edifici che fiancheggiano piazze e strade e che presentano tra loro elementi di uniformità di massa e di volume che ne fanno frammenti di un tessuto urbano continuo e omogeneo. Un ambiente urbano che, al contrario di quello austriaco, piuttosto che da distanza, può essere pienamente apprezzato soltanto dal di dentro del suo tessuto edilizio.   La little Italy di Tianjin in Cina

 

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La concessione italiana nel 1901

 

La concessione italiana

Lo sviluppo della Concessione italiana ha avuto un inizio molto lento per l’incapacità iniziale del governo italiano nel decidere un concreto piano d’azione. L’intenzione iniziale era di farne un avamposto per lo sviluppo di relazioni commerciale col lontano oriente. Ma nulla se ne fece per la reticenza ad investire capitali in un’avventura coloniale così lontana dalla madrepatria. Dopo aver tentato inutilmente di concedere la minicolonia ad una società privata d’investimento, il governo italiano da mandato al corpo diplomatico locale di formare un ente autonomo, concedendo nel 1912 un semplice prestito per finanziare le necessarie opere di urbanizzazione. Prestito poi interamente rimborsato con i ricavi derivanti da tasse sulle proprietà, dazi doganali e, prevalentemente, dalla vendita di lotti edilizi.   La little Italy di Tianjin in Cina

Ed è proprio il corpo diplomatico italiano il promotore della creazione del distretto italiano di Tianjin, con l’assistenza tecnica dei militari stazionati nell’area e dell’Associazione nazionale per soccorrere i missionari cattolici italiani” (Ansmi), una società caritatevole privata fondata nel 1886 per fornire assistenza alle missioni italiane all’estero tramite la concessione di sussidi a enti religiosi e di fondi per la costruzione di chiese e opere assistenziali.

 

   Concessione italiana: pianta pre e post urbanizzazione

 

Rispetto alle altre concessioni le prime opere di urbanizzazione cominciano con parecchio ritardo. Il programma, similmente alle altre nazioni,  è la costruzione di un brano di città totalmente nuovo che necessita la completa demolizione ed eradicazione delle infrastrutture esistenti. Nel caso italiano un villaggio di circa tredicimila abitanti, cave di sale, terreni coltivati e un cimitero. Seguono le opere di bonifica, quali il consolidamento della banchina sul fiume Hai, il livellamento del terreno e il riempimento di avvallamenti per l’eliminazione delle zone aquitrinose. Portando poi energia elettrica, acqua, fognature e implementando infine un sistema d’illuminazione elettrica stradale e uno di trasporto pubblico.  La little Italy di Tianjin in Cina

 

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 Concessione italiana: Il piano urbanistico

 

Il piano urbanistico della città nuova consiste nella progettazione di due piazze principali (piazza Regina Elena e piazza Dante) in posizione centrale all’interno di un griglia stradale uniforme. Con due vie principali, corso Vittorio Emanuele III in direzione est ovest, che collega la stazione ferroviaria alla città cinese e via Marco Polo, sull’asse nord-sud, collegando i due principali poli commerciali, la stazione ferroviaria e il porticciolo sul fiume Hai. Il piano viene elaborato su modelli urbanistici simili di quelli adottati a quei tempi in madrepatria. Gli isolati che ne resultano, di circa 150 metri di lato, delimitano lotti di diversa grandezza, intervallati da spazi pubblici: piazze, viali e giardini. L’uniformità dello sviluppo urbano, distibuito nel tempo, viene garantita dall’introduzione di regolamenti edilizi – rigidamente applicati – che detta volumerie e altezze, distanze dalla strada e tra i vari edifici ed, infine, imponendo elevati standard architettonici, con ogni progetto soggetto all’approvazione delle autorita consolari.

 

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 Il monumento alla Vittoria in piazza Regina Elena

 

La prima opera pubblica costruita, elemento catalizzatore per il futuro spazio urbano, è il monumento alla Vittoria al centro della piazza Regina Elena caratterizzata da un’alta colonna di marmo sormontata dalla statua della Vittoria alata, al centro di una grande fontana. Segue nel secondo decennio del secolo un modesto programma di costruzione di edifici pubblici in conformità con l’architettura in stile eclettico dominante in Italia in quel periodo, chiamato stile umbertino; un insieme di motivi stilistici presi in prestito dal passato, abilmente articolati per ottenere un ricco, vario e multiforme, vocabolario di forme costruttive.   La little Italy di Tianjin in Cina

Il primo progetto pubblico, completato nel 1912, è il piccolo edificio del Consolato su progetto da Daniele Ruffinoni, un giovane architetto torinese che si reca per alcuni anni a lavorare a Tianjin su richiesta dell’Ansmi. Il modello progettuale è il palazzo comunale del tardo medioevo con tanto di torre civica, simbolo della libere città medievali italiane. Dopo diversi anni, nel 1918 viene costruito il palazzo municipale, una struttura modesta, semplice e senza pretese, costruita con budget ridotto e modellata dalle ville italiane del quindicesimo secolo. Al contrario, la caserma Carlotto costruita nel 1922 dei genieri militari ha grandi dimensioni per poter alloggiare una guarnigione di 300 uomini e che prende come modello la più imponente opera d’ingegneria degli antichi romani, l’acquedotto.

 

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 La caserma Carlotto

 

L’Ansmi, oltre a coprire i costi per la progettazione dei primi edifici pubblici, affida all’architetto Ruffinoni il progetto di un grande ospedale – primo esempio di ospedale moderno a Tianjin – e di un istituto di educazione (1914-1922) con due ali, una per ragazze cinesi e l’altra per ragazze occidentali. L’ospedale presenta un solido aspetto istituzionale mentre il collegio ha un tono più residenziale con l’introduzione nella facciata di un elegante colonnato in stile rinascimentale, sovrimposto ad un blocco edilizio di tre piani rivestito in mattoni. Sempre dell’ANSMI è la sponsorizzazione della chiesa del Sacro Cuore, terminata nel 1922, con struttura di dimensioni medie, progettata in toni sobri e eleganti. L’aspetto più interessante di questa chiesa è la sua perfetta integrazione urbana, con forme e volumi in sintonia con gli edifici residenziali adiacenti.

La metà degli anni 30 segna la fase finale della costruzione di edifici pubblici col completamento nel 1934 del Forum in prossimità di Piazza Regina Elena. Un palazzo a tre piani basato sulla tipologia della Casa del Fascio, seguendo le direttive programmatiche del partito fascista volto a fornire alla popolazione un centro polifunzionale per attività culturali e sportive. Lo stile architettonico è anch’esso ripreso da quello della Casa del Fascio, conosciuto come stile mediterraneo, che reinterpreta la tradizione classica in forme modern, semplificandone i motivi ed eliminandone decorazioni superflue. Prediligendo inoltre l’uso di volumi geometrici puri come, nel caso del Forum, il rettangolo nel corpo principale e l’esagono nella parte superiore delle due torri laterali, dove hanno posto di rilievo quattro fasci littori, visibili da ogni angolo di strada.   La little Italy di Tianjin in Cina

 

Tianjin view of obelisk

      Via Marco Polo alla fine degli anni 30

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Il distretto aristocratico

Il regolamento edilizio che disciplina lo sviluppo urbano della concessione italiana imponeva originariamente che tutti gli edifici residenziali e privati fossero progettati in stile europeo e occupati esclusivamente da connazionali o europei di “buona estrazione e condotta”, privilegiando gli italiani, per i quali viene previsto un forte sconto nell’acquisto dei lotti. A causa della scarsa attività commerciale e, quindi, della rara presenza di uomini d’affari italiani o europei, presto l’amministrazione locale è costretta ad emendare il regolamento, allargando le transazioni immobiliari a “taoisti e altri funzionari cinesi di alto lignaggio” previo il nulla osta delle autorità consolari. Non venendo gli sporadici edifici pubblici affiancati da edifici commerciali di rilievo come avviene nella concessione britannica, gli ammistratori italiani riescono a trovare acquirenti per i loro lotti quasi esclusivamente tra l’alta borghesia cinese. Imprenditori, commercianti, politici e signori della guerra che trovano protezione nello status extraterritoriale delle concessioni straniere, al riparo dalle rovine e dai saccheggi causati dalle guerre civili che devastano il paese in quegli anni.   La little Italy di Tianjin in Cina

 

Villino presso Piazza regina Elena

  Villa nei pressi di piazza Regina Elena

 

Quel che ne deriva è un quartiere residenziale di lusso con poche attività produttive, in prevalenza occupato da villini a due piani circondati da giardini recintati, dove vivono nella metà degli anni trenta circa 500 connazionali (compreso il contingente militare) circa 800 cittadini occidentali di varie nazionalità che operano nelle diverse concessioni e più di 6.000 cinesi, proprietari delle ville col loro personale domestico. La larga presenza di cinesi facoltosi dona prestigio alla concessione, tanto da venir chiamata dalla stampa locale del tempo la concessione aristocratica. Così scrive H.G.W. Woodhead nel suo libro A Journalist in China, pubblicato a Londra nel 1934:

La concessione britannica e le sue estensione limitrofe contenevano le più importanti banche estere, uffici e negozi, e una considerevole popolazione cinese. La concessione italiana … stava diventando il centro più importante per le splendide residenze di militari cinesi in pensione e politici.

L’alta borghesia cinese adotta con entusiasmo lo stile di vita residenziale occidentale, apprezzando la modernità, la comodità e l’aspetto architettonico delle ville progettate da architetti italiani con variegati ornamenti, gioco di volumi policromatici, ricchezza e stravaganza di dettagli che trasmette con le sue forme eleganti una sensazione di opulenza, potere e prestigio. Quel che ne deriva nel tempo è una serie di paradossi che fanno del distretto italiano un’esperienza urbana unica e irripetibile: la sublimazione della concessione da terra di conquista italiana a città ideale cinese. Piuttosto che con le armi, la riappropriazione del territorio dall’invasore avviene con atti di compravendita che portano la stragrande maggioranza dei terreni a diventare legalmente di proprietà di cittadini cinesi, ai quali l’amministrazione municipale – quasi interamente dipendente dalle entrate fiscali da loro rimesse – offre stabilità, protezione e un ambiente civico  asettico, privo di zone produttive creanti inquinamento e di aree di degrado, dovuto alla pre-selezione dei suoi abitanti. L’altro aspetto è quello della composizione sociale del distretto che, non per disegno ma piuttosto per forza di cose, è abitato e occupato esclusivamente da una sola classe sociale, quella borghese dei facoltosi commercianti italiani e dell’aristocrazia cinese.

Il presupposto di tutte le teorie sulla città ideale, a cominciare da Thomas Moore e Tommaso Campanella, è la virtuale assenza di divisioni di classe basate sul reddito che rende uguali i cittadini, sostenendone il comune benessere che come conseguenza porta armonia civica. In questo caso l’armonia sociale è dovuta, più che all’azzeramento delle classi, alla presenza di una sola classe sociale che ne garantisce egualmente l’armonico svolgimento di tutte le attività pubbliche. Un raro documentario del 1935, che descrive  il distretto come cittadina modello, mostra chiaramente il carattere assunto dal quartiere italiano all’apice del suo sviluppo urbano.    La little Italy di Tianjin in Cina

 

 

La prima inquadratura, come c’era da aspettarsi, è della piazza principale e delle ville che la circondano, seguita dai pochi edifici pubblici, la caserma e l’ospedale, per finire col Forum. Si passa poi alla banchina del fiume Hai, all’estrema periferia sud del distretto, dove sono relegati i lavoratori portuali. L’altro polo produttivo, con grande presenza di lavoratori e che non viene fatto vedere nel filmato, è la stazione ferroviaria, relegata nella periferia nord, anch’essa ai margini del distretto. Si vedono poi immagini del mercato, di un un negozio e di un barbiere, che lavora all’esterno, non avendo sicuramente nè i mezzi nè l’autorizzazione consolare per possedere uno stabile da adibire a negozio. Infine un funerale, in alta pompa e con carro funebre addobbato con ricca ornamentazione, questo si di un residente, o meglio ex residente del distretto. Sono immagini che ci rendono l’essenza del distretto aristocratico, caratterizzato dall’assenza di infrastrutture e residenze per la classe lavoratrice, relegata ai margini della città in un ruolo di totale marginalità. Con artigiani, manovali, muratori, scaricatori e tutti coloro che prestano manodopera nel distretto che lasciano al mattino le loro case nell’adiacente distretto cinese per poi tornarsene la sera, dopo aver reso i loro servizi ai residenti della cittadina modello. Con quest’ultimi che ogni notte e nelle feste comandate riprendono l’esclusivo possesso del loro unico e irripetibile ambiente urbano, creato, gestito e vissuto dalla morente borghesia del fino ottocento – primo novecento, presto travolta dagli eventi sia in occidente che in oriente.

C’è inoltre da notare il fatto significativo che i proprietari delle ville non sono affatto fruitori che partecipano passivamente alla creazione architettonico urbanistica del distretto aristocratico. Per meglio capire il ruolo attivo intrapreso dall’aristocrazia cinese basta inoltrarsi nelle strade che si diramano da piazza della Vittoria ed andare ad osservare le notevoli differenze tra le abitazioni di due noti personaggi che, per inciso, rappresentano due poli opposti della società aristocratica cinese del tempo.

La prima è la residenza di Tang Yulin (1877–1937), un signore della guerra ed ex governatore del distretto di Rehe fino al 1932. Il quale, costretto al ritiro e non appagato dalle ricchezze già illecitamente accumulate in saccheggi e razzie, trae vantaggio dallo status extraterritoriale della concessione per dedicarsi a traffici di droga e di reperti archeologici. Per affermare il suo status sociale recentemente acquisito, Tang commissiona un’imponente villa in stile neorinascimentale, modellata ai palazzi patrizi della nobiltà italiana, adottandone sia l’architettura che la tipologia edilizia. Quel che ne risulta è una struttura di generose dimensioni e di forte presenza espressiva che raggruppa in un unico volume, molto articolato, le svariate funzioni abitative, gerarchicamente distibuite  nello spazio. Con il corpo principale che contiene la zona residenziale e di rappresentanza, le due ali ufficio, biblioteca e cucine mentre nelle appendici, disposte in entrambi i lati, sono dislocati alloggi domestici, stalle, laboratori e magazzini.

Non molto lontano troviamo la residenza di Liang Qichao (1873–1929), uno dei piu grandi e influenti intellettuali ed educatori del tempo, autore di molti testi di cultura, storiografia e storia della letteratura cinese. Il quale, per via del suo impegno civico, era stato perseguitato e costretto per molti anni a riparare all’estero, con tappe in Giappone, Usa e Canada. Nel progettare i suoi spazi abitativi Liang adotta un approccio totalmente opposto a quello di Tang. Piuttosto che seguire le modalità costruttive dell’aristocrazia occidentale, Liang si ispira alla sua cultura e al patrimonio architettonico delle casa tradizionale cinese, dove le varie attività domestiche sono distribuite in diversi padiglioni collegati tra loro. Non potendo per via del regolamento edilizio usare questa tipologia, Liang articola la sua dimora in due strutture affiancate, una adibita a dimora e l’altra ad ufficio e biblioteca. La prima è progettata secondo i canoni dell’eclettismo neoclassico occidentale, con facciate simmetriche ben proporzionate e trattate con ornamenti sobri ed eleganti. Nella seconda struttura, dove Liang partecipa alla progettazione, la rigida simmetria della residenza viene sostituita da volumi e elementi costruttivi di elegante asimmetria. Liang inoltre prende spunto dalla sua eredità culturale nel trattamento decorativo generale, come la disposizione delle colonne in tandem di tre, nel trattamento delle finestre e nel posizionare ad angolo la porta e la scala di accesso, una soluzione chiaramente ispirata ai principi tradizionali del Feng Shui.

La little Italy di Tianjin in Cina

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La little Italy di Tianjin in Cina

Le città e la memoria

Non basta una semplice ricerca storica o uno studio architettonico per capire il motivo dell’attuale popolarità del distretto italiano presso il popolo cinese che, come precedentemente accennato, ha altresì vissuto l’esperienza coloniale con sdegno e umiliazione. Quello che è necessario, crediamo, è un approccio più complesso e completo, investigando ulteriori aspetti di questo agglomerato urbano. Nel segmento Le città e la memoria 3 – del libro di Calvino, già citato, troviamo quella che pensiamo sia la chiave necessaria.

Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descrivere la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini solo le vie fatte di scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti: ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato…

Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira.  Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.

Come abbiamo visto, l’ambiente urbano della Concessione italiana è il risultato di uno sviluppo progressivo che ha seguito regole costruttive prestabilite, dettando la creazione di un tessuto urbano omogeneo, impiantato sugli schemi del reticolato stradale intervallato da spazi pubblici: strade principali più ampie, strade secondarie ridotte, vicoli, piazze e giardini pubblici, integrati questi ultimi da cortili, giardini e corti private. Il tutto modellato sulla sensibilità dei progettisti italiani che non si sono limitati alla progettazione di strutture pubbliche e private, ma che hanno anche fissato il modello d’arredo stradale e il trattamento degli spazi esterni privati, riprendendo e sviluppando tecniche e motivi tipici della progettazione urbana italiana.

Lasciando la piazza Regina Elena, ribattezzata in seguito dall’amministrazione cinese piazza Marco Polo, e camminando per le vie secondarie del quartiere si notano, tra ville e palazzotti dello stile eclettico eterogeneo precedente notato, angoli di strade, vie secondarie, viottoli interni, angoli di edifici, piccoli passaggi pedonali, piazzette, muretti di recinzione ed inoltre tutta una serie di minuti componenti di brani urbani che abbiamo visto e rivisto nelle nostre città e quartieri. Guardiamo per esempio ad una particolare villa che è stata impostata su quella che è la quintessenza della tipologia edilizia residenziale italiana: la palazzina. In questo tipo di costruzione tutte le facciate hanno la stessa importanza e, conseguentemente, lo spazio esterno diventa un’estensione degli spazi abitativi interni, mentre la modo di vivere gli interni si proietta all’esterno. Questo fa sì che i brani di tessuto urbano adiacenti si compongono di un susseguirsi di spazi che si potrebbero definire intimi, ben definiti, omogenei eppure diversi tra loro. Il tutto arricchito dalla presenza di piccoli giardini, fontane, statue, marciapiedi in varie forme e colori, muretti di recinzione, grate decorative in ferro battuto.

Tutto ciò dimostra che l’eccellenza della concessione italiana di Tianjin non è la sua architettura, ma il ricco ed omogeneo ambiente urbano creato nell’arco di meno di un quarto di secolo. Come è per la maggiorparte dei quartieri storici delle città italiane, non vi è marcata distinzione tra il trattamento progettuale dei fronti stradali principali e dei vicoli secondari, con tutti gli elementi del costruito, grandi e piccoli, che contribuiscono fattivamente al suo carattere e alla formazione della sua immagine urbana. Questa, crediamo, è la ragione per l’attuale grande popolarità della ex concessione italiana: la qualità superiore dello spazio urbano che circonda le ville, piuttosto che le “migliaia di ville”, citate dal China Travel Guide.   La little Italy di Tianjin in Cina

 

Foto per il finale del testo

 Strada nei pressi di piazza Regina Elena

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La foto di una strada nei pressi di piazza Regina Elena, ora Marco Polo, potrebbe benissimo appartenere ad una pagina di un Italy Travel Guide. Questa immagine ha indubbiamente un senso di familiarità che trascende la presenza di insegne e cartelloni pubblicitari con scritti in carattere cinese. Quello che più impressiona non sono gli edifici in se, ma l’insieme dell’ambiente urbano che, preservato virtualmente intatto, si è ora sublimato da espressione di prevaricazione coloniale, creato artificialmente per essere abitato da pochi privilegiati, in spazio primario di incontro e di intrattenimento per turisti e per gente del posto, senza distinzione alcuna di ceto o nazionalità. Tra le diverse descrizioni immaginate da Calvino delle città visitate da Marco Polo, vi è quella di Aglaura che contiene una citazione che potrebbe ben descrivere la peculiarità della così grande trasformazione della concessione dai tempi dell’occupazione italiana ad oggi.     La little Italy di Tianjin in Cina

Antichi ossevatori, che non c’è ragione di non supporre veritieri, attribuirono ad Aglauria il suo durevole assortimento di qualità, certo confrontandole con quelle d’altre città a dei loro tempi. Né l’Aglaura che si dice né l’Aglaura che si vede sono forse molto cambiate da allora, ma ciò che era eccentrico è diventato usuale, stranezza quella che passava per norma, e le virtù e i difetti hanno perso eccellenza o disdoro in un concerto di virtù e difetti diversamente distribuiti.

Italo Calvino, Le città invisibili. Le città e il nome – 1.

Come impresa di conquista, questa piccola esperienza coloniale italiana non può certamente essere considerata nient’altro che un vero e proprio fallimento. Nessuno degli intendimenti iniziali sono stati seriamente intrapresi e ben poco ne è stato dell’avamposto commerciale che avrebbe dovuto aprire i mercati d’oriente alla nazione. Nessun serio tentativo è stato mai fatto dal governo italiano nell’investire concretamente in quest’avventura coloniale, costringendo il suo corpo diplomatico a sdoppiarsi nel ruolo di aspiranti appaltatori, costretti a piazzare lotti al miglior offerente ed a supervisionare i lavori di costruzione nei cantieri edili. La colonia cinese non è stata nemmeno usata come strumento di propaganda del regime fascista, nè presa in considerazione nel dibattito e nella storiografia postcoloniale del nostro paese. Un’avventura coloniale mal concepita, per essere presto abbandonata dai politici e infine dimenticata nei meandri della storia.

Al giorno d’oggi il quartiere aristocratico, la città ideale classista e socialmente discriminante di Tianjin, ha perso la sua eccentricità, affrancandosi dalla sua stranezza, rigenerandosi e trasformandosi in punto di aggregazione civica e sociale. I suoi difetti iniziali di dominazione, di discriminazione, segregazione sociale e politica sono stati redenti e trasformati in virtù, finalmente redistribuite dal trascorrere del tempo.

La little Italy di Tianjin in Cina

  • Versione italiana di una lezione presentata al simposio Italy and China: Centuries of Dialogue, 7-9 Aprile 2016, Department of  Italian Studies, università di Toronto.

La little Italy di Tianjin in Cina

 

 

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2 comments

  1. Kokab 24 maggio, 2016 at 18:21

    storia veramente singolare, e presumo praticamente sconosciuta, anche non volendo assumere la mia ignoranza sulla materia come parametro di riferimento.
    forse solo il colonialismo più sfacciato e prepotente poteva consentire la creazione di luoghi che come questo violavano lo spazio e il tempo, decontestualizzati, stravaganti, eccessivi e privi di un qualunque sensato rapporto fra costi e benefici.
    il fatto poi che questi luoghi, anche se questo è un luogo che non credo assomigli a nessun altro, appena escono dal tempo in cui sono stati creati acquistino un pregio e un valore che è direttamente proporzionale all’arroganza che li ha prodotti, è una cosa che ha del miracoloso, perchè in definitiva trasforma la disgrazia di ieri nella fortuna di oggi.
    conviene farne buon uso.

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