le storie

Il Codice di Napoleone, impero del diritto

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Una «conquista» non solo francese ma europea. Figlia dell’ illuminismo

di Giuseppe Galasso

 

 

«La mia gloria non è di aver vinto qualche battaglia. Ciò che nulla potrà offuscare e che vivrà in eterno è il mio Codice civile». Così Napoleone stesso, dalla triste e remota Sant’ Elena. Non era una rivendicazione infondata. Delle 102 sedute tenute dal Consiglio di Stato per discutere il progetto egli ne presiedette di persona 57. Si era, inoltre, mirato a un sistema di valore universale, applicabile ovunque in base a quel diritto naturale, in cui la tradizione giuridica europea vedeva la radice di ogni forma e ordinamento di giustizia. Perciò uno dei redattori del Codice poté affermare che nello scriverne gli articoli ci si era limitati a seguire i principii universali fondamentali e immutabili del diritto e dell’ equità, proprio per aprire la via al Codice presso altri popoli.

Ma se questo intento di ampia diffusione «venne in gran parte soddisfatta nel XIX secolo dal Code civil – nota uno storico autorevole in materia come Paul Koschaker – ciò accadde grazie alla personalità di Napoleone piuttosto che per le qualità, indubbiamente eccellenti, del Codice stesso»; non tanto per queste qualità anch’ esse riconosciute («la migliore codificazione di diritto privato che mai sia stata attuata»), bensì perché quello fu «il codice dell’ Impero francese»: l’ impero voluto e costruito da Napoleone, che fu per questo verso anche un «impero giuridico», superando «di varie volte, sia per popolazione che per superficie, quello di Giustiniano», l’ altro memorabile nome associato a un codice di diritto civile che ha sfidato i secoli.

 

 

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Si può quindi ritenere giustificato che il Code civil del 1804 prendesse nel 1807 il nome di Code Napoléon. E tanto più in quanto lo seguirono quello di procedura civile nel 1806, quello commerciale nel 1807, quello di procedura penale nel 1808 e quello di diritto penale nel 1810. Un sistema completo, insomma, che fa onore al Paese che lo produsse e alla volontà politica di chi lo fece redigere e lo diffuse come un cardine della sua politica imperiale. Onore non attenuato dal fatto che, alla codificazione, i rivoluzionari avevano cominciato a pensare già prima di Napoleone. Questo dà ancora maggior valore all’ opera compiuta sotto di lui, come frutto di lunga meditazione sulle idee maturate nel corso del secolo dell’ Illuminismo, anche se non impedì che il Codice combinasse in parte antiche costumanze e diritto romano con esigenze affermatesi con la rivoluzione. Ne fa, anzi, un’ opera non solo francese ma, nel senso più pieno, del tutto europea.

I motivi principali del suo successo sono noti. Esso sanciva in una sistemazione organica le principali e più durature conquiste della rivoluzione francese. Di qui l’ assunzione dell’ individuo a base della normativa del Codice; la piena laicità di tale normativa; l’ affermazione dell’ uguaglianza dinanzi alla legge; l’ abolizione del diritto di primogenitura e del maggiorascato a esso congiunto e la conseguente parità ereditaria tra fratelli; la tutela della proprietà esentata da ogni servitù o limitazione di origine privilegiata o feudale; la individuazione della famiglia come cellula basilare per la vita sociale e per l’ ordinamento giuridico; l’ introduzione del divorzio e la rivendicazione del pieno diritto dello Stato a entrare in questa materia; la piena autonomia delle parti nel negoziare contratti, col solo limite dell’ interesse pubblico e del buon costume; l’ equivalenza stabilita per i beni mobili fra proprietà e possesso.

 

 

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Queste innovazioni si diffusero poi anche là dove Napoleone non sarebbe mai potuto arrivare, non solo perché (come si ripete con una formula quasi rituale) conformi agli interessi e alle idee della borghesia allora trionfante, bensì perché rispondevano, in qualche modo, a esigenze di soluzione di vecchi e nuovi problemi sociali e giuridici in varii tipi di società, e in ciò il diritto naturale, a cui pensavano i redattori, poteva entrarci molto o poco o nulla. Ci si chiede da molto per quanto tempo il Codice resisterà. Qualcosa è già chiaro. La sua dominante concezione fondiaria della proprietà appare molto ridimensionata da forme nuove di ricchezza affermatesi nella società industriale. Per il diritto di famiglia appaiono superate l’ autorità patriarcale del capofamiglia su moglie e figli e quella maschilistica dell’ uomo sulla donna. Sul regime tutto privatistico della proprietà sono pure visibili molte crepe.

 

 

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Ma questo e altro non intacca la vitalità del Codice su punti essenziali: l’ eguaglianza dinanzi alla legge, la tutela dell’ individuo e della proprietà, la laicità generale del sistema, la sapienza dei principii che regolano contratti e obbligazioni. Soprattutto poi è l’ idea stessa di codice un valore permanente, perché con essa (e lo si notò subito) il giudice non si pone più, come prima, quale legislatore, ma quale suddito e servitore della legge egli stesso. Una grande civiltà giuridica si può certo costruire anche su altre basi; ma queste del grande Codice si sono dimostrate tra le più solide anche per una società avanzata. Si aggiunga che, se l’ indiscutibile impronta unitaria e la principale ispirazione del Codice sono attinte al diritto romano, questo non ne è un riferimento esclusivo. L’ aria dei tempi nuovi aperti dalla rivoluzione vi circola, come si è detto, largamente e antiche costumanze vi hanno molta eco. Ciò dovrebbe scoraggiare la stucchevole e ricorrente contrapposizione fra diritto continentale e romano e diritto anglo-sassone, con relativi complessi di superiorità o di inferiorità e disegni di imitazione. Le civiltà giuridiche sono figlie della loro storia e non si prestano facilmente a trapianti di faccia e di organi. Se è tramontato, come si spera, per sempre l’ orribile principio «razza e diritto», è pure da sperare che tramontino complessi e disegni a cui la storia si rifiuta e dà continue e spesso disastrose smentite.

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