le scienze

Il fascismo e la scienza

L’eredità ricevuta

Il cinquantennio che va dall’Unità d’Italia alla Prima guerra mondiale può essere considerato come un periodo dedicato alla costituzione, o ricostituzione se si vuole, di una tradizione scientifica nazionale. Lo spezzettamento politico in cui erano vissuti gli italiani in precedenza aveva costretto l’attività di studio e di ricerca in ambiti locali; con l’unificazione del Regno le condizioni mutarono e, sia pure lentamente, presero vita, o furono rianimate, quelle forme organizzative – riviste, associazioni, convegni – che consentirono un amalgama tra cultori della medesima disciplina. L’individualismo che aveva caratterizzato la scienza preunitaria non scomparve tuttavia in modo rilevante, perché continuò a essere favorito dalla particolare struttura degli istituti di ricerca, che si identificavano generalmente con una cattedra universitaria.

La svolta della Prima guerra mondiale

La crisi in cui piombò il Paese per effetto della Prima guerra mondiale mise a nudo le carenze della nostra struttura produttiva e la sua dipendenza dall’estero, particolarmente dalla Germania. La guerra rivelò quanto l’organizzazione economica di un Paese valesse come arma. Gli ambienti governativi si mossero per tentare una ‘mobilitazione scientifica’ con notevole ritardo rispetto a quel che era già stato fatto in Inghilterra o in Francia: solo nel marzo del 1917 il ministero della Guerra istituì un Ufficio invenzioni e ricerche, affidato alla direzione e alla spinta del matematico Vito Volterra.

La guerra produsse un nazionalismo scientifico-tecnico che poneva con forza l’esigenza di sviluppare sino in fondo le potenzialità di cui il Paese era dotato grazie all’impiego di tecniche adatte alle specificità dell’Italia, tecniche ‘italiane’, svincolandosi così, laddove era ragionevole farlo, da una dipendenza dall’estero di cui la guerra aveva mostrato tutti i pericoli. L’idea di un’industria con caratteri nazionali portava con sé una rivalutazione del ruolo e del valore della ricerca italiana. Dopo il nazionalismo, un secondo tema pare essere stato imposto all’attenzione di tutti dall’esperienza bellica: il valore pratico della scienza. La guerra, mobilitando la scienza e mostrandone il terrificante potere, aveva scosso notevolmente l’ideale di scienza pura e disinteressata in precedenza egemone. Ma se la scienza doveva assumere un valore economico e sociale, essa doveva rinnovarsi profondamente nelle sue strutture. Il fascismo riprenderà questa triade tematica, nazionalismo, valore pratico della scienza, indirizzamento delle ricerche verso i bisogni della nazione, per fondare su di essa la propria politica scientifica.

I laboratori scientifici

agip posterGiovanni Gentile, in un discorso tenuto in qualità di ministro della Pubblica istruzione alla riunione annuale della SIPS del 1923 dal titolo La moralità nella scienza, enunciò con chiarezza il programma sopra detto. Proclamò innanzi tutto la volontà del governo di intervenire nell’attività scientifica in quanto momento importantissimo della pratica politico-sociale. L’attività scientifica è morale – cioè va vista come dovere, non come godimento – e la sua responsabilità pesa sugli uomini, chiamati al compito di essere utili alla propria patria. In queste tesi è racchiusa tutta l’essenza della concezione fascista della scienza: attività utilissima da sviluppare in funzione dei bisogni economici e politici del Paese.

Nonostante le enunciazioni di principio circa l’importanza della scienza, la dinamica complessiva delle forze presenti nella struttura universitaria durante il fascismo fu contrassegnata da un’indubbia perdita di peso dell’area scientifica rispetto a quella umanistica. Clamorosa fu la svolta prodottasi nella distribuzione degli studenti: se nell’anno accademico 1921-22 gli studenti iscritti ai corsi di laurea di area scientifica rappresentavano oltre il 60%, nell’anno 1939-40 erano gli iscritti dell’area umanistica a costituire il 66% del totale. Particolarmente marcata, all’interno dell’area scientifica, fu la diminuzione degli iscritti a ingegneria, che avvenne addirittura in termini assoluti, con un calo dalle 11.423 unità del 1921-22 alle 7818 del 1939-40.

Pur entro questa cornice, dal punto di vista dell’attività organizzativa a sostegno della ricerca nelle università il fascismo dimostrò indubbiamente un impegno non trascurabile. Vi fu un picco rilevantissimo attorno al 1924, dovuto all’apertura di due nuove università, quella di Bari e quella di Milano. Con la seconda metà degli anni Venti rallentarono di molto il rinnovamento e l’ampliamento delle strutture universitarie, per riprendere poi parzialmente in coincidenza con il periodo autarchico, con un significativo calo, tuttavia, in corrispondenza dell’approssimarsi della guerra.

Quest’attività conservò un elemento della tradizione postunitaria, cioè la preponderanza delle iniziative rivolte alla medicina. Vi furono, tuttavia, alcuni rilevanti mutamenti. Innanzi tutto, un’attenzione, particolarmente visibile negli anni Venti, per le scienze agrarie e, in sott’ordine, per la veterinaria. Questo dato è in ovvia sintonia con la politica di ruralizzazione della società italiana seguita dal regime. Nella seconda metà degli anni Trenta appare poi, in corrispondenza con lo sforzo di mobilitazione autarchica, un impegno nei rami tecnologici non agricoli che, per circa un quinquennio, furono privilegiati rispetto a tutti gli altri campi scientifici. In sostanza, la storia del rapporto tra fascismo e scienza fu fondamentalmente la storia del CNR.

La nascita del CNR

Dopo una lunga trafila che partiva dall’Ufficio invenzioni e ricerche di Volterra, nel novembre 1923 fu istituito in ente morale il Consiglio nazionale delle ricerche.. La presidenza fu assunta da Volterra, che era un noto antifascista. Fu messa in atto una pressione fortissima per farlo dimettere, bloccando di fatto i finanziamenti. L’istituzione non riuscì ad andare al di là di un’attività di censimento delle nostre strutture di ricerca e di alcune partecipazioni a riunioni internazionali, fino a che non fu riorganizzata nel 1927, alla scadenza del mandato di Volterra.

Il CNR fu sottoposto a un sostanziale riordinamento. Suo compito diventava quello di «coordinare le attività nazionali nei vari rami della scienza e delle sue applicazioni anche nell’interesse della economia generale». La presidenza del CNR fu offerta a Guglielmo Marconi, affiancato da un Direttorio che si caratterizzava per la presenza di un solo scienziato (il chimico Nicola Parravano). È questo un sintomo di un rapporto a volte difficile con il mondo accademico. Progressivamente, comunque, il legame con il mondo universitario si strinse per forza di cose, non essendoci scienziati al di fuori delle università, e la maggioranza delle posizioni di comando nei vari comitati e commissioni andò a docenti universitari.

Dal settembre del 1927 all’inizio del 1929 il Direttorio fu impegnato in un lavoro di organizzazione e di progettazione che fu subito caratterizzato da una drammatica penuria di finanziamenti, segno evidente della scarsa fiducia nel nuovo ente che ancora nutriva Mussolini. Di fronte alle chiusure mussoliniane il Direttorio tentò di bussare alla porta degli industriali, ma costoro posero come pregiudiziale, respinta dal Direttorio, quella di avere poltrone direttive per il controllo dei finanziamenti erogati. Nel febbraio del 1930 finalmente il duce concesse un aumento del finanziamento. Si era però ormai entrati in una fase storica nuova, quella demarcata dalla grande crisi economica internazionale del 1929, che faceva da spartiacque tra un periodo caratterizzato dall’apertura verso i mercati internazionali e quello degli anni Trenta, nel corso del quale prese progressivamente piede l’idea di fare da sé e si materializzò lentamente il grande progetto autarchico.

Gli anni della crisi economica

Se nel corso degli anni Venti lo sviluppo dell’economia italiana era avvenuto in un panorama internazionale che lasciava spazio al libero commercio, con l’aprirsi del nuovo decennio si innescò una spirale di cambiamenti che si caratterizzarono per una sempre maggior ingerenza degli Stati nell’attività economica e una sempre maggior restrizione degli scambi internazionali. Nelle nuove condizioni create dalla crisi del 1929, l’Italia, come tanti altri Paesi, cominciò un movimento di ripiegamento su se stessa che costituì la preparazione al periodo dell’autarchia ‘ufficiale’. Nella prima metà degli anni Trenta riprese piede quel nazionalismo scientifico-tecnico che era stato offuscato nella seconda metà degli anni Venti, il quale risultava ora consentaneo ai tempi nuovi.

Nel 1930 il CNR era ancora all’esordio, con una collocazione provvisoria e non ben definita, senza fondi e senza sede, circondato da diffidenze e disattenzioni; nel corso del decennio si sarebbe rafforzato e affermato come un organismo in grado di incidere nel mondo un po’ sonnacchioso della nostra università.

La dirigenza del CNR cercò di avviare ricerche rilevanti per l’economia nazionale, privilegiando tematiche legate all’agricoltura, nella convinzione che l’Italia fosse sostanzialmente un Paese a vocazione agricola, ma la maggior parte dei fondi finì per andare a ricerche che rientravano appieno nei programmi di studio del mondo universitario, programmi non applicativi, dettati da interessi teoretici personali o di piccoli gruppi accademici. A volte, peraltro, si trattò di progetti destinati a dare risultati di valore assoluto, come quelli poi realizzati da Enrico Fermi nel campo della fisica nucleare o da Bruno Rossi per i raggi cosmici.

La crescita delle difficoltà economiche, e in particolare l’acuirsi delle tensioni nel mercato internazionale, risvegliarono in Italia un’attenzione rinnovata per il tema della valorizzazione delle risorse nazionali. In questa temperie di rinnovato nazionalismo, il CNR ebbe modo di irrobustirsi, puntando a diventare un’istituzione chiaramente dedita allo sviluppo della scienza e della tecnica al fine del potenziamento della nazione. Nel maggio del 1932 fu riordinato e ‘promosso’ organo di consulenza scientifica e tecnica per tutto lo Stato. Tra le iniziative caratterizzanti la politica del CNR a partire dal 1931, la più rilevante dal punto di vista politico fu comunque la costituzione del Comitato per le materie prime, destinato a studiare quali fossero i bisogni e le capacità produttive e quelle di surrogazione di materie prime dell’apparato produttivo italiano.

Tra la fine del 1933 e l’inizio del 1934 il clima politico italiano conobbe una svolta e prese piede il progetto di mobilitare la società italiana in vista di una guerra mediante la costruzione di un’organizzazione dello Stato in grado di dirigere i movimenti economici, tanto quelli interni, quanto quelli da e verso l’estero. Dal governo vennero molteplici spinte in questa direzione con misure legislative che favorivano le ‘produzioni nazionali’.

La mobilitazione del Paese in vista della guerra doveva naturalmente comprendere anche gli scienziati e Marconi nel suo discorso alla riunione plenaria del CNR dell’8 marzo 1934 introdusse una novità rispetto ai suoi interventi pubblici precedenti, intrecciando al consueto tema della valorizzazione delle risorse nazionali quello della mobilitazione imperiale della scienza. Il duce sembrava determinato a coinvolgere la scienza italiana nella preparazione militare.

Autarchia-tessuti

Inizia l’autarchia

Nel 1935, con l’inizio della guerra d’Etiopia e le susseguenti ‘sanzioni’ della Società delle nazioni, prese avvio il periodo dell’autarchia ‘ufficiale’: l’Italia avrebbe dovuto combattere al di là dei mari e allo stesso tempo svincolarsi dalle importazioni. Era veramente possibile per l’Italia fare una guerra e, contemporaneamente, riequilibrare la bilancia dei pagamenti con l’estero? Si trattava, per molti aspetti, di un problema tecnico-scientifico, più che politico-economico, e in effetti a partire dal 1935 il governo fascista cominciò a chiedere lumi alla scienza italiana coinvolgendo il CNR nello studio della questione delle materie prime.

All’inizio furono richieste sporadiche, sulla sostituibilità del rame, sull’utilizzazione della canapa come fibra tessile in luogo del cotone, sull’alcool succedaneo della benzina e così via. Al CNR si chiedevano risposte a quesiti difficilissimi imponendo limiti temporali ristrettissimi. Ovviamente il CNR rispettò le scadenze, ma fornì soluzioni o generiche o prive di fondamento.

Un mutamento chiaro nella vita del CNR si ebbe tra il marzo e l’aprile 1936. Il 23 marzo di quell’anno Mussolini tenne uno dei suoi più celebri discorsi, annunciando una svolta nella politica autarchica: se fino allora l’autarchia era stata concepita come una reazione alle sanzioni ginevrine, occorreva ora pensare all’autarchia come un progetto di offesa e di potenziamento della nazione. Al centro del proprio discorso il duce pose il problema delle risorse nazionali, e indicò come fondamentale per la sua risoluzione il contributo della scienza e della tecnica italiane, arrivando ad annunciare un prossimo, congruo aumento dei fondi al CNR.

Una crisi di crescita

All’inizio dell’estate del 1936 sembrava finalmente aprirsi la possibilità di dare vita ai tre grandi laboratori nazionali, per fisica, chimica e biologia, che costituivano il nerbo del programma originario del CNR. Nel clima euforico creatosi con la fondazione dell’impero si aprì una gara, solo in parte spontanea, tra le industrie nazionali, a suon di donazioni al duce, da suddividersi tra laboratori scientifici e opere assistenziali. Il CNR godette ampiamente di questa improvvisa ricchezza, oltre a usufruire di un aumento degli impegni dello Stato deciso da Mussolini.

L’improvviso benessere del CNR mise in evidenza un problema istituzionale irrisolto. Per la sua natura giuridica il CNR aveva la possibilità di fondare propri istituti, del tutto autonomi rispetto agli istituti universitari, cioè rispetto al ministero dell’Educazione nazionale? Il CNR si fece promotore di un nuovo decreto legge che gli conferisse configurazione giuridica autonoma e lo mettesse in grado di avere propri istituti di ricerca. Questa mossa scatenò la reazione del ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, non disponibile a cedere le proprie prerogative. Il clima diventò talmente teso da paralizzare parzialmente le attività del CNR. Alla fine occorse l’intervento diretto di Mussolini che diede ragione a Marconi, e nel giugno del 1937 fu pubblicato un decreto legislativo che recepiva le istanze di autonomia del CNR. La stasi del CNR si prolungò ulteriormente a causa della morte di Marconi, avvenuta il 20 luglio 1937

La presidenza Badoglio

Nel novembre 1937 Pietro Badoglio diventò presidente del CNR. La nomina a presidente di tale personaggio, che non aveva certo una preparazione in grado di consentirgli l’opera di direzione culturale di un simile organismo, può essere spiegata solo tenendo presente il clima politico di mobilitazione del tempo. Probabilmente Mussolini nell’offrirgli la carica si proponeva, da un lato, di sfruttare il suo prestigio per costruire attorno al CNR una rete di rapporti che andasse al di là degli ambienti scientifici, dall’altro, di rafforzare il possibile ruolo dell’istituzione nella preparazione bellica della nazione. Badoglio, in qualità di capo di Stato maggiore generale, era il più alto esponente delle Forze armate, e trasferì i suoi uffici nella nuova sede del CNR, stabilendo così un legame fisico tra militari e scienziati. Le attese di Mussolini andarono tuttavia deluse e il CNR non diventò mai un organismo tenuto in qualche considerazione dalle nostre Forze armate. Lo stesso Badoglio fu il primo tra i militari a dimostrare scetticismo verso l’istituzione che presiedeva.

Nonostante il fatto che lo scopo fondamentale per cui il CNR era stato costituito era di coordinare, promuovere e dirigere la ricerca nazionale in vista del bene dell’Italia, questo organismo non si pose mai il compito di elaborare un piano organico per la ricerca italiana. Tra i suoi dirigenti era opinione diffusa che un tale piano avrebbe dovuto essere elaborato dal governo, ma da quest’ultimo non giunse al CNR nessuna indicazione di carattere generale. La sola indicazione chiara fu quella per l’autarchia, ma essa era troppo generica: era d’obbligo valutare un qualsiasi progetto sulla base della sua utilità autarchica, ma questo attributo finiva per diventare un mero artificio retorico. In fondo, il solo criterio di scelta chiaro che potesse provenire dal programma autarchico era quello di privilegiare le attività di applicazione immediata e deprimere la ricerca pura, cosa che di fatto avvenne, sollevando non poche proteste.

Sotto la presidenza di Badoglio quattro realizzazioni occuparono il centro dell’attenzione dei responsabili del CNR: l’Istituto per lo studio dei motori di Napoli, l’Istituto nazionale di chimica, la costituzione della rete geofisica nazionale e la riorganizzazione del Comitato talassografico. I compiti relativi alla rete geofisica nazionale e al Comitato talassografico furono imposti per legge al CNR, non furono una scelta autonoma, e furono compiti molto gravosi dal punto di vista finanziario, che finirono per erodere la maggior parte dei fondi destinati alla ricerca, distogliendoli da quei progetti che erano stati individuati come prioritari.

Alla fine del 1941 il CNR era arrivato a dotarsi, sia pure in forme ancora incomplete, di un insieme di centri di ricerca, pochi, che avevano una vera e propria dimensione nazionale, oltre a estendere sul territorio nazionale una rete di centri coordinati in vario modo al Consiglio, i quali, a loro volta, facevano del CNR un organismo che cominciava ad assomigliare a quello che si era sin dall’inizio vagheggiato: una struttura di respiro nazionale capace di interagire con l’intricato mondo delle istituzioni di studio esistenti in Italia.

Difesa della razzaGli anni bui

A differenza di quanto avvenuto nel corso della Prima guerra mondiale, le operazioni belliche del secondo conflitto non rappresentarono alcuno stimolo per l’attività di ricerca scientifica. Con la svalutazione della lira i finanziamenti diminuirono rapidamente in valore reale, il richiamo alle armi allontanò in modo generalizzato i più giovani tra ricercatori, assistenti, tecnici di laboratorio e, in breve tempo, il lavoro scientifico rallentò fino alla quasi totale paralisi. Se Mussolini aveva per un certo tempo creduto nelle potenzialità della scienza italiana, con lo scoppio della guerra sembrò dimenticarsene. Neppure il CNR poté sottrarsi a questa deriva.

Badoglio lasciò la presidenza del CNR il 30 settembre 1941, ufficialmente per avere raggiunto i limiti d’età. In realtà Badoglio, a seguito del cattivo andamento delle operazioni belliche, il 4 dicembre 1940 era stato costretto a dimettersi da capo di Stato maggiore generale e da allora era stato rapidamente isolato dal fascismo, finendo nel corso del 1941 per scomparire dalla vita pubblica. La guerra era ormai giunta al punto di paralizzare gran parte della vita della nazione e la ricerca scientifica non fu in grado di sottrarsi a questa deriva. A rendere cupo l’ambiente scientifico italiano aveva già contribuito una scelta politica fatta dal fascismo che ebbe grande impatto sulla comunità degli scienziati: la promulgazione delle leggi razziali.

Il razzismo nazista si fondava su una concezione biologica delle razze, secondo la quale il miglioramento di una razza (nella fattispecie quella tedesca) era ottenibile con interventi diretti sulle modalità di generazione di nuovi individui, quali il divieto di sposarsi tra appartenenti a razze diverse o l’eliminazione dei portatori di tare ereditarie, secondo una prospettiva di eugenetica ‘positiva’ che sfocerà nelle camere a gas.

La cultura scientifica italiana fino al 1938 aveva pressoché totalmente rifiutato una simile prospettiva, sostenendo invece una concezione di ‘razzismo all’italiana’, che mirava a migliorare le caratteristiche psicofisiche del popolo italiano per mezzo di misure ambientali: campagne contro le malattie endemiche, risanamento delle abitazioni, la chiusura delle osterie, le colonie estive per i bambini poveri, vaccinazioni, sanatori, attività sportiva e così via. Tutto questo era inteso come l’applicazione di una eugenetica latina, più morbida, il cui obiettivo generale era indicato nella ‘difesa della razza’. Obiettivo specifico era quello di incentivare la crescita quantitativa degli italiani, poiché, lo aveva detto Mussolini, «il numero è potenza». Le iniziative del governo trovarono ampi riscontri nella comunità degli scienziati: medici come Nicola Pende, demografi come Corrado Gini prestarono la loro prestigiosa presenza operante a sostenere e realizzare le misure del fascismo.

Quest’attività fu accompagnata da un intenso lavoro propagandistico, che presentò la razza italica (o, più usato, stirpe italica) come un gruppo umano dotato di caratteristiche di eccellenza, una razza superiore alle altre, come si vedeva con chiarezza studiando la storia, la quale insegna che un solo popolo, quello italiano, era riuscito nel corso dei secoli a raggiungere il primato tra tutti i popoli per due volte: l’impero romano e il Rinascimento. Furono pertanto arruolati (molti si presentarono volontariamente) antichisti, antropologi, archeologi, paleontologi, glottologi, e messi al lavoro per trovare conferme alla grandezza della ‘razza’ italica.

Questi studi avevano di fronte un ostacolo difficilmente aggirabile: dal punto di vista biologico era da escludersi che si potesse parlare di una ‘razza italica’. Troppo grande era la varietà dei tipi presenti nel Belpaese; troppo diverse, da Nord a Sud, le tipologie degli individui perché si potesse indicare quali caratteristiche fisiche hanno in comune gli italiani. Non potendo ammettere il concetto biologico di razza, tutti si orientarono verso un concetto ‘spirituale’: la potenza amalgamante di Roma avrebbe creato un popolo italiano che, disomogeneo dal punto di vista fisico, sarebbe divenuto omogeneo per cultura, religione e filosofia spontanea. Nacque così l’idea di una razza italiana, non unificabile nel fisico, già unificata nello spirito. Gli ebrei italiani non erano per nulla stati esclusi da questo processo di unificazione culturale.

Il Manifesto degli scienziati razzisti, che fu pubblicato nei giornali il 14 luglio 1938 dando avvio ufficialmente alla trasformazione dell’Italia in un Paese razzista, negava recisamente le idee che circolavano tra gli studiosi italiani. In esso si proclamava che il razzismo è una concezione puramente biologica, che esiste una pura razza italiana ed è di origine ariana, che la concezione del razzismo in Italia deve essere di indirizzo ariano-nordico, che gli ebrei sono una razza non europea inassimilabile, dalla quale la purezza della razza italiana non deve in alcun modo essere inquinata.

Era stato scritto sotto dettatura di Mussolini, anche se era pubblicamente presentato come il frutto del lavoro di «scienziati» che invece erano completamente all’oscuro di tutto, tranne quello che lo aveva steso materialmente, il giovane e sconosciuto antropologo Guido Landra. Fu una sorpresa per la cultura italiana, così come la politica razzista lo fu per tutto il popolo italiano. Una novità che si tradusse immediatamente in una altrettanto nuova e vergognosa legislazione antisemita, che veniva a colpire anche scienziati e tecnici di primo piano.

Manifesto razzista

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2 comments

  1. Osita V 20 gennaio, 2015 at 19:03

    stupisce che personaggi che sono stati illustri fino a non molto tempo fa siano anche i firmatari delle leggi razziali che hanno completato l’immagine della dittatura fascista e di Mussolini che l’ha imposta dopo la marcia su Roma che si concluse con l’accoglienza ,senza nessuna opposizione,del re Vittorio Emanuele terzo

  2. Osita V 20 gennaio, 2015 at 19:03

    stupisce che personaggi che sono stati illustri fino a non molto tempo fa siano anche i firmatari delle leggi razziali che hanno completato l’immagine della dittatura fascista e di Mussolini che l’ha imposta dopo la marcia su Roma che si concluse con l’accoglienza ,senza nessuna opposizione,del re Vittorio Emanuele terzo

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