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Il futuro delle pensioni; si salvi chi può!


Il futuro delle pensioni; si salvi chi può!

Da molto tempo ormai si sente sempre di più parlare delle difficoltà che dovranno affrontare i futuri pensionati nel momento in cui cesseranno l’attività lavorativa e dovranno toccare con mano le ridotte capacità reddituali nelle quali la nova condizione li costringerà. Se ne sente parlare molto, spesso in tono fatalistico, talvolta con la generica avvertenza che occorre fare qualcosa quando ancora si è in tempo, gettando nello sconforto centinaia di migliaia di persone che mai avrebbero pensato di dover prevedere un futuro così pieno di incertezze.

Nel mondo anglosassone da sempre la mentalità imperante è quella di dare spazio all’iniziativa privata, poiché lo Stato interviene solo in alcuni casi e per importi spesso veramente esigui; ma in quei paesi la tassazione ridotta e l’abitudine e sentirsi poco protetti ha indotto da decenni le persone a cercare soluzioni autonome approfittando delle numerose possibilità offerte nel campo dal mercato, purtroppo non sempre con risultati pari alle aspettative.

Nei Paesi a marcata impronta social-democratica, specialmente in Europa, vige, o meglio, vigeva un modello di Welfare State in base al quale a fronte di una elevata tassazione lo Stato si assumeva la responsabilità di provvedere a tutte le esigenze dei propri cittadini, sia durante la vita lavorativa che dopo, sia in tema di salute che di previdenza, coprendo quai sempre totalmente i fabbisogni.

La crisi economica ha colpito questo sistema, riducendo il gettito fiscale e aumentando il numero di disoccupati e/o sottoccupati ai quali oggi viene chiesto di iniziare a progettare una propria autonomia dallo Stato proprio quando con i propri redditi a malapena riescono ad arrivare alla fine del mese. Come spesso accade in questo tipo di situazioni, chi è stato più accorto e ha fronteggiato in anticipo questi sviluppi negativi ha potuto far fronte in modo migliore alla congiuntura sfavorevole, ma pochi dubitano del fatto che persino la virtuosa Germania, con il prevedibile allungamento delle aspettative di vita, possa alla lunga far fronte ad un sistema pensionistico che oggi appare tra i più generosi; figurarsi l’Italia che virtuosa non lo è mai stata.

Il successo dei partiti populisti in molti Paesi si spiega con la loro grande capacità di sottoporre ricette facili per la soluzione dei nostri numerosi problemi, andando a scaricare le colpe della situazione attuale su fattori spesso esterni e sulla classe dirigente al potere, che di colpe sicuramente ne ha molte; tuttavia, non spiegando la natura dei problemi stessi e proponendo soluzioni apparentemente di semplice realizzazione riescono a far breccia, non solo sull’ignoranza di larghi strati dell’elettorato, ma soprattutto sulla predisposizione naturale delle persone a credere più che a capire. Al contrario, per poter realmente consentire il formarsi di un’opinione seria su quali siano i problemi e su quali possano essere le soluzioni possibili, è necessario conoscere, impegnarsi per farlo e ragionare con un minimo di serietà, e qui sorge il problema perché le fonti alle quali riferirsi o sono troppo tecniche, per addetti ai lavori, oppure troppo superficiali e tese principalmente a far leva sulla paura al fine di orientare il voto; una via di mezzo, difficilmente la si trova. Proverò io a cercarla.

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Sistema pensionistico a ripartizione delle risorse

In Italia, così come in molti altri Paesi del mondo, non si è mai provveduto ad un vero accantonamento dei contributi versati da ciascun lavoratore, ed il motivo è semplice: venivamo da una guerra disastrosa e nasceva un nuovo Stato il quale, da subito, ha dovuto mettere in piedi un sistema pensionistico per dare sostentamento alle persone che non erano più in grado di lavorare e, quindi di avere un reddito. La soluzione trovata fu abbastanza semplice: si sarebbe provveduto a pagare le pensioni attingendo ai contributi versati dai lavoratori in attività, basando tutto il sistema su questa sorta di patto intergenerazionale nel quale i giovani si sarebbero assunti l’onere, sotto la supervisione dello Stato, di sostenere le generazioni più anziane. Tutto ha funzionato alla perfezione sino a quando, a fronte di un pensionato avevamo oltre 4 o 5 lavoratori; d’altronde durante la guerra erano sì morti molti giovani al fronte, ma anche la fascia alta d’età era stata decimata dagli stenti e dalle malattie, e in più nei primi anni del dopoguerra si assistette ad un vero e proprio boom demografico. Quindi, pensioni basse e molti lavoratori a contribuire. Ma cosa accadrà quando arriveremo (e lo stiamo facendo velocemente) alla equiparazione o quasi tra lavoratori e pensionati, verso quel nefasto uno contro uno che sancirà il fallimento della Previdenza pubblica?

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Sistema retributivo

Le risorse prelevate dai numerosi contribuenti e la necessità di assicurare a chi di contributi non ne aveva mai versati prima una pensione accettabile, ha consentito per molti anni di poter affermare il principio in base al quale a ciascun pensionato potesse essere assicurata una pensione di poco inferiore all’ultimo stipendio percepito, ad  un’età anagrafica oltre la quale fosse corretto consentire il ritiro dal lavoro, e comunque dopo un periodo contributivo (i famosi 40 anni) oltre il quale si dovesse andare in pensione. Un sistema così basato, completamente slegato da ogni logica contabile, ha consentito per molto tempo a ciascun lavoratore di beneficiare di un trattamento pensionistico  più generoso rispetto a quello che sarebbe stato possibile sulla base dei contributi effettivamente versati.

Si è spesso sottolineato il fatto che sulla massa di contributi Inps ormai da decenni abbia finito per gravare anche buona parte del sistema assistenziale, oltre a quello previdenziale, mandando in deficit il bilancio, con la conseguente necessità di ricorrere alla fiscalità generale e quindi al debito pubblico; anche se questo è vero, non esiste alcun dubbio sul fatto che il sistema retributivo possa funzionare solo nel caso in cui permanga un rapporto molto alto tra lavoratori in attività e pensionati, molto più alto di quello che ormai noi verifichiamo costantemente.

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Sistema Contributivo

Quando alla fine del 2011 Monti si trovò a dover mettere più di una pezza alle disastrate finanze pubbliche, con lo spread sui titoli di Stato che viaggiava velocemente verso i 600 punti base e la cd. Troika che stava preparando le valigie per venire a sottoporci una cura di tipo “greco”, la decisione da prendere era drammatica perché si trattava di agire con l’accetta e velocemente sulla spesa pubblica. Le alternative erano sostanzialmente quattro: ritardare i pagamenti della pubblica amministrazione (stipendi a dipendenti pubblici e pagamento forniture – cosa che avrebbe solo rimandato il problema ma non certo lo avrebbe risolto), licenziare in massa decine di migliaia di dipendenti pubblici, chiudere ospedali e tagliare ulteriormente i servizi erogati dalla sanità pubblica, oppure procedere all’ennesima riforma del settore pensionistico. Fu scelta la quarta opzione. Senza addentrarmi in descrizioni particolareggiate ed in tutte le eccezioni presenti nei regimi transitori, le decisioni prese furono sostanzialmente due: aumento drastico dell’età pensionabile (per molti lavoratori si è trattato di un allungamento della vita lavorativa anche di 5 – 6 anni) e passaggio, a regime, dal sistema Retributivo a quello totalmente Contributivo.

Tutto il sistema pensionistico, come del resto anche quello vigente nel mondo assicurativo, si basa sul concetto mutualistico in base al quale i disequilibri interni al sistema vengono caricati sulla  collettività dei contribuenti (o degli assicurati), in modo tale da mantenere efficienza e continuità di gestione; con il passaggio al Contributivo, ciascun pensionato percepirà una pensione che sarà calcolata esattamente così come vengono calcolate le rendite assicurative: alla fine della fase di accumulo dei contributi sul cosiddetto montante (soma di contributi e rivalutazioni annue) viene effettuato il calcolo della pensione annua dovuta. Per farlo vengono utilizzati dei coefficienti di conversione periodicamente riattualizzati in seguito alla verifica dell’aspettativa di vita media in Italia. L’importo della pensione viene quindi legato a due criteri strettamente contabili: il capitale accumulato durante la vita lavorativa (montante contributivo) e la durata media statistica del periodo di percezione della pensione. Lo Stato continuerà ad assumersi il rischio derivante dal possibile sbilanciamento tra le morti precoci e le permanenze in vita oltre la durata media calcolata nei coefficienti. Tanto per chiarire la portata a regime della riforma, un lavoratore che vada in pensione a 67 anni, per ogni 100.000 euro di montante accumulato, percepirà una pensione INPS pari al 5,7% annuo (5.700,00 euro lordi suddivisi in 13 mensilità); lo stesso lavoratore, se decidesse di attendere sino ai 70 anni di vita, potrebbe raggiungere il coefficiente del 6,378%.

Per mantenere il sistema in equilibrio, ogni due anni verrà provveduto alla revisione dei coefficienti di conversione; nel contempo si prevede anche la possibilità di aumentare periodicamente l’età pensionabile in modo da controbilanciare la diminuzione dell’importo delle singole pensioni per effetto della riduzione dei coefficienti di conversione, con un incremento del montante contributivo.

A regime si è calcolato, con buona possibilità di approssimazione, che la maggior parte dei futuri pensionati con il sistema contributivo percepirà una pensione sicuramente inferiore al 50% delle ultime retribuzioni, ma solo a condizione che abbia iniziato a versare contributi in giovane età e senza eccessive interruzioni temporali per tutta la vita lavorativa; è pressoché scontato che buona parte delle persone che appartengono a quelle generazioni che da anni si barcamenano tra contratti a progetto, vouchers, false partite Iva ed altre professionalità che la fantasia è stata capace di partorire, potranno al massimo aspirare ad un trattamento pensionistico sociale.

L’Inps si era impegnata a rendere noto a ciascun cittadino l’ammontare dei contributi versati e la situazione previdenziale ipotizzabile sulla base del percorso lavorativo/reddituale individuale; la cosa è stata accolta con grande preoccupazione un po’ da tutti in quanto, così facendo, i cittadini sarebbero stati messi di fronte alla dura e cruda realtà. Alla fine le famose buste arancione sono state spedite, ma il sito INPS, dopo una iniziale trasparenza nel fornire i dati, è andato incontro a numerosi interventi di ammodernamento che ne rendono da tempo difficile la consultazione. A prescindere da ogni altra considerazione, la piena conoscenza individuale della propria posizione previdenziale diventa strumento imprescindibile per una corretta pianificazione futura.

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Blocco del Turn Over

Il nuovo sistema pensionistico sposta di molti anni l’età del pensionamento obbligando al lavoro persone anziane ed impedendo alle giovani generazioni di accedere a quei posti, e questo in un contesto generale nel quale si ipotizza che per tutta una serie di motivi ormai noti (robotizzazione dei processi, utilizzo di sistemi informatizzati con conseguente automazione delle procedure) si possa arrivare nell’arco di alcuni decenni alla sostituzione di poco meno della metà della forza lavoro attualmente impiegata, specialmente nei Paesi ad economia avanzata: circa un lavoratore su due vedrà sparire il proprio posto di lavoro per cui, chi già occupa quel posto, potrebbe perderlo e non riuscire a completare il ciclo di versamento dei contributi e, nel contempo, nessun giovane potrà essere impiegato in sostituzione. Quanto questo evento possa ulteriormente incidere sulla tenuta del sistema nel suo complesso, è facilmente intuibile. C’è da augurarsi seriamente che avvenga ciò che è accaduto con il petrolio: durante lo shock petrolifero degli anni ’70 si iniziò a parlare con preoccupazione della naturale limitatezza delle scorte presenti nel sottosuolo, e allora si aveva una percezione abbastanza limitata di quante e quali potessero essere le soluzioni possibili qualora i rubinetti si fossero improvvisamente prosciugati; oggi vediamo che le alternative ci sono e la paura che il petrolio si esaurisca toglie il sonno più a chi lavora in quel settore che non al resto delle comunità, le quali auspicano invece che l’inquinamento atmosferico causato dagli idrocarburi diminuisca. Non resta che avere fiducia sul fatto che altre e diverse soluzioni si trovino nel mondo del lavoro.

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Cuneo Fiscale

Com’è noto, mentre ai lavoratori autonomi spetta interamente l’onere di versare sia i contributi previdenziali che le imposte sul reddito, per i lavoratori dipendenti è il datore di lavoro che provvede interamente a tali adempimenti. Più volte si è sentito argomentare sulla necessità di abbattere, per i lavoratori dipendenti, l’ammontare delle ritenute operate dai datori di lavoro al fine di incrementare il netto in busta paga e consentire quindi un incremento dei redditi disponibili per i consumi; va detto che con il termine “Cuneo Fiscale” si intendono tutte le ritenute fiscali e previdenziali, e spesso ci si è trovati di fronte al dilemma se operare una riduzione delle aliquote fiscali con la conseguenza di ridurre il gettito totale da lavoro dipendente (che sappiamo bene essere tra i più consistenti sui quali lo Stato può contare), oppure agire sui contributi previdenziali andando ad aumentare il gap pensionistico (ammontare della pensione rispetto all’ultimo reddito). Le proposte per arrivare ad una riduzione del divario esistente con la media Europea (che permane alto: oltre il 10%) sono state nel tempo molte, ma alla fine l’unico rimedio sembra sempre essere quello di ricorrere alla fiscalità generale, abbattendo le aliquote nominalmente o di fatto (mantenimento delle aliquote prevedendo un riconoscimento in busta paga a ciascun lavoratore la cui copertura va ricercata nel bilancio dello Stato; soluzioni, alla fine dei conti, assai simili)

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Inflazione

Al fine di consentire ai contributi accumulati di mantenere un minimo aggancio al valore corrente della moneta, ed evitare che questi, dopo decenni di accumulo, perdano eccessivamente potere d’acquisto, la legge prevede che ogni anno venga applicato un coefficiente di rivalutazione (una sorta di tasso di interesse) il cui valore, detto in modo grossolano, è calcolato sulla variazione annua del PIL; se si osserva la serie storica da quando la Legge Dini introdusse il sistema di adeguamento, si noterà come questo tasso di rivalutazione sia stato, sino ad oggi, sempre molto prossimo all’1% annuo, anche in momenti in cui il tasso di inflazione si attestava ben oltre il 2%. Questo dato significa banalmente che il sistema di calcolo della rivalutazione contributiva annua non copre interamente la corrispondente svalutazione monetaria, e poiché il processo prosegue, non solamente durante la fase di accumulo (la vita lavorativa), ma anche dopo l’accesso alla pensione, noi assisteremmo all’inesorabile perdita del nostro potere d’acquisto anche dopo l’uscita dal mondo del lavoro. Occorre anche considerare che ciò che noi già oggi percepiamo essere un trattamento pensionistico insufficiente a coprire le prevedibili esigenze di vita futura dopo che la pensione verrà determinata, se pur l’economia dovesse mostrare un continuo andamento positivo e la BCE riuscisse a perseguire l’obiettivo di inflazione annua del 2% (considerato quello corretto per un’economia sana), a questi ritmi di crescita del PIL la pensione continuerà a svalutarsi di circa l’1% annuo.

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Pensione integrativa

Lo Stato  avrà grandi difficoltà a porre rimedio totale a tutti questi problemi, e da molti anni ormai si fa un gran parlare della necessità che ciascun lavoratore possa e debba alimentare, oltre agli accantonamenti INPS, anche altre forme di risparmio previdenziale che consentano un’integrazione che, come abbiamo visto, sarà sempre più necessaria; inoltre gli accantonamenti fatti dovranno essere verificati periodicamente per correggere eventuali disallineamenti dovuti all’inflazione, alla modifica dei coefficienti di conversione, nonchè alle possibili future modifiche normative le quali sempre, sino ad ora, hanno peggiorato la situazione preesistente.

Se a tutto questo sommiamo la diminuzione delle retribuzioni, la difficoltà dei giovani ad accedere al mondo del lavoro, la precarietà di molti contratti, e magari ci aggiungiamo anche che l’aspettativa di vita cresce, anche se non necessariamente accompagnata da un buono stato di salute, il quadro finale che abbiamo di fronte è veramente drammatico, e solamente coloro che per capacità e fortuna avranno redditi elevati riusciranno nell’intento di assicurarsi una vecchiaia serena dal punto di vista economico.

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Evasione Fiscale

Da tempo si è indotti a ritenere che la lotta all’evasione fiscale sia il modo più efficace per reperire quelle risorse che consentano di risolvere buona parte dei problemi. E c’è da credere che questo sia vero in quanto il valore complessivo delle imposte e tasse sottratte al fisco italiano ogni anno assomma ad una cifra non molto distante da quella del costo totale del sistema pensionistico (circa 180 mld, contro 260). C’è chi pensa però che l’elevato tasso di infedeltà fiscale dipenda interamente dall’eccessiva pressione che in Italia spinge molti contribuenti a ridurre autonomamente il proprio cuneo fiscale, dichiarando meno del dovuto, e quindi non pagando tasse e contributi; alla prova dei fatti, facendo il raffronto con altri Stati Europei, non sembrano esistere correlazioni ben nettamente individuabili tra la pressione e la fedeltà fiscale. Se poi andiamo a vedere i dati in valore assoluto (e, quindi, non in percentuale al PIL dei rispettivi Paesi), nella virtuosa Germania si evade poco meno che in Italia (circa 140 mld contro 180). Insomma, l’evasione fiscale esiste ovunque e per quanto si cerchi di combatterla e ridurla (per non dire eliminarla), è un fenomeno trasversale in Europa, che in Paesi come l’Italia assume aspetti di vera e propria patologia.

D’altra parte è vero che la pressione fiscale in Italia è tra le più alte del continente, ed è realistico pensare che le imposte dirette ed i contributi nel nostro paese pesino  mediamente oltre il 65% del reddito imponibile. Se questo lo si traspone in cifre si può ben comprendere come per coloro che hanno bassi redditi ciò si traduca in grosse difficoltà economiche, con la conseguenza che per quelli a cui le circostanze consentano diventa vitale eludere o evadere; sono tanti e nel totale fanno una bella cifra, anche se probabilmente non della misura di quella che riescono ad occultare al fisco i grandi evasori (professionisti, industriali e grandi gruppi) che possono meglio di altri utilizzare strumenti contabili sofisticati e delocalizzazioni. Una delle possibili soluzioni in ambito europeo è quella della progressiva omogeneizzazione delle normative fiscali, cosa non facile alla luce delle differenze talvolta enormi esistenti tra Paesi della Comunità, come a titolo di esempio l’Irlanda, l’Olanda e l’Italia (bassa imposizione/basse prestazioni – alta imposizione/alte prestazioni – alta imposizione/basse prestazioni).

Nell’attuale situazione italiana si pensa sia necessario un riavvicinamento alla media europea del regime fiscale che consenta di liberare energie capaci di rivitalizzare i consumi interni e consentire aliquote di risparmio da canalizzare verso la previdenza integrativa, oltre a rendere più appetibile fare impresa nel nostro paese.

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Autonomia monetaria

In molte parti di Europa si assiste alla crescita dei movimenti populisti e indipendentisti, che vedono nel riappropriarsi da parte degli Stati nazionali della propria capacità di stampare denaro la soluzione a tutti i mali; a qualunque persona abbia una minima conoscenza di ciò che è accaduto e accade laddove si pensa di risolvere tutti i problemi stampando moneta, viene il sudore freddo a pensare che questa possa essere ritenuta una soluzione. Stampare moneta senza alcun riguardo ai sani e prudenti criteri che sottendono a questa delicata attività fa crescere l’inflazione in modo esponenziale e questo processo impoverisce ben prima e ben oltre di quanto si possa porre rimedio con la stampa di nuova moneta svalutata e, ad un certo punto tutto collassa. Chiunque si sia recato in uno qualsiasi dei paesi della ex Jugoslavia dopo la disgregazione dello stato unitario, e prima che l’odio etnico esplodesse e facesse da paravento agli enormi problemi economici esistenti in quei paesi, sa bene come per noi italiani in quel particolare momento fosse una vera pacchia andare in vacanza in località ove, ogni giorno che passava, il cambio con la lira (che pure non godeva di grandissima salute) consentiva crescenti risparmi sugli stessi servizi (alberghi e ristoranti).

In natura niente si crea e niente si distrugge, ed anche la ricchezza, se non è ricevuta per un colpo di fortuna, ognuno se la deve guadagnare lavorando, persino gli stati; la moneta, al massimo, può rappresentare solo la misura di questa ricchezza, ma non può certo determinarla, e alla fine solo piccole svalutazioni nel rapporto reciproco di cambio con le varie valute estere sono accettabili, perché quando il divario si amplia eccessivamente vengono sempre prese misure protezionistiche (dazi e contingentamenti su tutti) per limitare il gioco sporco della svalutazione competitiva.

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Prodotto Interno Lordo

Alla fine, solo questo rimane su cui poter fare leva per chiudere il cerchio senza che, tappata una falla da una parte, se ne apra una più grande altrove. L’aumento della produzione consente diminuzione della disoccupazione ed aumento del gettito fiscale, ma non avviene automaticamente; occorre efficientare il processo produttivo, eliminare gli sprechi e ridurre il più possibile l’evasione fiscale: tutte cose che vanno fatte insieme e che vanno fatte subito, condizione necessaria per poter rimettere in linea di galleggiamento una barca che mostra preoccupanti segni di squilibrio.

Lo Stato potrebbe stimolare la ripresa economica utilizzando anche le poche risorse attualmente disponibili per cercare di attivare il cosiddetto effetto leva per mezzo del quale, a fronte di un intervento economico determinato si può avere un ritorno superiore all’investimento fatto; in quale misura ciò possa avvenire, dipende sostanzialmente dall’efficacia dei provvedimenti che verranno presi.

Le manovre adottate sino ad ora dai Governi degli ultimi anni non hanno dato i risultati attesi, ed anche se l’incremento del PIL c’è stato, non v’è dubbio che in parte consistente questo sia dipeso dalla favorevole congiuntura economica globale e dal regime di tassi bassi che la BCE sembra voler continuare a perseguire anche per buona parte del prossimo anno, con il beneplacito stavolta anche della riluttante Germania, convinta alla fine che il Quantitative Easing (immissione massiccia di denaro a fronte di riacquisto di titoli del debito pubblico e del finanziamento del sistema bancario) abbia consentito all’Europa nel suo complesso di superare sino ad ora situazioni di una tale gravità da poter determinare, se non adeguatamente affrontate, il crollo del progetto comunitario.

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Conclusioni

Ci apprestiamo ad assistere all’ennesima interminabile campagna elettorale partendo dalle seguenti promesse elettorali dei vari schieramenti in lizza: innalzamento pensioni minime a 1.000 euro, stipendio alle casalinghe, reddito minimo di cittadinanza o di inclusione, contributi Inps a carico dello Stato per alcune categorie di lavoratori, stabilizzazione dei precari, diminuzione del costo del lavoro, investimenti in scuola e formazione; come ha ben riassunto un mio amico alcuni giorni fa: “più figa per tutti” (mi si scusi l’espressione, la quale tra l’altro non tiene conto delle legittime esigenze di chi, per ovvie ragioni, ha gusti sessuali diversi).

Si sa che in campagna elettorale non avrebbe granché successo proporre, prima di tutto, che cosa si intende fare per reperire le risorse, e solo dopo dare indicazioni su come queste risorse andrebbero in via prioritaria allocate perché così facendo la sconfitta elettorale sarebbe inevitabile in quanto la maggioranza degli elettori vuole che i propri problemi vengano risolti e che il sangue scorra altrove,  risultato questo di decenni di cattiva politica che ha portato intere generazioni di italiani ad essere diseducate ed a rendere così del tutto improbabile l’individuazione, tra i tanti candidati alla Presidenza del Consiglio, di un vero statista, di una figura politica che sia capace, come diceva Alcide De Gasperi, di guardare alle prossime generazioni e non alle prossime elezioni.

 

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