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Il lavoro non rincorre gli elettori e non cerca il consenso

Panem et circenses, o lavoro?

Tra il 2006 ed il 2007 Sergio Marchionne ebbe a ripetere più volte il dato relativo alla bassa incidenza sui bilanci della Fiat Auto del costo del lavoro e come le cospicue perdite contabilizzate dal gruppo a quel tempo fossero causate da altri fattori:

“Quello che è emerso da questa esperienza è che le vere cause delle grandi perdite operative della Fiat non stavano nel costo del lavoro, che rappresenta il 6-7% del totale del costo del prodotto. Le cause andavano cercate altrove.”

Evidentemente in un mercato così competitivo è arrivato in seguito il momento nel quale anche Marchionne ha dovuto prendere atto che quella percentuale pur così bassa di costi necessitava di una qualche razionalizzazione, al fine di mantenere la produttività a livello degli standard di settore, tant’è che oltre alle note vicende sindacali, la sua attività si è rivolta prevalentemente a riservare all’Italia le produzioni che necessitavano di una qualificazione maggiore della manodopera, in modo da poter utilizzare al meglio e con margini adeguati un costo del lavoro che in assoluto sarebbe stato più competitivo altrove.

 

Prendo spunto iniziale da queste considerazioni in modo del tutto casuale rispetto alla recente morte del manager, e solo perché esse possono rappresentare un utile inizio di ragionamento sull’attività dell’attuale Governo in relazione al mercato del lavoro, e quanto questa segua perfettamente le orme tracciate da decenni di attività sindacale nei quali non si è tenuto in minimo conto di quanto quel mercato sia cambiato, e soprattutto sia cambiato il contesto generale nel quale esso si colloca.

La considerazione primaria da fare è che se nel 2007 il costo del lavoro incideva in una percentuale così bassa in un’azienda appartenente ad uno dei settori industriali più importanti al mondo, quello che impiega ancora le maggiori quantità di manodopera, ma nel quale già allora l’automazione era stata introdotta in dosi massicce, in buona parte del settore industriale e manifatturiero italiano, in particolar modo quello che genericamente siamo soliti ricomprendere nel “made in Italy”, tale incidenza è assai maggiore, spesso in misura inversamente proporzionale alla diminuzione delle dimensioni aziendali, e arriva talvolta a tassi di incidenza che superano il 30%.

Ovviamente non si può generalizzare perché ogni settore ha una sua tipicità, ed è ovvio che un’impresa edile o un call center abbiano necessità di manodopera superiori rispetto ad altre aziende manifatturiere nelle quali sia stato maggiormente possibile meccanizzare la produzione; resta il fatto che l’Italia, più di altri paesi europei, per questo ed altri motivi, soffre di una quantità rilevante di costi fissi che l’azienda deve sostenere, con il corrispondente aumento del punto di pareggio, cioè di quel livello di fatturato necessario all’impresa per coprire i costi senza andare in perdita; come mi diceva un amico imprenditore che aveva una piccola azienda molti anni fa:

ogni mattina, come apro la porta e accendo le luci, so che in quella giornata io spenderò due milioni di lire, che ci sia lavoro da fare o meno. Quasi lo stipendio mensile di uno dei miei dipendenti”.

Per molti anni l’incidenza dei costi fissi è andata aumentando senza che corrispondentemente aumentassero i fatturati di molte aziende, che per difendersi, e in un tacito accordo con lo Stato, hanno messo in atto manovre elusive, se non decisamente evasive, per ottenere un recupero di redditività quotidianamente eroso dall’aumento dei costi. Ma quando il patto si è rotto ed è iniziata una seria lotta all’evasione fiscale e contributiva, per molte aziende la situazione è diventata insostenibile, e la necessità di porvi rimedio improcrastinabile.

 

Molto spesso si usa ricordare che in Italia una percentuale irrisoria della popolazione possiede una quantità di ricchezza sproporzionata, ma si dimentica spesso di ricordare anche che in Italia vi sono oltre 8 mln. di partite Iva delle quali circa il 65% sono rappresentate da Ditte Individuali (artigiani, commercianti, etc.), ed il rimanente da società; esse impiegano globalmente circa 14 mln. di lavoratori dipendenti (ai quali vanno sommati i poco meno che 4 mln. di dipendenti pubblici per avere un quadro completo del lavoro dipendente in Italia).

Confrontando i dati sulla distribuzione della ricchezza con quelli del lavoro, si comprende bene come buona parte degli imprenditori e dei lavoratori autonomi facciano a buon titolo parte di quella larga fascia di popolazione che vive in situazione di difficoltà economica.

D’altronde, o si amplia la platea del Pubblico Impiego, cosa che probabilmente avrebbe un senso in Sanità, Pubblica Istruzione e nelle Forze dell’Ordine, ma che sarebbe assolutamente contraria alla decenza in altre ampie sacche di inefficienza pubblica, o si accetta il fatto che a creare posti di lavoro debbano essere le Imprese, oppure ci si accontenta di un tasso di disoccupazione invariato o  tendente all’aumento.

Le imprese non assumono: perché? I mali maggiori probabilmente non risiedono nella legislazione sul lavoro, che negli ultimi anni ha visto introdurre sgravi fiscali e flessibilità che hanno consentito un po’ di ripresa. I problemi stanno, com’è ormai ben noto, nei costi eccessivi e nelle disfunzioni della burocrazia e della giustizia, nell’eccessivo peso della fiscalità (siamo arrivati a oltre il 70%) e nella carenza di infrastrutture adeguate ad una delle più importanti economie d’Europa.

 

Alla luce di queste banali considerazioni l’azione dell’attuale Governo in quale direzione si sta muovendo?
Pur ammettendo che è insediato da troppo poco tempo per poterci consentire di trarre conclusioni generali dalle poche iniziative intraprese sino ad ora, è chiaro che queste vanno tutte quante nella direzione opposta a quella che sembrerebbe logico seguire, perchè se è corretto pensare ad un aumento del reddito dei lavoratori e ad un miglioramento delle loro tutele, occorre però agire in via prioritaria dal lato dell’offerta di lavoro.

Preso atto che non tutti gli imprenditori sono milionari, ma che solo una piccola parte di essi lo è, constatato che molti di loro lavorano mediamente di più dei loro dipendenti e spesso non guadagnano altrettanto (quando si affronta questo tema occorre ricordare che parliamo di reddito lordo), sottolineato che se l’impresa fallisce i dipendenti perdono il lavoro (ed il reddito) ma l’imprenditore spesso ci rimette tutto ciò che ha, domandiamoci se non sarebbero state più utile un’incisiva politica di semplificazione amministrativa, il miglioramento delle infrastrutture e dei servizi, un ribilanciamento della fiscalità con eliminazione delle storture (ricordiamo che per le imprese di capitali la flat tax c’è già da anni), un complessivo impulso a fare impresa in Italia, rispetto al disordinato messaggio che si è dato con provvedimenti disorganici (Legge Dignità, no alla Tav, no all’Ilva) e tendenzialmente controproducenti rispetto all’esigenza primaria di creare nuovi posti di lavoro.

 

Immagino il disorientamento di molti imprenditori non milionari, che sicuramente hanno applaudito alle intemerate di Salvini nei confronti degli immigrati e dei Rom, ma che non possono essere rimasti insensibili di fronte ad una Legge fortemente voluta da Di Maio, la quale più che fare le modifiche ritenute da anni necessarie, vuol dare un segnale fortemente negativo alle imprese: di fatto quello che anche stavolta si parte con il piede sbagliato. E la reazione, com’è logico attendersi, non è stata e non sarà quella di subirne le conseguenze e trasformare i contratti a tempo determinato in posti fissi (andando ad aumentare, oltre ai posti, anche i costi), ma quella di fare di necessità virtù e prepararsi ad una nuova contrazione del ciclo economico, cosa ben lontana dalla positività acritica sparsa a profusione dal Movimento, che nell’immediato appare fuori dalle prospettive possibili. Tutto ciò in attesa che l’approvazione del reddito di cittadinanza e l’abolizione della Legge Fornero scatenino la furia dei mercati, sempre pronti ad approfittare dei paesi in difficoltà.

 

Qualche giorno fa durante un’intervista Salvini pare aver fatto la seguente dichiarazione:

“L’economia italiana è solida, quindi bloccheremo i tentativi speculativi di influenzare i trend di crescita (…) La prossima legge di bilancio includerà misure volte ad alleggerire la pressione fiscale, che attireranno gli investimenti stranieri”.

Anche se non sono riuscito a risalire alla fonte originaria della pubblicazione, l’affermazione risulta essere perfettamente in linea con quanto ripetutamente affermato in passato dallo stesso Salvini e da molti esponenti del Movimento 5 Stelle, che hanno sempre puntato il dito verso questa contrapposizione costante tra “noi” e “loro”, e poiché questa affermazione ha molta presa, occorrerebbe fermarsi a riflettere su ciò che significa “speculare” e su chi sono in realtà gli “speculatori”

 

Uno dei più famosi economisti della cd. “Scuola austriaca”, Ludwig Von Mises definì la speculazione, più o meno, come la naturale predisposizione umana a spendere denaro prefigurando i possibili scenari futuri, e conseguentemente a fare investimenti cercando di ipotizzare quali saranno in grado di dare maggiori soddisfazioni economiche. Allargando il concetto si potrebbe dire che la ricerca della massima soddisfazione nell’acquisto rispetto al costo per sostenerlo sia un’attività che anche ciascun consumatore mette in atto quotidianamente. Questa considerazione la si può esprimere prendendo a riferimento uno dei significati della parola, sicuramente non il più deprecabile: “attività, iniziativa commerciale o finanziaria da cui ci si propone di realizzare un forte utile” (Treccani)”, intendendo con ciò anche l’acquisto di un bene personale o familiare a condizioni particolarmente vantaggiose.

 

Si potrà obiettare che nell’intento di Salvini altro fosse lo scopo; sicuramente quello di restringere il campo della definizione a quelle persone che approfittano dei mercati per trarne un utile immeritato, e posso concordare con lui che se è vero che la speculazione dei mercati finanziari spesso fa pagare il conto ai più poveri a vantaggio dei più ricchi (ma meglio sarebbe parlare di sprovveduti rispetto a furbi), non si possono escludere in assoluto altre interpretazioni. Non si comprenderebbe altrimenti il perché quando facciamo la spesa andiamo spesso alla ricerca del prezzo più basso, disinteressati del fatto che quel prezzo è quasi sempre il risultato dello sfruttamento di lavoratori. Non si comprenderebbe neppure perché mentre manifestiamo la nostra disapprovazione verso la grande distribuzione che fa chiudere il “negozio di prossimità” e sfrutta i lavoratori con turni nei giorni festivi, poi acquistiamo su Amazon perché è più comodo e si spende meno.

 

Nella nostra duplice veste di lavoratori e consumatori sprofondiamo in una sorta di bipolarismo che le forze politiche sfruttano alla perfezione azionando la leva emotiva sulla quale riescono maggiormente ad ottenere risultati e noi come i topi nella fiaba dei fratelli Grimm seguiamo il suono confortante del pifferaio mentre ci conduce nel burrone.

Ci sono stati diversi tentativi di forzare le leggi dell’economia ma hanno tutti fallito e se è vero che anche il liberismo ha mostrato ampiamente i suoi limiti, c’è da domandarsi se le alternative siano state migliori, sia quelle che hanno imposto lo Stato come imprenditore di riferimento sia quelle nelle quali lo Stato ha agito come regolatore; ciò che è singolare è il fatto che per porre rimedio alle storture di un sistema si tenda sempre, anziché a cercare nuove strade, a riproporre vecchie ricette, quelle che hanno già abbondantemente mostrato effetti negativi.

 

La giurisprudenza ricorre spesso la formula “diligenza del buon padre di famiglia”; essa sta ad indicare in termini astratti la dedizione che ciascuno deve mettere nell’assolvimento dei propri impegni, analoga a quella che un padre deve utilizzare nel crescere i figli. Presa alla lettera potrebbe indurre a pensare che gli obblighi morali siano rivolti esclusivamente al nucleo ristretto (la famiglia) di cui l’individuo fa parte; tuttavia la sua applicazione è ben più vasta e vuol significare che quella diligenza  la si deve utilizzare anche nel più vasto ambito sociale nel quale operiamo e, sia detto per inciso, i sovranisti in questo non ci hanno capito assolutamente niente. L’etica dell’impegno dovrebbe indurre in qualsiasi contesto ad applicare la regola in modo puntuale, e dato per scontato che le deplorevoli eccezioni sempre esisteranno, la maggioranza dovrebbe uniformarvisi, ma come vediamo non è così.

La diligenza del buon padre di famiglia, in politica, dovrebbe essere quella di chi, assunti ruoli di responsabilità, cerca il modo migliore per assolverli; questo percorso passa attraverso la conoscenza approfondita dei fenomeni e sulla base di questa con l’individuazione dei percorsi necessari alla risoluzione dei problemi: probabilmente non la si è mai applicata prima, ma non si comprende allora come l’attuale Governo, che dell’indifferenza nei confronti della conoscenza e della ricerca del consenso esasperato ha fatto le sue bandiere, possa essere quello del cambiamento.

 

Ammettiamolo: nessuno dei governi che ha preceduto l’attuale ha trovato la strada giusta, o almeno, avendola trovata, ha provato a percorrerla con determinazione e convinzione; persino l’ultimo Pd, al quale una certa dose di buona volontà non è mancata, è riuscito a far comprendere che cambiare in meglio si può, ma ci vuole pazienza, perché rimediare agli ultimi trent’anni di disastri non è compito facile e, soprattutto veloce; ed il problema maggiore è quello della comunicazione, o meglio, del modo in cui la si utilizza.

Iniziò Berlusconi con la sua discesa in campo nel ’94 a capire (facendo un capolavoro personale ma uno scempio politico) che alla gente basta dire ciò che la gente vuole ascoltare per ottenerne il voto; una sorta di riproposizione del detto romano “panem et circenses”, ma anche del mussoliniano “governare gli italiani non è impossibile, è inutile”.

Anche i governi che sono seguiti hanno subito il potere di attrazione di questo modo di comunicare, ma mentre Berlusconi affondò sul disastro economico, i governi di sinistra sono naufragati, oltre che sulle divisioni interne, sulla voglia di scimmiottare Berlusconi in termini comunicativi, fallendo proprio in quel campo, prima ancora e al di là dei risultati economici, che sono sempre stati migliori di quelli prodotti dai governi di centro-destra.

La comunicazione intesa come ricerca del consenso ad ogni costo ha i limiti che abbiamo visto e che verificheremo ancora quando questa nuova esperienza entrerà in aperto conflitto con il criterio di sano governo dell’economia, e occorre che qualcuno comprenda velocemente che la risposta da dare ad un elettorato non più ideologizzato, disincantato, e per usare un eufemismo molto arrabbiato, non è quella di assecondarne gli umori, ma di dare certezze, sia sul fatto che una soluzione possa esserci, sia sul percorso non  breve e disagevole che sarà necessario fare. Non è facile, e d’altronde se nessuno sino ad ora c’è riuscito……

 

 

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