le storie

La caccia a Radovan Karadžić

 

          Karadžić mascherato come Dragan Dabic e all'Aja. Foto:AFP

Lo spietato signore della guerra trasformatosi in ‘guaritore spirituale’.
Karadžić fu catturato nel 2008 dopo una caccia all’uomo durata tredici anni coinvolgendo, insieme alla CIA e alla SAS (Special Air Service), anche un soldato vestito da gorilla. Mentre il tribunale per crimini di guerra dell’Aja ne sta emettendo la sentenza, Julian Borger racconta di come le tracce lasciate da Karadžić sono arrivate alla porta di un barbuto terapeuta-santone di Belgrado.

 

di Julian Borger
Dal libro: The Butcher’s Trail
(Traduzione Redazione Modus)

La caccia a Radovan Karadžić

Sono da poco passati due decenni da quando il suolo europeo venne nuovamente macchiato dal genocidio, un ricordo sconcertante che è stato in gran parte sepolto da un continente sempre più intenzionato a fermare l’arrivo degli scampati ai piu recenti omicidi di massa. Con i campi di sterminio europei diventati ora campi di raccolta improvvisati per profughi siriani.

L’amnesia che nasconde la propensione dell’Europa alla macellazione verrà rotta all’Aia giovedi prossimo (Giovedì 24 Marzo, N.d.R.), quando sarà stata pronunciata la sentenza contro Radovan Karadžić, accusato di genocidio e crimini contro l’umanità nel periodo che va dal 1992 al 1995, durante la guerra in Bosnia-Erzegovina. Sarà un evento memorabile nei ventiquattro anni di storia del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY), chiamata anche Tribunale per crimini di guerra dell’Aja. Per la giustizia internazionale, nel suo complesso, sarà probabilmente il momento più importante dai tempi di Norimberga.

Il verdetto di colpevolezza è atteso per quasi tutte le persone coinvolte nel caso. D’altronde Karadžić si è messo alla testa di uno staterello secessionista serbo, un’entità politica dedita alla “pulizia etnica” – termine orwelliano – per l’uso sistematico del terrore verso i musulmani bosniaci e i croati. I dubbi restanti riguardano dettagli, in particolare, se sarà provata giuridicamente l’accusa, altamente emotiva e politicamente risonante, di genocidio e su quanti casi.

Quello che è certo è che l’imputato festeggerà all’evento. Questo magniloquente psichiatra-poeta, un orso d’uomo con capelli bianchi ondulati, nel corso di tutto il procedimento penale ha recitato il ruolo di martire nazionale. Oggi Karadžić è in gran parte deriso o dimenticato dai serbi in Bosnia e nella stessa Serbia. Ma la sua prestazione in tribunale, il suo canto del cigno, potrebbe presentare il rischio di un ritorno al passato, l’opportunità di attingere a un serbatoio di vittimismo. Più di vent’anni dopo la fine del conflitto la Bosnia è più divisa che mai.

 

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           Karadžić e il suo generale Ratko Mladic, nel 1995. Foto: AP

 

Il verdetto di giovedi (24 Marzo, colpevole 40 anni di pena, N.d.R.) porterà l’enfasi sull’enormità del numero degli uccisi – solo in Bosnia sono morte circa centomila persone, senza contare le altre vittime in Croazia e nel Kosovo – e sull’estrema lentezza con cui la giustizia è arrivata. La lunga attesa è dovuta in parte alla natura del tribunale, che ha cercato di essere meticolosamente imparziale, consentendo agli avvocati della difesa un ampio margine di manovra nel corso processuale. Il processo in se stesso è durato cinque anni, e i giudici hanno impiegato altri diciotto mesi per arrivare al verdetto.

Tuttavia il ritardo maggiore è dovuto ai tredici anni che ci sono voluti per arrestare Karadžić e per portarlo al processo dell’Aia. Per i primi due anni dopo la messa in accusa iniziale nel luglio 1995, è stato in grado di vivere apertamente nel villaggio alpino di Pale nei pressi di Sarajevo, paese scelto durante il conflitto a capitale della repubblica separatista serbo-bosniaca. Nonostante che alla fine della guerra vi fossero nell’area ben sessantaquattro mila soldati della NATO, non vi è stata alcuna volontà politica di rischiare, con operazioni di arresto, sia le forze di pace che la pace stessa. Quando nel 1997 ciò cambia Karadžić si dà alla latitanza, dove rimane fino al 2008, nonostante gli sforzi di una forza multinazionale pesantemente armata e dotata di enormi risorse. Nel 2000 Bill Clinton, avvicinatosi alla fine del secondo mandato, considera la cattura di Karadžić un pilastro del suo lascito in politica estera. Dando mandato ad una task force speciale all’interno del Consiglio di Sicurezza Nazionale degli USA di velocizzare le operazioni di ricerca, senza badare a spese. Prima dell’undici settembre, le operazioni di ricerca dei criminali di guerra dei Balcani coinvolgono il più grande dispiegamento di truppe mai usato per operazioni speciali della Delta Force, del Seal Team 6 e della SAS. Karadžić è il primo obiettivo e una priorità per la CIA, la Defense Intelligence Agency e la MI6, diventando cosi l’uomo più ricercato al mondo.

L’esperienza appresa durante la caccia all’uomo per catturare Karadžić e i signori della guerra suoi associati verrà poi utilizzata in Afghanistan, in Iraq e per la ricerca di Osama Bin Laden. Operazioni, queste ultime, fatte per la maggior parte senza quelle risoluzioni delle Nazioni Unite, che hanno invece fornito fondamento giuridico per le operazioni di arresto nei Balcani.

David Petraeus, futuro comandante in capo dell’esercito degli Usa e direttore della CIA, è a quei tempi generale di brigata stanziato a Sarajevo. Affascinato dai metodi usati delle forze speciali, chiede di poter andare con loro in un raid notturno. “Un giorno l’ho rivestito in abiti civili con un berretto da baseball e l’ho messo su un elicottero”. Cosi dichiara il tenente colonnello Andy Milani, l’uomo che conduce la caccia, a Paula Broadwell, biografa e amante di Petraeus, la cui relazione ne avrebbe poi causato la fine della carriera. Dopo un viaggio attraverso gli altopiani della Bosnia orientale, l’elicottero viene raggiunto dai soldati della Delta Force di Milani. “Da li siamo saltati in un furgone con i vetri oscurati, col generale che si comportava come un bambino in un negozio di caramelle“, dice ancora Milani.

Petraeus e i suoi uomini effettuano diverse visite notturne inattese a Ljiljana Karadžić, moglie del fuggitivo, con l’obiettivo di agitarla con spavalde dichiarazioni a riguardo della sua cattura imminente, nella speranza che la moglie si affrettasse a metterlo in guardia, scoprendone così la posizione. Petraeus ha definito questa operazione come una versione del ruolo che il comico Eddie Murphy ha interpretato nel film 24 Hours, un ex carcerato diventato poliziotto. Tuttavia la realtà balcanica è diversa dalla fantasia di Hollywood. Ljiljana Karadžić viene seguita ovunque andasse, diventando uno dei primi obiettivi dei droni di sorveglianza, dotati per la prima volta alle forze speciali statunitensi per testarne l’uso. Sorvegliamento rilevatosi totalmente infruttuoso.

Le forze speciali usano ogni trucco immaginabile, monitorando segnali insoliti provenienti da remoti villaggi lungo il confine con la Bosnia-Montenegro, login notturni sull’internet, antenne satellitari TV in insediamenti rurali, abbonamenti a giornali. La National Secury Agency abbandona addirittura la sua normale prassi operativa permettendo che le informazioni intercettate fossero condivise, senza filtro e senza indugio, con le unità operative assegnante alla cattura di Karadžić in Bosnia.

In uno dei più bizzarri episodi delle ricerche, i soldati della Delta Force tendono un agguato su una strada di montagna, mettendo un soldato vestito con un costume da gorilla – spedito dagli Stati Uniti il giorno precedente – a bella vista sul pavimento stradale. L’aspettativa è che le guardie del corpo di Karadzic, conosciuta come La Preventiva, alla vista rimanessero interdette, rallentando il convoglio il tempo bastante che avrebbe permesso ai soldati imboscati della Delta Force di lanciare granate stordenti, appositamente progettate, sulle le portiere per cosi stordire i passeggeri. L’ingegnoso piano sarebbe diventato un punto all’occhiello della storia della Delta Force, se non fosse stato che l’attore protagonista del dramma non si è presentato in scena. Come tante altre volte la soffiata si rivelata errata o, più probabilmente, deliberatamente fuorviante e Karadžić e i suoi sostenitori per ancora parecchio tempo si divertiranno a tirare la corda al più potente ingranaggio militare del mondo.

La preda sfuggente trova anche il modo di aumentare l’umiliazione dell’Occidente utilizzando la sua latitanza per attività letterarie, quali la pubblicazione di una raccolta di poesie avente un segmento intitolato “posso badare a me stesso” e un romanzo, “Cronache miracolose della notte” che registrano il tutto esaurito alla Fiera Internazionale del Libro di Belgrado.

 

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         Manifesti di ricercati emessi per Karadžić e Ratko Mladic.
                     Foto: Danilo Krstanovic/Reuters

 

Anni dopo, a seguito di interrogatori di membri della cerchia ristretta di Karadžić, sono i magistrati del tribunale dell’Aja a scoprire che Karadžić alla vigilia di Natale del 1999 aveva lasciato la Bosnia per rifugiarsi in Serbia, attraversando in barca il fiume Drina dopo il tramonto. Con la conseguenza che l’intensificazione della caccia all’uomo da parte dell’amministrazione Clinton – con tutti i suoi gadget, unità d’elite e schemi elaborati – era arrivata troppo tardi. La preda ambita era già scappata.

Dopo che Karadžić è arrivato in Serbia, il racconto picaresco diventa ancora più bizzarro. La pista del fuggitivo si raffredda fino al 2005, quando a Belgrado un sedicente guaritore spirituale e chiaroveggente, Mina Minic, apre la porta di casa ad una suonata di campanello per ritrovarsi faccia a faccia con un uomo alto con una lunga e folta barba e abbondanti capelli bianchi, legati con un nastro nero. “Sembrava un monaco che l’aveva combinata grossa con una suora”, ricordera’ Minic in seguito.

È Karadžić, il quale si era appena dotato di una nuova identità fornitagli da simpatizzanti dell’ intelligence serba. Si presenta come Dragan Dabic, un terapeuta che era appena tornato da un periodo di lavoro a New York a seguito di una brutta separazione con la moglie la quale si rifiutava di spedirgli le credenziali professionali. Dabic è ansioso di imparare i segreti dei veggenti balcanici, compreso l’uso del Visak, un pendolo che si suppone identifichi disturbi nel campo energetico in persone malate o in difficoltà.

Dabic presto acquisisce il suo Visak e la sua carriera come un guaritore mistico sboccia, adottando anche un secondo nome – non serbo – David, utilizzandolo sempre più come nome d’arte. Istituisce anche un sito web chiamato Psy Aiuto Energetico che pubblicizzava il suo Programma benessere di David.

Tra le prestazioni offerte ci sono l’agopuntura, l’omeopatia, la “medicina quantica” insieme a cure tradizionali. Il sito vende anche collane chiamate Velbing (benessere): portafortuna che avrebbero offerto benefici per la salute e “protezione personale” contro “radiazioni nocive”. Karadžić aveva studiato psichiatria a Sarajevo, dilettandosi nella parte terapeutica meno impegnativa della professione. Nel 1970 presta servizio come psichiatra residente per la squadra di calcio multietnica della città, con l’ottimistico obiettivo di instillare in chi gioca la volontà di vincere, coprendo poi lo stesso ruolo per la squadra della Stella Rossa di Belgrado. Gli ex giocatori del Sarajevo si ricordano che Karadžić li faceva sdraiare sul pavimento di una stanza buia immersi nella musica, chiedendo loro di immaginare se stessi come farfalle svolazzanti di fiore in fiore. Per trasformarsi in Dabic, Karadžić fa tesoro di questa esperienza e l’abbellisce con concetti quali New Age, forza vitaleforza della vita,  energie vitali  e aura personale. Nel suo tempo libero, si dedica anche ad un progetto congiunto con un noto sessuologo di Belgrado volto a ringiovanire lo sperma di uomini infertili. Con il presupposto che gli spermatozoi avrebbero iniziato a muoversi più velocemente quando Dabic vi avvicinava le mani.

Karadžić con la sua nuova professione va a vivere in uno dei condomini grattacielo che costeggiano la strada Yuri Gagarin, così chiamata in onore del primo uomo nello spazio, ubicato negli squallidi sobborghi di cemento della Nuova Belgrado, frutto dei sogni socialisti degli anni sessanta. I ragazzi del posto lo chiamano Babbo Natale, un vecchio gentile che si ferma a parlare con loro presso il negozio di alimentari all’angolo. Uno dei vicini di Dabic, che ha un appartamento dall’altro lato del fabbricato, è una donna che lavora per l’Interpol e il cui compito era di coordinare la caccia ai latitanti internazionali quali Karadžić.

 

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    Karadžić (a destra), mentre vive come Dragan Dabic. Foto: STR / AFP

 

Come cresceva la sua fiducia nel travestimento così cresceva la sua audacia. Emergendo come una sorta di stella nel circuito di medicina alternativa serba, scrivendo una rubrica fissa in un settimanale della salute, e diventando rappresentare regionale di una società statunitense di prodotti vitaminici. Comincia anche a frequentare un bar locale, il Luda Kuca (Manicomio), un luogo ruvido, pieno di fumo che attrae un andirivieni di gente, molti dei quali veterani di guerra bosniaci in stato di indigenza, sia serbi che montenegrini. Lì vengono per lo più serviti lo šljivovica (acquavite di prugne), insieme ad un nazionalismo pungente e non diluito. Sulle pareti rivestite in legno pendono le immagini del pantheon del nazionalista moderno serbo, col posto d’onore riservato a Radovan Karadžić.

In almeno una occasione si lascia convincere a prendere un gusle, il violino monocorda della regione, per eseguire una ballata popolare serba sotto il ritratto incorniciato di se stesso, al culmine del suo potere. Eppure nessuno lo riconosce.

Alla fine, questa epica impresa del nascondersi in piena vista, viene fatta crollare da Luka, il fratello di Karadžić. Una sera tardi, nella primavera del 2008, Luka chiama il sedicente Dabic con un cellulare dotato di una vecchia scheda Sim che gli investigatori sanno essere associata alla la rete di sostegno di Karadžić, trasmettendo l’informazione ai servizi segreti serbi (BIA ).

Nel mese di maggio, un investigatore va a controllare il destinatario della chiamata, questa strana figura di santone nella Nuova Belgrado, e il castello di carte cade. L’investigatore insieme ai colleghi deve a quel punto decidere cosa fare. Come il resto della Serbia, la BIA è in una fase di transizione. C’è alla presidenza un riformatore filo-occidentale, Boris Tadić, ma il parlamento e molti dei posti chiave, tra cui la dirigenza dei servizi segreti, sono ancora nelle mani dei nazionalisti. Mettendo a rischio la carriera gli investigatori, invece di andare dai superiori, portano il caso all’ufficio di Tadić, mantenendo nel frattempo la sorveglianza. Il destino di Karadžić rimane ancora in bilico, fino a quando Tadić riesce a mettere insieme una coalizione liberale tre mesi dopo le elezioni parlamentari di maggio, potendo quindi destituire la vecchia leadership della BIA.

A questo punto Karadžić è consapevole di essere osservato. Secondo il suo avvocato, Sveta Vujacic, da metà luglio il fuggitivo inizia a notare volti sconosciuti che gli passavano accanto sulle scale e nel pianerottolo del suo appartamento o nel bar Luda Kuca. “Sapeva di essere circondato”, ricorda Vujacic.

La sera del 18 luglio l’uomo conosciuto come Dragan Dabic lascia la sua abitazione al 267 della via Yuri Gagarin indossando una maglietta azzurra e un cappello di paglia a tesa larga calato sul volto. Porta un bagaglio consistente di una busta di plastica bianca, una borsa per la spesa di rafia e uno zaino. Arrivato ad una vicina fermata dell’autobus viene presto discretamente raggiunto da uno dei segugi del BIA. Entrambi salgono a bordo dell’autobus numero 73 diretto alla periferia nord-occidentale di Belgrado.

Raggiunta la zona verde periferica della capitale serba, un paio di auto pattuglie bloccano la strada all’autobus e quattro poliziotti in borghese salgono, due dalla porta anteriore e due dalla posteriore, fingendosi ispettori municipali che fanno il controllo dei biglietti. Il vecchio con il cappello di paglia non fa a tempo a mettere la mano in tasca per mostrare il biglietto che sente la stretta di un poliziotto intorno al braccio.

Dottor Karadžić?” Chiede il poliziotto. “No, mi chiamo Dragan Dabic,” risponde. “No, siete Radovan Karadžić,” il poliziotto insistite.

I vostri superiori sono a conoscenza di ciò che state facendo?” Chiede l’uomo.

Sì, pienamente,” è la risposta.

L’ufficiale ordina all’autista di fermare l’autobus e il prigioniero viene scortato fuori. Alle 21 e 30 del 18 luglio 2008 la sgargiante figura di Dragan David Dabic evapora e al suo posto appare l’ectoplasma di Radovan Karadzic, l’ex gran sacerdote della “pulizia etnica” che aveva tormentato i Balcani per un decennio che si rimaterializza su una strada di Belgrado da vecchio agitato, col cappello di paglia di traverso e che stringe una busta di plastica bianca al petto.

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6 comments

  1. M.Ludi 27 marzo, 2016 at 12:53

    Di tragedie e genocidi è piena la storia dell’umanità ma niente credo ci colpisca più di quanto possa l’aver conosciuto per lunga frequentazione, luoghi e persone prima che una di queste catastrofi ne sconvolgesse la vita.
    Ho visitato in lungo e in largo la ex-Jugoslavia per molti anni fino a poco prima che succedessero i fatti di cui si parla; ricordo di essere passato per le strade di Pristina mentre i carrarmati già ne delimitavano il bordo. Ricordo Serajevo e Mostar, ricordo il dolore di aver visto in televisione i cecchini sparare da palazzi disabitati su viali dove avevo camminato in mezzo alla gente quella gente che viveva apparentemente serena ma che, evidentemente, covava un odio che da turista non avevo percepito minimamente.
    Credo che chiunque abbia visistato quei luoghi prima che l’orrore li devastasse abbia avuto la mia sensazione: una terra di perfetto connubio tra etnie e religioni, dove molte famiglie cristiane tenevano in casa le pentole per cuocere separatamente la carne ad eventuali ospiti mussulmani per rispettarne la tradizione, e viceversa, …..e tuttoggi non comprendo come sia potuto accadere un genocidio come questo; no, non riesco a capire!

    • Kokab 28 marzo, 2016 at 01:52

      anch’io come te ho girato in lungo e in largo quella che una volta si chiamava jugoslavia, al punto di poterla considerare la mia patria d’elezione, ne conosco perfettamente la costa e le isole oltre che le principali città dell’interno, e vi ho trascorso per molti anni intere estati della mia vita.
      delle sue molte città, veneziane o asburgiche principalmente, ricordo l’impressione che mi fece sarajevo nell’anno della morte di tito, il 1980, un luogo magico dove vienna confinava con istambul, e dove magari uscendo da un tipico suk musulmano finivi in un piccolo cimitero ebraico: era una strana città, capitale di una repubblica comunista, ma caratterizzata da una grande tolleranza religiosa, con luoghi di culto cristiani, ebraici e musulmani al centro e in periferia, uno di fianco all’altro.
      ho ricavato allora la tua stessa impressione di integrazione e tolleranza, e ho immaginato che tito avesse fatto il miracolo di rendere pacifico uno dei luoghi più caldi della terra, un luogo nel quale la guerra fra etnie e fedi religiose era stata la regola per centinaia d’anni; bene, dobbiamo onestamente ammettere che era un’impressione sbagliata, e che l’odio atavico fra serbi e croati era semplicemente sopito, non so se dal carisma o dalle prigioni di tito, ma sempre doveva aver covato sotto la cenere.
      la situazione è talmente complessa che ogni possibile spiegazione rischia la banalità e la semplificazione, ma credo che per limitarsi alla storia recente ci siano due aspetti del nazionalismo serbo e croato che possono in qualche modo illuminare l’ultima tragedia e le sue ragioni.
      il nazionalismo croato è sempre stato di destra, e il suo movimento guida, quello degli ustascia, è di estrema destra: fascisti e filonazisti, ancor prima che nazionalisti, si sono macchiati di crimini orrendi a fianco dei tedeschi nella seconda guerra mondiale, radicando un feroce desiderio di vendetta nell’altra parte, desiderio che evidentemente non si è esaurito nella vittoriosa guerra di tito, croato e comunista.
      il nazionalismo serbo invece, che pure è stato sia di destra che di sinistra, costituisce, a quanto ne so, una specie di compendio del concetto stesso di nazionalismo, quasi un archetipo, ed è capace di muovere l’intera società in un modo che non assomiglia a nessun altro; quanto sia potente il nazionalismo della “dolce ortodossia”, l’ho scoperto molti anni dopo il mio viaggio a sarajevo nelle pagine di un romanzo al solito quasi sconosciuto in italia ma non nel mondo, migrazioni di miloš crnjanski, uscito in due volumi a distanza di oltre 30 anni fra di loro, nel 29 e nel 62, un libro che mi ha aiutato a convincermi di quanto possa essere devastante l’idea stessa dell’identità collettiva: che dovunque ci sia un serbo ci sia la serbia è un’idea folle, stupida per principio direi, ma in quel luogo paradossale di fini diplomatici e di grandi bevitori, anche questo è la serbia, viene presa tremendamente sul serio.
      dopo succede che persone normali, fino a ieri in rapporti di cordialità e amicizia, diventino dei lupi feroci che uccidono il vicino e violentano le sue donne, nella riedizione di massacri che richiamano quelli del principe vlad, perché questo è karadžić, una specie di vampiro che ha insanguinato l’europa moderna con metodi medioevali. certo, lui era il capo, probabilmente non è mai stato l’uomo della porta accanto, ma tutti quelli che erano con lui, o che dopo lo hanno protetto per anni, non sono stati sempre delle belve feroci, ma sono stati per una vita il sorridente vicino di una vittima inconsapevole.
      in fondo, se ci pensiamo bene, quel che non si comprende è come mai per mezzo secolo in quelle terre percorse dall’odio tribale non sia scorso il sangue, e che questa volta sia toccato ai serbi la parte del lupo mi pare alla fine secondario; però di una cosa sono certo, vorrei che karadžić avesse una vita abbastanza lunga da scontare in carcere la sua intera condanna, senza nessun perdono.

  2. Luistella 25 marzo, 2016 at 20:50

    “LA STAMPA
    “Mancavano uomini e ragazzi. Così mi accorsi di Srebrenica”
    Emma Bonino: nel ’95 ero lì vicino, denunciai, nessuno mi ascoltoò

    «Era l’11 luglio 1995. Me lo ricordo benissimo. Arrivò la notizia, secca, che migliaia e migliaia di persone erano in marcia da Srebrenica verso il campo profughi dell’Onu Tuzla. Quel giorno, di rientro da una missione nella regione dei Grandi Laghi in Africa, ero a Strasburgo, e stavo facendo la mia relazione al Parlamento europeo». Emma Bonino, ai tempi del più grave massacro accaduto sul suolo europeo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, di cui ricorre il ventennale e che oggi chiamiamo genocidio, era da pochi mesi Commissario Ue per gli Aiuti Umanitari. E le «capitò» di scoprire il massacro di Srebrenica. Questo è il suo racconto.

    «Quando abbiamo saputo che migliaia e migliaia di persone erano in cammino verso Tuzla, abbiamo deciso di andare subito a vedere cosa stesse succedendo. In piena guerra nella ex Jugoslavia, e con le milizie serbe di Mladic che da tempo avevano sotto tiro le enclave serbo-bosniache musulmane, l’Onu aveva allestito sei “safe area”, zone di sicurezza presidiate dai Caschi Blu che però non avevano il mandato atto a proteggere la popolazione. All’epoca, ancora si credeva che la bandiera dell’Onu potesse essere un deterrente. Srebrenica era una di quelle “safe zone”, una enclave in territorio serbo, Tuzla il campo profughi più vicino.

    Atterriamo in elicottero, e percorriamo il campo. In un silenzio spettrale, passiamo in lungo e in largo tra le tende, la mensa, l’astanteria, gli uffici, l’ospedale da campo. E a un certo punto mi accorgo di aver visto solo donne, vecchi e bambini. Quante persone ci sono qui?, chiedo. Ero certa, perché mandavamo aiuti, che a Srebrenica ci fossero 42 mila cittadini. A Tuzla fanno i conti, due volte, e ci accorgiamo che ne mancano 8 mila. Tutti uomini, o adolescenti maschi, in età per combattere. Torniamo in mezzo alle tende, parliamo con le donne, e loro ci raccontano che i serbi li hanno divisi, donne vecchi e bambini da una parte, uomini e ragazzi da un’altra. Penso che devo tornare a Roma e denunciare la cosa. Saliamo sull’elicottero, ma si scatena un temporale, “rischiamo di sfracellarci sulle montagne”, dice il pilota, e torniamo indietro. Da Tuzla, mentre aspettiamo di ripartire, mi metto in contatto con la Croce Rossa.
    Il rapporto a Bruxelles
    Un paio di giorni dopo, quando riesco a rientrare, scrivo un rapporto che da Bruxelles viene mandato a tutte le capitali europee. Incredibilmente, segue la più totale indifferenza. Silenzio. E se qualcuno mi rispondeva, era per dirmi “chissà, magari gli uomini e i ragazzi si sono nascosti nelle foreste”. Foreste? Ma se non ci sono più foreste, la guerra le ha cancellate tutte, rispondevo inutilmente io… Bisognerà aspettare un mese, quel 10 agosto del ’95 in cui il Segretario di Stato americano, Madeleine Albright, che pure avevo subito informato di quello che era accaduto a Tuzla, rende pubbliche le foto satellitari di Srebrenica nelle quali si vedono chiaramente le fosse comuni. Quegli ottomila uomini e ragazzi serbo-bosniaci e musulmani separati da vecchi, donne e bambine dai serbi non erano nelle foreste. Erano morti nel massacro delle truppe del generale Mladic».
    «Per quasi un mese, del massacro di Srebrenica non si sa niente e nessuna capitale reagisce al rapporto che avevo inviato. Ma anche dopo le foto della Albright, la negazione pressoché totale da parte degli europei continuò a lungo. Per i Caschi blu olandesi che avevano lasciato passare i militari di Mladic senza colpo ferire cadde poi il governo olandese. Solo nel 1993, grazie agli italiani, al governo di Giuliano Amato che con i francesi si fa promotore di una apposita risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, era nato un tribunale ad hoc per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia, dal quale parte una campagna che porterà alla nascita del Tribunale Penale Internazionale. Nel 1996 sono tornata a Srebrenica, per la commemorazione, e ancora l’anno dopo con Hillary Clinton e l’ex ministro degli Esteri italiano Susanna Agnelli per il progetto di riconciliazione dell’Institute for Inclusive Security, centrato sulle donne che saranno alla commemorazione anche per questo ventennale, un progetto che nacque proprio in quei giorni lontani. Ma da allora, le cose non sono cambiate molto. Nessuna capitale reagì allora, nessuna pensò di coinvolgere l’Europa».
    Le colpe di Usa e Ue
    Qualche giorno fa, l’«Observer» ha pubblicato un’inchiesta nella quale si dice che Francia, Inghilterra e Usa non intervennero militarmente a Srebrenica per non indisporre Milosevic che doveva sedersi, di lì a pochi mesi, al tavolo degli accordi di Dayton. Lei che ne pensa, si aveva sentore di qualcosa del genere, in quei giorni? «Perché, qualcuno pensò mai di coinvolgere l’Europa? No. Le cose vanno così ancora oggi. Pensiamo all’intervento francese in Mali. Parigi non ha comunicato a nessuno la sua decisione, tantomeno alla Ue. Si è limitata a farla ratificare, due mesi dopo, alla riunione Ue dei ministri. E il tutto, alla faccia del Trattato di Lisbona, e del previsto coordinamento della politica estera. Da quell’11 luglio del 1995 sono cambiate molte cose. Ma non in Europa. La Ue continua a non funzionare, per carenze proprie, ma soprattutto per le precise volontà dei governi nazionali». ”
    Ho riportato l’articolo di cui ho citato il link perchè ho notato che non si riesce ad aprire col link. E’ tratto da La Stampa del 25.3.2016

  3. Luistella 25 marzo, 2016 at 20:40

    http://www.lastampa.it/2015/07/10/esteri/mancavano-uomini-e-ragazzi-cos-mi-accorsi-di-srebrenica-GajX91BCfV0Q8P Questo link riporta un’intervista ad Emma Bonino a proposito di Sebrenica. Ne consiglio la lettura.
    Alcuni anni fa, per caso , una sera ebbi modo di vedere in tv un servizio “Sebrenica 8372”, condotto da quell’ottimo giornalista Antonello Piroso ( che ha lasciato La7 e non lo si ede più in giro, capita quando uno è bravo…). Reportage che quando inizi a vedere non riesci a staccartene fino alla fine e poi ti chiedi “perchè l’ho guardato?!”. Forse perchè ti pare cosa ingiusta non vederlo, se non altro per rispetto delle vittime e di chi ha condotto la narrazione storica dei fatti.
    Ieri l’entità in oggetto (difficile per me chiamarlo essere umano) è stato condannato a 40 anni , di cui 8 già scontati , dopo 13 di latitanza protetta. Pare che se si comporta anche bene, possa uscire tra una decina d’anni, per “buona condotta”. Dalle sue parti, alcune scuole portano il suo nome. Non mi viene altro da dire , che se un Dio c’è, lo stramaledica, assieme a quelli che collaborarono con lui o che ora gli dedicano le scuole !

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