la società

La paura di sbagliare fa male ai nostri figli

La nostra cultura, ai tempi di X Factor, oscura il fatto che l’elemento più importante del successo è la resilienza.

di Matthew Syed
(Traduzione Redazione Modus)

 

West Point, l’accademia di formazione per aspiranti ufficiali dell’esercito degli Stati Uniti, è considerata come una delle più formidabili istituzioni educative in tutto il mondo. Le primissime settimane all’inizio del percorso di addestramento sono volutamente dure. Ci sono sfide fisiche e psicologiche, tra estenuanti marce in cui si trasportano carichi pesanti, più batterie di test di ragionamento e d’intelletto. Molti trovano il gioco così duro che mollano. I militari hanno a lungo considerato queste settimane di apertura come un modo di separare i migliori dal resto degli iscritti. Infatti, c’è un metro scientifico del potenziale, chiamato il Punteggio Integrale del Candidato (Whole Candidate Score), che misura prestanza fisica e intelligenza attraverso test attitudinali (SAT). Questi, insieme ad altri ingredienti di talento, aiutano a prevedere chi tra le reclute avrà maggiori probabilità di progredire.

Ma nel 2004, Angela Lee Duckworth, una psicologa, si chiese se poteva misurare qualcosa chiamata “la grinta” delle nuove reclute. Il suo questionario aveva poco della sofisticazione del Punteggio Integrale del Candidato (WCS). Era un sondaggio di cinque minuti che chiedeva agli intervistati di valutare se stessi da uno a cinque su 12 affermazioni come “le battute d’arresto non mi scoraggiano” e “io finisco tutto ciò che comincio“.

I risultati furono chiari. Il rating de la grinta era un predittore significativamente superiore del laurearsi con successo a West Point rispetto al WCS. Duckworth continuò a distribuire il suo questionario per i seguenti cinque anni. In ognuno dei cinque si rivelò un predittore più potente . La scala de la grinta ha anche dimostrato di predire in modo più efficace del QI verbale, anche le prestazioni nelle gare di spelling e di ortografia. Questo non significa che le misure convenzionali del potenziale, come il QI, non siano importanti. Ma esse si rivelano essere piuttosto impotenti se non subordinate ad aspetti più profondi del carattere: la volontà di lavorare nonostante le possibili difficoltà, e di non sentirsi  minacciati dai fallimenti, che sono un aspetto inevitabile della vita e dell’apprendimento.

Se i ragazzi pensano che il successo arrivi rapidamente e senza sforzo per quelli dotati di vero talento, perché dovrebbero preoccuparsi di perseverare?
Il problema è che viviamo in una cultura à la X Factor. È costantemente insinuato, non solo in tv, ma in tutta la cultura popolare, che chi ha un super-talento sia spinto verso la celebrità da un giorno all’altro. Ha tutto solamente a che fare col successo immediato e la gratificazione. Ma se i bambini pensano che il successo arrivi senza sforzo per coloro che hanno vero talento, perché dovrebbero preoccuparsi di perseverare quando si imbattono nelle sfide e nelle difficoltà? Non supporranno che non hanno quel che ci vuole – per poi arrendersi?

In effetti, il talento può attivamente minare le prestazioni in determinati contesti. In un esperimento, un gruppo di studentesse sono state misurate per QI e poi gli è stato dato un compito che aveva la sezione più impegnativa all’inizio. Molti avrebbero previsto che le ragazze col più alto quoziente intellettivo sarebbero andate meglio. Eppure, dopo essere abituate all’aver successo spesso nella vita, erano così agitate dallo sforzo iniziale che diventarono “impotenti”. Difficilmente si impegnarono con i problemi che seguirono la prima difficile sezione. Il rapporto tra QI e l’esito fu negativo.

Questo sembrerà notevole, ma non sorprenderà i datori di lavoro, che da tempo hanno scoperto che gli studenti di successo, che non hanno però sviluppato le caratteristiche necessarie per trattare con eventali battute d’arresto, sono spesso i più agitati dalle ambiguità e dalle sfide che sono ingredienti centrali del moderno luogo di lavoro.

Si può anche vedere questa analisi manifestarsi nel funzionamento del nostro cervello. Quando falliamo ci sono due segnali attivati ​​nella corteccia cerebrale. Il primo è Negatività Correlata all’Errore o NCE, la risposta involontaria nel commettere un errore. Il secondo è la Positività dell’Errore, o PE, che si può osservare 200-500 millisecondi dopo un’errore ed è associata ad una maggiore consapevolezza.

Persone che hanno una atteggiamento mentale di crescita (un attributo psicologico fortemente correlato a grinta) hanno una diversa risposta PE. In un esperimento costoro hanno prodotto un segnale di PE tre volte superiore rispetto ai loro coetanei. In altre parole, non ignorano gli errori, o si arrendono di fronte ad essi, ma li trovano degni di maggior attenzione. Questo è il motivo per cui imparano, e quindi non fanno gli stessi errori.

Abbiamo bisogno di una rivoluzione nel nostro modo di pensare al fallimento. Invece di rinunciare o di essere così minacciati da nostri errori che pensaimo di dover coprire, dovremmo vederli come opportunità di apprendimento. Questo non solo per migliori prestazioni, ma anche per maggiore serenità. Solo quando riconosciamo la nostra fallibilità siamo liberi di cercare nuovi modi per migliorare, piuttosto che essere frenati dalla paranoia e quell’indola difensiva che governa tanto della vita lavorativa.

Resilienza, dunque, non ha solo a che fare con un appetito per la lotta, ma anche con la comprensione di sé che porta alla crescita e l’illuminazione. Come disse il grande filosofo Karl Popper: “La vera ignoranza non è l’assenza di conoscenza ma il rifiuto di conoscere.”

 

 

 

Un TEDTalk di Angela Lee Duckworth : La chiave del successo? La grinta.

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