la società

Il lavoro che non c’è (e non ci sarà) più!

 

Il lavoro che non c’è ( e non ci sarà) più!

Alcune sere fa ho assistito (nei soliti improbabili orari nei quali vengono confinate) ad una puntata di una delle poche trasmissioni televisive che giustificano il canone Rai: “Visionari”, di Corrado Augias. La serata verteva sulla figura di Steve Jobs e sull’impatto che il suo lavoro ha avuto, non solo sul modo di pensare e vedere le cose singolarmente, ognuno di noi nel rapporto con gli altri, ma anche su ciò che lo sviluppo della tecnologia e, specialmente dell’informatica ha su uno degli aspetti più delicati sui quali si basa la nostra Società: il lavoro.

La trasmissione, che può essere rivista seguendo il link in calce evidenziato, non verteva sull’argomento che ho trattato ma credo ne sia comunque utile la visione per aumentare la comprensione.

Alla fine della seconda guerra mondiale la popolazione italiana risultava essere dedita prevalentemente all’agricoltura, con circa il 50% delle persone attive impegnate nei campi a coltivare; un dato così elevato si giustifica, oltre che con i disastri operati dai bombardamenti sul sistema produttivo industriale, da alcuni fattori sociali che sono andati pesantemente modificandosi nel corso degli anni: la bassa scolarità, il pesante ricorso alla mezzadria, la tradizione specialmente nelle zone rurali al mantenimento di rapporti familiari molto stretti con la creazione di nuclei numerosi nei quali ognuno era, in qualche modo, artefice del sostentamento degli altri, ed infine, come accennato, il basso livello di industrializzazione del Paese.

Se oggi dobbiamo purtroppo constatare che circa la metà della popolazione ha una bassa alfabetizzazione e livello culturale, tanto da rendere il populismo la forma più efficace di svolgere l’azione politica, non possiamo certo meravigliarci se la prima Italia repubblicana e democratica era formata in larga parte da cittadini analfabeti, molti dei quali a malapena comprendevano la lingua italiana tanto i dialetti erano ancora di uso comune. Fu con l’avvento della televisione nei primi anni ’50 che fu introdotto il primo grande tentativo di unificare la lingua e fu sempre con un programma televisivo (“Non è mai troppo tardi”, condotto da Alberto Manzi; per tutti il “Maestro Manzi”) che ebbe luogo la prima grande opera di alfabetizzazione la quale, iniziata nel 1877 con la Legge Coppino (che aveva istituito l’obbligatorietà della frequenza scolastica per cinque anni), aveva per lungo tempo mostrato tutta la sua incapacità di distogliere i giovani dal lavoro nei campi.

Come sappiamo, la necessità di raggiungere livelli sempre maggiori di specializzazione nella crescente civiltà industriale e l’ambizione di raggiungere migliori livelli retributivi e lavori meno usuranti, hanno progressivamente tolto i giovani dai campi portandoli nelle aule scolastiche per un percorso formativo diffuso sino agli anni ’70 nelle sole scuole medie inferiori e secondarie, per poi portare ad un progressivo affollamento delle aule universitarie.

 

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Mentre i giovani tendevano a spostarsi dalla campagna nelle aule, la legge intervenne ad abolire uno dei retaggi più consolidati dell’età feudale: la mezzadria. Infatti nel 1964 venne promulgata una legge che avrebbe impedito la stipula di nuovi contratti a far tempo dal 1974 lasciando i residuali ad esaurimento nel tempo. Com’è noto la proprietà terriera ha teso, nei secoli ad una concentrazione in mano di pochi i quali concedevano il diritto di coltivazione ed un parziale utilizzo del raccolto mantenendone la proprietà ed il diritto di arricchimento con i cospicui frutti del lavoro altrui; la cessazione di questo istituto giuridico portò, con la progressiva perdita di valore del terreno agricolo, da un lato alla nascita delle prime coltivazioni estensive (sul modello americano) e dall’altro ad una parcellizzazione della proprietà terriera, in parte frutto secolare dell’usanza testamentaria, ma in parte dovuta anche al progressivo arricchimento di più ampi strati della popolazione i quali, da mezzadri, avevano potuto accantonare parte dei proventi per costituire un capitale utile ad acquistare la terra che per decenni avevano coltivato per conto terzi.

Ma la progressiva perdita di valore dei terreni agricoli conseguenza dell’abbattimento dei prezzi dei prodotti dovuti alla maggiore economicità delle coltivazioni intensive ed estensive, nonché il ricorso alla meccanizzazione che necessitava di ingenti capitali, hanno portato al progressivo abbandono delle campagne per andare ad alimentare la nascente civiltà industriale, specialmente nel nord del Paese, con tutte le conseguenze che questo ha determinato.
La più immediata di tutte queste trasformazioni è stato il progressivo disgregamento dei nuclei familiari che ha prodotto la necessità che lo Stato si facesse carico sempre più di tutte quelle esigenze sociali di cura e mantenimento venute meno con l’impoverimento del focolare domestico; questo ha fatto progredire quello che oggi chiamiamo il Welfare State ma, con le aumentate esigenze economiche e l’impoverimento delle casse dello Stato, oggi presenta drammatici interrogativi sul futuro della società, sia come individui, che come coesione all’interno di un contesto sempre più fragile.

 

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La chiave di volta diventa, oggi più di ieri, il lavoro; un lavoro nel quale la progressiva specializzazione porta sempre più ad una possibile sostituibilità da parte delle macchine o, comunque, di intelligenze artificiali le quali sanno meglio dell’uomo interpretare il concetto di incremento di produttività e crescita economica perché meno soggette alla necessità di rispetto di orari ed alla possibilità di errore nello svolgere compiti predeterminati ed immutabili, dove, cioè la variabile dell’improvvisazione non abbia significato.

Questa nuova frontiera del mondo del lavoro pone interrogativi che non trovano risposta nelle quotidiane diatribe sullo sviluppo contrattuale nei rapporti tra capitale e lavoro perché apre scenari nuovi nei quali si interrompe la tradizionale catena che dal lavoro e dal salario (o stipendio) porta ai consumi e, quindi, ad alimentare il ciclo produttivo che vediamo, oggi, sempre più interrotto con la crescente perdita di posti di lavoro ed una mancata crescita economica sia pur in presenza di esuberanza di alcuni fattori tipici della produzione: capitale e lavoro.

 

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Senza che noi ce ne accorgessimo, abbiamo intrapreso una strada che non sappiamo dove porta e, nel frattempo, ci affanniamo a mettere pezze vecchie a nuove falle senza avere la minima idea dell’efficacia che queste possano avere; la stessa discussione sulle varie riforme del mercato del lavoro (che ha così tanto scaldato gli animi in Italia e li sta scaldando in Francia) sembra vecchia ed indirizzata alla soluzione di problemi che andranno a soluzione semplicemente perché di lavoro ce ne sarà sempre meno, e di lavoratori disoccupati sempre di più, ovunque.

Alla fine la sfida dei nuovi visionari è una sfida incompleta perché hanno aperto nuove porte senza indicare un percorso che, a questo punto spetterebbe alla politica indicare se esistessero ancora statisti capaci di avere una visione di medio-lungo periodo invece di meri venditori che perseguono obiettivi di breve periodo. Per questo motivo ad ognuno di noi spetta il dovere di riflettere sempre più e sempre più rendersi conto che l’individualismo, frutto avvelenato del progresso, non porterà niente di buono.

 

 

Steve Jobs – “Visionari” del 30/05/2016

Il lavoro che non c’è ( e non ci sarà) più!

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8 comments

  1. Genesis 5 giugno, 2016 at 09:07

    Nel nostro bel paese ci sono 31 milioni e mezzo di persone abilitate al lavoro. Dal sito inps troviamo, settore per settore, quanti sono gli occupati: 18 milioni e mezzo. Risulterebbero inoperative più di 12 milioni di persone…tenendo conto anche delle 277 milioni di ore voucher vendute. Le statistiche parlano anche del lavoro nero imposto un po’ ovunque nel territorio…che precisione statistica si possa avere su queste ultime, non si sa: il “nascosto” è alla luce di tutti. A chi legge le proprie deduzioni…
    Premesso questo posso certamente definire che l’automazione avanzata delle nostre poche fabbriche sia solamente una pulce sulla pelle del dinosauro più grande…non si può leggere l’occupazione solamente nei siti in cui si producono acciaio, automezzi, navi, treni o aerei…ed anche qui la manodopera è basilare…il lavoro in Italia è decisamente più variegato e il terziario, legato all’agricoltura, è una delle branche più popolose.
    Quanti siano poi coloro cui non denunciano il proprio lavoro, spero, non c’è dato sapere, distribuiti in settori semplici e difficili quali le pulizie, la sartoria, la compagnia, il recupero di materie scolastiche, bassa manovalanza, vendita oggetti di recupero, massaggi…e chi più ne ha più ne metta.

    Il lavoro c’è…è che devi andare a cercartelo e fartelo tuo il più possibile, anche se non è il proseguo del tuo ambito di studi…di certo non è il lavoro che ti viene a cercare!

    • Kokab 5 giugno, 2016 at 15:17

      il lavoro oggi non viene più a cercare nessuno, ma sempre più spesso abbandona persone che hanno un tasso di (ri)occupabilità paria a 0, persone avanti negli anni, con basso tasso di scolarità e una specializzazione in mansioni non più ricercate, vuoi perchè ci sono importanti settori economici in crisi da anni (pensiamo all’edilizia), vuoi perchè intere professioni spariscono dal mercato (da grandi segmenti del settore manifatturiero alle collaboratrici domestiche).
      vivo in una città medio piccola del profondo nord benestante, alla quale fanno riferimento circa 30.000 persone, solo dall’inizio dell’anno quelli che hanno perso il lavoro sono oltre 600, dei quali solo una cinquantina, in questo lasso di tempo, è riuscita a reimpiegarsi; la stragarande maggioranza di queste persone venivano dai servizi e dal terziario in genere, poichè la deindustrializzazione da una parte e la riqualificazione tecnologica dei pochi settori ancora vitali dall’altra, aveva già provveduto nei decenni scorsi a cancellare i posti di lavoro delle tute blu.
      a parte il fatto che non credo sia possibile un vero sviluppo basato solo sui servizi, quasi nessuna di queste persone è reimpiegabile nei settori marginali e ad alto contenuto di forza lavoro, mentre i pochi posti oggi disponibili richiedono generalmente un’alta specializzazione che non possiedono, e neppure esistono quei reali percorsi di riconversione di cui spesso si parla nei salotti della politica senza sapere quello che si sta dicendo.
      il problema è immenso, nessuno ha facili soluzioni, ma se il lavoro bastasse cercarlo la crisi economica morderebbe di meno.

      • Genesis 5 giugno, 2016 at 18:23

        Il lavoro non ti viene a cercare, ma devi anche cercare di adattarti a ciò che c’è…
        Conosco molte persone, tra cui un mio ex collaboratore, che a 55-59 anni si sono rimesse a studiare per imparare un mestiere che fino a quel momento nemmeno concepivano, oppure che relegavano ad infima valenza…come conosco anche chi, riadattandosi al proprio territorio, ha speso gli ultimi spiccioli per creare miniimprese che ora danno da mangiare a diverse famiglie.
        La soluzione non ce l’ha nessuno, sicuramente, ma da qui nemmeno immaginarsela…

    • M.Ludi 5 giugno, 2016 at 15:41

      Sei ben poco indulgente con chi ha perso il lavoro o con chi, ricercandolo, non riesce a trovarlo; concordo con te che se uno vuole mettersi in gioco, forse mai prima, come adesso si stanno creando opportunità che molti non vedono, ma, di contro, bisogna capire che la nostra società, partendo dalla scuola, ha creato una sorta di gene diffuso il quale impone la ricerca del posto di lavoro dipendente, possibilmente dietro ad una scrivania e questo, oltre ad essere sempre meno offerto, è anche sempre più dequalificato e mal pagato.
      Miopia individuale di chi ha scelto un percorso di studi largamente mortificato quando vai a cercare lavoro? Certamente si, ma anche gravi colpe della politica la quale, guardando poco più in là del suo naso e solamente in ottica elettorale, ha perso da decenni ogni capacità di avere una visione del futuro e, indicarla ai giovani che devono scegliere i loro percorsi. Io e te sappiamo bene che chi fa impresa ha avuto bisogno e sempre più ne ha di tenersi sempre pronto al cambiamento, ma non possiamo non riconoscere la grave responsabilità collettiva nel non aver insegnato anche ad altri a farlo

      • Genesis 5 giugno, 2016 at 18:16

        La politica sbaglia a prescindere!
        Con questa battuta condivido ciò che scrivi Ludi, compresa la mia poca indulgenza, ma…
        Negli ultimi anni sono state aperte tante scuole formanti e, comunque, vengono spesso viste come “bassa lega”: le vecchie e care professionali. Ancora pochi eletti ne fanno uso e, spesso, le aziende cercano quegli studenti, perché già avviati al lavoro specifico: elettricisti, meccanici, collaboratori domestici, topografi, assistenti sanitari, giardinieri…a volte mestieri che sono ultimamente in mano agli immigrati…lo stesso collaboratore agricolo…
        Quelle scuole sono pressoché vuote, ma sono sempre pieni i licei.
        Abbiamo, alla fine, un alto tasso di acculturazione (leggendo alcuni post, non posso crederci…) che però, alla fine, non produce reddito, anzi, lo scarnifica alle famiglie…
        La politica c’entra e molto…ma non ne faccio colpa solo a questi!

  2. Kokab 4 giugno, 2016 at 17:39

    siamo vissuti per millenni in un mondo sostanzialmente statico, nel quale il lavoro umano, sostituibile solo in modo marginale, contava quanto o più del capitale, ed era così prezioso che per quasi tutto questo tempo la schiavitù è stata un modello diffuso di organizzazione del lavoro.
    negli ultimi 50 anni, e per la prima volta nella storia, il progresso tecnologico ha avuto una dimensione e una rapidità tali da far schizzare alle stelle la redditività del processo produttivo e nel contempo da rendere l’uomo obsoleto , creando una situazione che non ha precedenti della storia, e che trova modelli solo nella fantascienza.
    ciò che sta cambiando, che è già cambiato, rispetto alle precedenti fasi dell’industrializzazione, è la possibilità di riconvertire utilmente in nuovi settori i lavoratori che vengono espulsi dal progresso tecnologico, e poichè questa prospettiva ha connotati assolutamente cupi per evidenti motivi, forse conviene fermarsi un attimo a riflettere.
    hai detto giustamente che il problema è il lavoro, e hai ragione, ma il problema del lavoro si risolve solo con la politica, che oggi appare invece quasi ovunque singolarmente inadeguata persino ad affrontarlo, e non è detto che sia più facile quando la società si sarà maggiormente stratificata fra ricchi e poveri, anzi…; quanto all’individualismo, come di quasi tutte le cose non penso che sia un male in sè, è un male se, come oggi, non ha alcun limite.
    alla fine credo che il vero problema sia semplicemente il liberismo selvaggio che incrocia una opportunità che non ha mai avuto prima, quella di rendere superfluo il lavoro umano.

    • M.Ludi 5 giugno, 2016 at 15:33

      Condivido nella quasi totalità le tue affermazioni con, però un corollario sul quale poco si riflette, il capitalismo si trova delle praterie di opportunità con, però un rischio enorme di autodistruzione. Il sistema capitalistico ha il suo perno pulsante nel consumismo il quale non può essere alimentato solo da pochi enormemente ricchi, ma ha bisogno di moltitudini le quali, disponendo di fonte di reddito, acquistino, ciascuno, poco sommando però enormi quantità di transazioni commerciali che, alla fine della catena, fanno crescere il capitale. Lo avevano ben compreso Ford (il quale sosteneva che non aveva gran senso produrre auto che i suoi operai non potessero permettersi di acquistare) e Olivetti che, a sua volta, identificò nel rapporto 1:10 quello ideale tra la retribuzione del più basso dei suoi salariati rispetto al più alto dei suoi dirigenti. Questo capitalismo è del tutto stupido perchè produrrà esattamente ciò di cui la teoria vuole abbia minor esigenza: instabilità. Alla lunga fare a meno della manodopera significa non pagare salari e stipendi; ma quanti frigoriferi, cellulari e auto possono comperare Buffet, Soros e Bill Gates?

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