le storie

L’enigma Bellomo

L’enigma Bellomo

 

di Prof. Luca Marini

 

 

Alla fine della IIa guerra mondiale, di criminali di guerra italiani, processati da corti militari alleate, ce ne fu solo uno: il generale Nicola Bellomo.

Norimberga, notte tra il 15 ed il 16 ottobre 1946. Nello spazio di sessantatré minuti, tra le 01.11 e le 02.14, dieci uomini che rappresentano il vertice politico–militare del Terzo Reich vengono giustiziati mediante impiccagione.[1] Tokio, 23 dicembre 1948: sei generali ed un ex primo ministro e ministro degli affari esteri giapponesi vengono impiccati nella prigione di Sugamo perché riconosciuti colpevoli, come i loro colleghi tedeschi, di crimini contro la pace, di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità.[2] E se 10 tedeschi e 7 giapponesi sembrano pochi per espiare le colpe di quanti pianificarono ed attuarono le guerre di aggressione, in Europa come in Estremo Oriente, va ricordato che diversi processi “secondari” (o “paralleli”) rispetto a quelli “principali” di Norimberga e di Tokyo giudicarono e condannarono a morte centinaia e centinaia di individui: poco meno di 1000 solo in Giappone.[3]

 

 

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Palazzo di giustizia di Norimberga nel 1945 (a sinistra), il “Tribunale Militare
Internazionale per l’Estremo Oriente” a Ichigaya, Tokio, nel 1946 (a destra)

 

Giustizia – beninteso, la giustizia dei vincitori – è fatta, anche se pochissimi, oggi, almeno in Italia, ricordano i nomi dei criminali tedeschi e nessuno, o quasi, ricorda i nomi dei criminali giapponesi. Del resto, non sono di più coloro che ricordano quanti e quali criminali di guerra italiani vennero processati, condannati e giustiziati dagli Alleati, al termine del conflitto. Prima di indicare la cifra esatta, è opportuno sottolineare che il Regno d’Italia – dopo aver aggredito l’Etiopia nel 1935, avere aderito nel 1937 al Patto Anticomintern stipulato tra Germania e Giappone l’anno precedente, avere firmato nel 1939 il Patto d’Acciaio con la Germania, avere invaso, ancora nel 1939, l’Albania, avere firmato nel 1940 il Patto Tripartito con la Germania ed il Giappone ed avere aggredito, sempre nel 1940, la neutrale Grecia – combatté contro gli Alleati anglo-americani e russi per più di tre anni, dal giugno 1940 al settembre 1943, impegnandosi nei più diversi teatri di operazione, dalla Francia del Sud al cielo d’Inghilterra, dai Balcani all’Africa settentrionale ed orientale, dall’Oceano indiano alla Russia. Ebbene, di criminali di guerra italiani, processati da corti militari alleate, ce ne fu solo uno: il generale di divisione Nicola Bellomo (Bari 1881 — Nisida 1945), croce al merito di guerra, cavaliere dell’Ordine militare di Savoia, due volte medaglia d’argento al valore militare.

 

 

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1943, il porto di Bari subito dopo gli scontri tra guastatori tedeschi e i militi
          italiani, da Storia Illustrata n° 157, dicembre 1970.

 

Ma chi era e quale crimine aveva commesso il generale Bellomo?[4] Ufficiale in servizio permanente effettivo proveniente dall’Accademia militare, Bellomo guadagna la sua prima medaglia d’argento nel 1915, sul Podgora, quando, capitano di artiglieria in servizio di stato maggiore, assume di propria iniziativa il comando di un gruppo di arditi incaricati di far saltare, con tubi di gelatina, i reticolati austriaci. La stessa determinazione e lo stesso ardimento Bellomo rivelerà ventotto anni dopo, all’indomani dell’8 settembre 1943, quando, ormai generale di divisione, si pone di propria iniziativa alla testa di un pugno di soldati ed impedisce che i tedeschi facciano saltare le installazioni del porto di Bari. In quella città, peraltro, Bellomo non aveva incarichi operativi: era ispettore dei campi di concentramento e comandante dell’ex Milizia volontaria di sicurezza nazionale, che attendeva di essere definitivamente disciolta dopo i fatti del 25 luglio e la caduta del fascismo.[5] Per l’azione condotta nel porto di Bari, Bellomo sarà nominato, l’11 settembre 1943, comandante della piazza del capoluogo pugliese, con pieni poteri militari e civili, e guadagnerà la sua seconda medaglia d’argento (conferita “alla memoria” nel 1951). Ma quattro mesi dopo quell’azione Bellomo sarà arrestato dagli inglesi e finirà fucilato, a distanza di due anni dalla fiera opposizione opposta ai tedeschi, con l’accusa infamante di essere un criminale di guerra.

L’accusa che condusse Bellomo davanti al plotone di esecuzione nasceva da un episodio avvenuto nel novembre 1941, quando il generale aveva ordinato ai soldati sotto il suo comando di sparare contro due prigionieri inglesi che stavano tentando di evadere dal campo di concentramento di Torre Tresca, vicino Bari: dei due prigionieri, uno morì in seguito alle ferite riportate, mentre l’altro si ristabilì in poco tempo. Va detto che il comportamento di Bellomo, conforme ai regolamenti militari ed alla Convenzione dell’Aja, formò oggetto di due distinte commissioni di inchiesta, una nominata dallo Stato Maggiore italiano, l’altra dalla Legazione svizzera a Roma per conto del Governo inglese e dalla Croce Rossa. Ebbene, le due commissioni ritennero che il comportamento di Bellomo fosse pienamente legittimo e lo scagionarono da ogni possibile accusa. E, infatti, quando gli anglo–americani sbarcarono in Italia, il nome di Bellomo non compariva nella lista dei soggetti ricercati per crimini di guerra (dove invece figuravano, tra gli altri, i nomi di Badoglio, di Graziani, di Roatta).[6] Vi fu aggiunto più tardi, in seguito ad una denuncia anonima: a questo riguardo, il generale Puntoni, primo aiutante di campo del Re, scrisse significativamente che «le vendette politiche continuano con l’appoggio degli alleati… in seguito ad una delazione è stato arrestato il generale Bellomo».[7] L’arresto avvenne nel gennaio 1944 e Bellomo dovette attendere un anno e mezzo per essere condotto innanzi ad una corte militare inglese: si trattava del primo processo celebrato in Europa contro un presunto criminale di guerra.

 

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    Il campo nº 75 per i prigionieri di guerra di Torre Tresca (Bari),
                     tra il 1941 ed il 1943. Foto H R Dixon

 

Il processo fu poco più di una farsa. Non furono ammesse alcune fondamentali testimonianze di difesa, non vennero reperiti i rapporti delle due precedenti inchieste che avevano scagionato Bellomo, non venne consentito all’imputato di scegliere un avvocato italiano di sua fiducia. Basti qui riportare il testo del telegramma inviato da S. Ray, un corrispondente di guerra inglese che seguiva il processo per un quotidiano nazionale, al deputato laburista Igor Thomas: «Sono estremamente turbato […] Ero presente a tutto il processo; non sono l’unico corrispondente britannico a pensare che il verdetto è contro il peso delle prove, che le capacità di accusa e difesa non erano eque, che un insufficiente peso è stato dato a chiare circostanze attenuanti ed al buon carattere del Generale. Se colpevole, Bellomo è un personaggio minore confronto agli ex fascisti con i quali stiamo trattando. Importante non è il nostro prestigio, ma il diritto di Bellomo di beneficiare di considerevoli dubbi che io credo esistano. Sarei grato se tu potessi fare qualcosa». Ma l’8 settembre 1945 arriva la risposta del Foreign Office alla richiesta di clemenza presentata dal parlamentare laburista: «I verbali del processo sono stati attentamente studiati […] e mostrano come il procedimento sia stato effettuato in maniera normale e completamente giusta. Il generale Bellomo è stato condannato per aver commesso un omicidio particolarmente vigliacco per il quale non possiamo trovare circostanze attenuanti. Siamo sicuri che lei potrà condividere il fatto che l’effetto, sull’opinione pubblica del paese, di un perdono ingiustificato di un criminale di guerra, sarebbe altamente indesiderato».[8]

A distanza di tanti anni non è facile arrivare ad una conclusione univoca, ma è probabile che Bellomo sia stato denunciato da qualcuno che non sapeva rassegnarsi alla popolarità ed al prestigio che il generale si era conquistato combattendo contro i tedeschi a Bari il 9 settembre 1943 e cioè proprio nel momento in cui l’intero esercito italiano si stava sbandando ed in cui moltissimi ufficiali, anche di grado elevato, stavano gettando l’uniforme alle ortiche. In altre parole, con il suo comportamento Bellomo dimostrò a quanti stavano scappando che la fuga non era l’unica scelta possibile. Ma, evidentemente, Bellomo si trovava nel momento sbagliato e nel posto sbagliato, perché era proprio in Puglia che si stavano rifugiando i vertici delle forze armate — nonché il Re ed il Capo del Governo — dopo la proclamazione dell’armistizio e l’abbandona precipitoso della capitale. In questa prospettiva è assai incisiva la testimonianza di un ex componente dell’Office of Strategic Service statunitense, Peter Tompkins, il quale, vent’anni dopo i fatti, nel 1966, scrisse: «… essendo l’unico generale italiano che di propria iniziativa combatté i tedeschi e mantenne la città di Bari fino all’arrivo degli Alleati […] (Bellomo, n.d.r.) rappresentava una minaccia per il re e per Badoglio, perché rivelava al mondo lo squallore del loro tradimento».[9]

È anche probabile che Badoglio ed i vertici delle forze armate italiane abbiano voluto offrire agli Alleati la testa di Bellomo su un piatto d’argento, nella speranza di evitare una Norimberga italiana sui crimini commessi in Africa e nei Balcani. Che è poi quello che realmente accadde: è certo, infatti, che i governi inglese e americano adottarono una politica di tolleranza nei confronti dei criminali di guerra italiani.[10] Basterà ricordare che, negli stessi giorni in cui respingeva la richiesta di clemenza per Bellomo presentata dal parlamentare laburista di cui si è detto poc’anzi, il Foreign Office, in un telegramma cifrato indirizzato all’ambasciatore inglese a Roma, faceva pressioni affinché quest’ultimo intervenisse con il Presidente del Consiglio Ferruccio Parri per evitare o per rimandare il processo contro Badoglio: «Dovrebbe cercare di portare all’attenzione dell’onorevole Parri, in maniera confidenziale e ufficiosa, il prezioso contributo che Badoglio ha fornito alla causa alleata, esprimere la speranza che questo contributo venga sottoposto alla attenzione della corte prima dell’udienza».[11]

 

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Castello di Nisida (Napoli) sull’omonimo isolotto, oggi penitenziario minorile:
     qui venne fucilato Bellomo l’11 settembre 1945 (Commons, CC-BY 2.0)

 

 

(Il Castello di Nisida (Napoli) sull’omonimo isolotto, oggi penitenziario minorile: qui venne fucilato Bellomo l’11 settembre 1945 (Commons, CC-BY 2.0).)
In ogni caso, Nicola Bellomo, condannato a morte per un crimine che non aveva commesso, rifiutò orgogliosamente di sottoscrivere la domanda di grazia e morì fucilato l’11 settembre 1945 nel carcere di Nisida. Diversamente, Rodolfo Graziani, inserito nella lista dei criminali di guerra dell’ONU, mai processato, morì nel 1955 nel suo letto dopo essere stato nominato presidente onorario del Movimento Sociale Italiano; Pietro Badoglio, inserito nella lista dei criminali di guerra dell’ONU, mai processato, morì nel 1956 nel suo letto e nel suo paese natale, Grazzano Monferrato, ribattezzato in suo onore Grazzano Badoglio; Mario Roatta, richiesto dalla Iugoslavia come criminale di guerra, mai processato in Italia né estradato, morì nel 1968 nel suo letto dopo aver pubblicato un famoso memoriale difensivo.[12] Sembrerà incredibile, ma, ad oggi, nessuno ha provveduto a riabilitare ufficialmente la memoria del generale di divisione Nicola Bellomo, croce al merito di guerra, cavaliere dell’Ordine militare di Savoia, due volte medaglia d’argento al valore militare.

Note

[1]Furono giustiziati Joachim von Ribbentrop, ministro degli affari esteri; Wilhelm Keitel, capo dell’Oberkommando der Wehrmacht (OKW, il comando supremo delle Forze armate); Ernst Kaltenbrunner, dal 1943 capo del Reichssicherheitshauptamt (RSHA, l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich) e della Geheime Staatpolizei (la famigerata Gestapo); Alfred Rosemberg, teorico dell’ideologia nazista; Hans Frank, governatore dei territori polacchi occupati; Wilhelm Frick, ministro degli interni, poi Reichsprotektor di Boemia e Moravia, infine direttore dell’Ufficio centrale dei territori occupati; Julius Streicher, direttore del settimanale antisemita Der Stürmer e Gauleiter (goverrnatore) della Franconia centrale; Fritz Sauckel, il maggiore responsabile dell’organizzazione del lavoro forzato; Alfred Jodl, capo di stato maggiore dell’OKW; Arthur Seyss–Inquart, cancelliere austriaco, poi Commissario del Reich per l’Olanda occupata e, per soli due giorni, Ministro degli esteri del Reich nell’effimero governo dell’ammiraglio Dönitz.↩
[2]Furono giustiziati i generali Kenji Doihara, ispettore generale dell’addestramento militare; Seishiro Itagaki, comandante dell’esercito imperiale in Corea; Hyotaro Kimura, comandante dell’esercito imperiale in Birmania; Iwane Matsui, comandante dell’esercito imperiale nella Cina centrale, poi Presidente della Società della Grande Asia Orientale; Akira Muto, capo dell’Ufficio affari militari del Ministero della guerra; Hideki Tojo, Capo di stato maggiore generale, ministro della guerra, ministro degli armamenti e Primo ministro dal 1941 al 1944; e l’ambasciatore Kōki Hirota, ministro degli affari esteri dal 1933 al 1938 e Primo ministro dal 1936 al 1937.↩
[3]Va ricordato anche, per completezza, che numerosi criminali di guerra tedeschi e giapponesi sfuggirono alle relative condanne, o non furono neppure incriminati, per esigenze politiche o per convenienze strategiche legate agli assetti post–bellici. Basti pensare ai componenti dell’unità militare giapponese per la ricerca batteriologica e chimica che condusse esperimenti su cavie umane nel territorio del Manciukuò (la famigerata “Unità 731”), cui il governo statunitense garantì l’immunità in cambio dei risultati delle ricerche da essi condotte. Ancora, ed emblematicamente per tutti gli altri casi, basti pensare al repentino cambiamento di casacca dello scienziato missilistico tedesco Wernher von Braun – l’inventore delle Vergeltungswaffer (le “armi della vendetta”), e cioè i razzi V1e V2, che solo in Inghilterra causarono circa 10.000 vittime civili – il quale da Sturmbannführer (maggiore) delle SS entrò a far parte dell’US Army e divenne, in seguito, direttore del centro di volo spaziale della NASA.↩
[4]La vicenda del generale Bellomo è ampiamente esaminata nei volumi di G. Di Giovanni, Bellomo un delitto di Stato(Palazzi, 1970) F. Bianchi, Il caso Bellomo (Mursia, 1995) e F. Pirro, Il generale Bellomo (Palomar, 2004) cui si rimanda per ulteriori approfondimenti.↩
[5]Ma non per questo Bellomo era rimasto con le mani in mano. Nel febbraio 1941, commandos inglesi vengono paracadutati in Basilicata con lo scopo di sabotare l’acquedotto pugliese, facendo saltare in aria il viadotto sul torrente Tragino nei pressi di Calitri (Operazione “Colossus”, la prima compiuta da truppe speciali inglesi nel corso della seconda guerra mondiale). Al termine della missione, conclusa con successo, tutti i commandos sono rintracciati e catturati dai reparti energicamente condotti dal generale Bellomo. Tra i commandos catturati figurava anche un antifascista italiano, Fortunato Picchi — in seguito fucilato a Roma come traditore — alla cui memoria sarà dedicato nel 1942 il primo dei volumi anglo-britannici di propaganda bellica pubblicati in lingua italiana ed intitolati “Edizioni del Pinguino”, che riprendevano i contenuti di alcune pubblicazioni della serie “Penguin Special” (gli autori del volume in questione, L’Italia di domani (1942), si celavano sotto lo pseudonimo Pentade).↩
[6]Cfr. La mancata estradizione e l’impunità dei presunti criminali di guerra italiani accusati per stragi in Africa e in Europa, in Crimini di Guerra <http://www.criminidiguerra.it.>↩
[7]Cfr. I. Palermo, Il caso Bellomo, in Storia Illustrata, 1970, n. 157, pag. 76 e ss., in particolare pag. 78.↩
[8]Cfr. La mancata estradizione e l’impunità dei presunti criminali di guerra italiani accusati per stragi in Africa e in Europa, in Crimini di Guerra <http://www.criminidiguerra.it.>↩
[9]Cfr. P. Tompkins, Italy Betrayed, Simon & Schuster, New York, 1966. Bellomo, comunque, non fu l’unico protagonista della resistenza militare italiana ai tedeschi dopo l’8 settembre. Altri generali italiani reagirono armi alla mano, tra cui Gioacchino Solinas, comandante della divisione Granatieri di Sardegna e tra i più strenui protagonisti della difesa di Roma (che tuttavia in seguito aderì alla Repubblica Sociale Italiana), Alfonso Cigala Fulgosi e Salvatore Pelligra, fucilati dai tedeschi a Signo, in Balcania, Antonio Gandin, fucilato a Cefalonia, e Maurizio Ferrante Gonzaga, ucciso ad Eboli.↩
[10]Le ragioni della politica anglo-americana, che risparmiò all’Italia un’esperienza simile a quella tedesca e giapponese, possono essere essenzialmente rinvenute nel fatto che il nostro Paese – considerato dagli Alleati il “ventre molle” dell’Asse – è stato il primo ad arrendersi e l’unico, tra le tre potenze dell’Asse, a passare dallo status di nemico a quello di “cobelligerante” nello sforzo globale inteso alla distruzione del nazi–fascismo. Una testimonianza della singolare condizione dell’Italia è facilmente rintracciabile nei prodotti della più grande industria americana, e cioè i film di Hollywood, che, anche prima dell’armistizio di Cassibile, tratteggiano i soldati italiani in termini stereotipati e farseschi (ma mai violenti o crudeli) e addirittura li rappresentano quali “amici” dei “nemici” americani, in quanto portatori di comuni valori di umanità e di moralità. Tenendo presente che gli Stati Uniti entrarono in guerra solo nel dicembre 1941 e che l’Italia si arrese appena 20 mesi dopo – motivo per cui i “Japa–Nazi” rimasero gli obiettivi unici, e privilegiati, dalla propaganda bellica statunitense – di tutti i principali film di guerra girati ad Hollywood tra il 1942 ed il 1943 (e cioè tra l’entrata nel conflitto degli Stati Uniti e l’armistizio di Cassibile), solo due ritraggono il soldato italiano: il primo, intitolato I cinque segreti del deserto (Five Graves to Cairo) di Billy Wilder (con Franchot Tone ed Eric von Stroheim) rappresenta un generale italiano bonario e canterino al seguito di Rommel; il secondo, intitolato Sahara di Zoltan Korda (con Humphrey Bogart), rappresenta un soldato italiano disgustato ed impaurito dalla crudeltà nazista che sacrifica la propria vita per salvare i suoi “nuovi” amici anglo–americani. Per approfondimenti sul cinema di propaganda bellica, si rimanda, nella vastissima bibliografia, a C.R. Koppes-G.D. Black, La guerra di Hollywood. Politica, interessi e pubblicità nei film della seconda guerra mondiale, Il Mandarino, 1988.↩
[11]Cfr. ancora La mancata estradizione e l’impunità dei presunti criminali di guerra italiani accusati per stragi in Africa e in Europa, in Crimini di Guerra <http://www.criminidiguerra.it.>↩
[12]Naturalmente in questa sede non è possibile menzionare né i criminali di guerra stranieri che commisero violenze e atrocità ai danni di italiani (ad esempio i “titini” che operarono sul fronte iugoslavo), né i criminali di guerra italiani che commisero violenze e atrocità ai danni di altri italiani (ad esempio nel corso della cosiddetta guerra civile).

Luca Marini

Professore di ruolo di diritto internazionale nell’Università di Roma “la Sapienza”, è autore di oltre 120 pubblicazioni scientifiche. La sua attività di ricerca riguarda principalmente il diritto dei conflitti armati, i diritti umani ed il biodiritto: in quest’ultimo ambito ha ricoperto numerosi incarichi, tra cui quello di Vice presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica della Presidenza del Consiglio dei Ministri. E’ stato inoltre coordinatore scientifico nazionale di PRIN ed è stato insignito dalla Commissione europea di una Cattedra Jean Monnet e di due Cattedre Jean Monnet “Ad Personam”. Qualche anno fa, convintosi anche della necessità di non sottrarre braccia all’agricoltura, ha rilevato una antica “masseria di pecore” e fa il contadino nel tempo libero….

 

 

 

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