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L’eutanasia di Fabo

L’eutanasia di Fabo

L’eutanasia di dj Fabo ha invaso le prime pagine dei giornali italiani, come sempre succede quando una persona riesce a porre fine fra mille difficoltà alla propria vita oltrepassando la soglia del suicidio, e per morire si affida ad un protocollo sanitario che nella sua forma più radicale, l’eutanasia attiva o suicidio assistito, esiste in soli quattro paesi europei, l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo e la Svizzera .

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Il clamore calerà rapidamente, come sempre succede in questi casi, e la sofferenza di un numero  indefinito ma certo molto alto di persone tornerà ad essere afona, perché della fine della vita non si può laicamente neppure parlare in Italia, se non per scherzo, e tutti coloro che se ne vorrebbero andare con dignità e decenza dovranno aspettare che la natura faccia il suo corso, consumate un po’ alla volta nel fisico e nel morale.

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I grandi giornali hanno regalato parole di comprensione e di rispetto a Fabiano Antoniani, hanno ricordato e riproposto il suo appello al Presidente della Repubblica per ottenere una morte dignitosa, che lo liberasse da un corpo condannato al buio e all’immobilità, e hanno stigmatizzato il Parlamento per la sua inconcludenza nell’approvazione delle norme che dovrebbero regolare il fine vita, come se tutto questo avesse qualcosa a che fare con il cuore del problema, che riguarda la possibilità o meno di rendere disponibile il diritto alla vita, oggi precluso alla discrezionalità e alla volontà di ogni singolo uomo e di ogni singola donna.

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Perché alla fine di questo si tratta, in Italia si può forse pensare di chiudere le flebo e di essere lasciati morire di fame e di sete, perché evidentemente il dolore è una variabile indipendente, ma non si può impunemente rinunciare alla sacralità della propria vita, che è concetto ben diverso dalla sacralità della vita, della quale peraltro si fa quotidianamente strame nei modi e nelle forme più disparate senza che la cosa desti scandalo alcuno.

 

Preservare la vita è certamente nell’interesse di ogni uomo, ed è anche nell’interesse della specie; per questo è giusto garantire le condizioni per la sua prosecuzione, ed è ancora più giusto, almeno nella maggior parte dei sistemi morali, attribuire alla vita una valore assoluto, al punto di sacrificargli quasi tutti gli altri interessi, perché diversamente verrebbe meno il senso della socialità. In questo senso, che non è affatto un senso religioso ed è abitualmente disatteso dagli stati, che infischiandosene della propria etica hanno sempre sacrificato con larghezza le vite degli uomini, si può parlare di sacralità della vita, ma dal punto di vista del singolo la vita personale è un bene fino a quando chi la vive la considera tale, e non può essere considerata espropriabile in nome di un interesse superiore, perché non esiste un interesse superiore astratto superiore a quello della singola vita. È un’ovvietà, gli antichi lo sapevano, ma 2.000 anni di monoteismo hanno espropriato gli uomini di questa basilare libertà.

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Se ci andiamo a leggere i pasdaran dell’integralismo cattolico nei giornali che non si vergognano di ospitarli (Paola Binetti, Eugenia Roccella, Gian Luigi Gigli, Mario Adinolfi , per citare i più attivi e rappresentativi), ci si imbatte in un coro di indecenti e feroci banalità, esclusivamente finalizzate ad alzare il prezzo di ogni possibile e improbabile norma sul fine vita, sino a svuotarla di qualsiasi reale contenuto; il più efficace di tutti mi pare il giurista Alberto Gambino, presidente dell’associazione Scienza & Vita, che onestamente non so che cosa sia, che ritiene troppo permissiva la legge attualmente, si fa per dire, in discussione, e paventa che, ove approvata, “… farebbe passare l’idea molto insidiosa che di fronte a una disabilità complessa si possa legittimare la richiesta e la pratica eutanasica. Verrebbe insomma trasposta in una legge la convinzione, inaccettabile, che il valore e la dignità della vita in queste condizioni vengano meno”.

 

A parte lo stile irriguardoso nei confronti di un morto, e del coraggio con il quale ha affrontato la fine, viene spontaneo chiedersi quali sarebbero le condizioni nelle quali “viene meno il valore e la dignità della vita”, e soprattutto chi lo decide? Risposta fin troppo ovvia, la dignità della vita, degli altri, non viene meno in nessuna condizione, e questo lo dovrebbe decidere lo stato etico che popola i loro sogni, caricatura di uno stato pavido, bacchettone, servile e senza principi che avvelena l’esistenza di tutti coloro che affermano le idee di libertà e di laicità.

 

Proviamo ad invertire i termini del ragionamento. La vita, non solo nella realtà, come effettivamente accade ogni volta che un uomo fisicamente in grado di farlo decide di morire, ma anche nei principi, è e deve essere nella piena disponibilità di chi la vive, è, per ogni singolo uomo, il più disponibile dei beni, e decidere di rinunciarvi è la suprema espressione della libertà umana, perché è la libertà del singolo di fronte al molteplice. Il principio è blasfemo nei confronti  di una religione? Contrasta con una visione del mondo? Se ne dovranno fare una ragione, a loro l’onere della prova contraria, e dimostrare che la pietas sta nel rendere infinite le sofferenze indicibili, e non nel suo contrario, sul piano squisitamente umano mi pare una gara veramente in salita.

 

Cominciamo ad abituarci, il diritto all’eutanasia sarà una battaglia del futuro, la scienza e la medicina sono già oggi capaci di costruire e garantire vite senza dignità, piene di dolore morale e sofferenza fisica, che possono essere sì un diritto, per chi lo vuole, ma non devono diventare un obbligo. Saranno sempre di più gli uomini che dovranno e vorranno scegliere, e nessuno deve poter scegliere per loro: di fronte alla morte si fa quel che si può, ma qualche volta bisognerà pur fare quello che si deve, in fondo lo facciamo anche per il gatto di casa.

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