le scienze

Noi, il cibo, l’economia, l’etica, la politica, e l’ambiente

L’esistenza di una crisi di sostenibilità del modello agricolo-alimentare occidentale, contemporanea a uno stato di grave crisi economica generale, ha indotto, e spesso costretto molte persone a modificare le proprie abitudini alimentari, imponendo delle rinunce e in alcuni un cambiamento notevole del modo di nutrirsi.

Abbiamo chiesto ai nostri bloggers di rispondere alla domanda:

Nelle vostre scelte alimentari, negli acquisti di prodotti destinati al nutrimento e al piacere gastronomico fate attenzione ad aspetti di ordine economico, etico, politico, ambientalista, animalista che in passato non consideravate?

Ecco i loro pensieri. E i vostri?

 

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Praticare l’etica del cibo? Certamente, come per tutte le nostre scelte di vita.
Dovremmo…
Perché l’atteggiamento verso il cibo dovrebbe essere diverso? Diverso dal nostro comportamento sociale, lavorativo, sentimentale?
La consapevolezza della complessità e delle implicazioni che questo tema comporta – non mi pare necessario elencare gli innumerevoli ambiti che ne vengono investiti, tanto li sapete…- determina le nostre scelte responsabili.
Evitare lo spreco, acquistare prodotti del territorio e di stagione, nel rispetto della compatibilità con l’ambiente, degli animali destinati al nostro nutrimento adeguatamente allevati. In una visione eticamente responsabile al di là di quella strettamente salutistica di benessere per il nostro corpo ed edonistica di piacere gastronomico.
Dovremmo. Tutti. Anche e soprattutto coloro che sono gli attori principali della catena produttiva alimentare. Ma non è così.
Basterebbe alla soluzione della equa distribuzione delle risorse alimentari nel mondo la nostra “etica del cibo” consapevolmente praticata? O, piuttosto, il tema è, ancora e sempre, un tema politico?
Esiste una “politica del cibo” e quanto può essere risolutiva in relazione alla nostra visione etica dei nostri comportamenti alimentari?

Confesso: sono diventato sensibile (molto sensibile) a questo tema solo nella avanzata maturità, da una ventina di anni. Ma, purtroppo, non posso negare di cadere vittima dell’aspetto “consolatorio” che il cibo alcune volte rappresenta [come altri elementi che il nostro (immeritato?) benessere ci mette a disposizione].
Dopo una giornata negativa, un periodo intriso di contrarietà e malessere, ebbene quella sera nel piatto non ci sono le bietole lesse a km 0.

 


 

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Canadair

 

Il paese dove vivo è uno dei più grandi esportatori di prodotti agricoli al mondo, eppure la maggior parte di quello che mangiamo è importato. Produciamo in abbondanza cereali, carne, patate, semi oleosi, legumi ma, dato il clima, non abbastanza frutta e verdure. Al punto di doverne importare in grandi quantità. Abbiamo il miglior grano, ma non sappiamo fare pasta decente. Olio di semi c’è n’è in abbondanza, ma non olio d’oliva. Abbiamo viti ma produciamo vino mediocre che, per essere passabile, deve essere tagliato con quello del Sudamerica. In compenso abbiamo ottima birra e, con la recente comparsa di tante imprese artigianali, una ampia scelta e qualità. Molto popolare in questo paese è sempre stata la grigliata di carne, fatta col ‘barbeque’, presente in tutti i giardini di casa. Il consumo di carne si è negli anni comunque ridotto e si prevede che continui a scendere.

I nostri supermercati offrono durante l’anno sempre gli stessi prodotti. L’unica differenza tra le stagioni è la provenienza delle merci: USA nella bella stagione e paesi tropicali o Sudamerica in inverno. La mia dieta giornaliera è, come quella della stragrande maggioranza degli italocanadesi, basata su quella mediterranea: pasta, verdure condite con olio crudo, un pò di pane, di frutta e pesce più che carne, innaffiati da un pò  di vino. Quasi tutto, aimè, rigorosamente importato. Come la pasta, prodotta in Italia con grano duro canadese, con doppio ringraziamento dalle imprese di trasporto. Bisogna però dire che recentemente sono cominciati a sorgere all’interno della nostra comunità piccoli produttori di pasta fresca e di altri preparati freschi o congelati, pronti alla cottura. Prodotti artigianali neanche troppo costosi, di qualità e ottimo sapore.

Ma se in casa ci dobbiamo adattare alla situazione, ci rifacciamo ampiamente quando andiamo a mangiar fuori. Assaporando spesso la cucina degli altri paesi del mondo nei tantissimi ristoranti che le varie comunità etniche (più di 200 a Toronto) gestiscono. Spesso di ottima qualità e con prezzi ragionevoli. Amo sopratutto la cucina orientale, Cina, Tailandia, Corea, Vietnam, India. Meno la giapponese, troppo basata sul pesce e poco variegata, mentre le altre sono tutte basate su una gran varietà di vegetali e verdure, preparate in una infinità di maniere. Accompagnata da poca carne e poco pesce, alla maniera di una volta, quando in tutte le comunità rurali del mondo gli animali erano apprezzati più da vivi che da carne da macello.

 


 

 

Franz

 

Il mio rapporto con il cibo non è cambiato molto nel corso degli anni. Ero e rimango un cultore della cosiddetta ‘cucina povera’ (pasta al sugo, pasta e fagioli, zerri e sardine, tutto ciò che prevede nelle ricette le patate…). Durante la mia infanzia il fattore economico giocava forse un qualche ruolo (anche se non mi pare che nei negozi di allora ci fosse una gran scelta!) oggi certamente no. Il fattore politico è un po’ cambiato negli anni: se prima cercavo di boicottare i prodotti di certi paesi (per esempio ricordo il Sudafrica) oggi mi sono reso conto che dovrei boicottare quasi tutte le nazioni. Cerco però di comprare, quando è possibile i ‘prodotti solidali’. Sono rimasto sostanzialmente indifferente ai prodotti biologici ma due cose le faccio: diffido dei prodotti agricoli della Terra dei fuochi e, per le uova, sto attento a come vengono allevate le galline. Per concludere, un’osservazione più generale: gli anni della crisi hanno portato, qui in Germania, ad un aumento enorme dei profitti dei cosiddetti Hard Discount: i reparti alimentari erano, e sono ancora oggi, intasati di acquirenti.

 


 

 

Genesis

 

Expo 2015 sarà una Mega fiera dove i paesi partecipanti metteranno in mostra le tecnologie, l’innovazione, le tradizioni, la creatività del cibo. Un’ottima entrata di danaro sonante per l’Italia.

Noi europei siamo nati, chi più, chi meno, in una regione fortunata del mondo: questa fortuna deriva dalla nostra storia di invasioni, soprusi, colonie e distruzione del pianeta blu.

Nel mondo, mediamente, ottocentocinque milioni di persone soffrono la fame, cioè non hanno abbastanza per vivere una vita degna di tal nome. Spesso la mancanza di micronutrienti espone le persone a malattie sempre più atroci e devastanti. Settecentoottantatré milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile e due miliardi e mezzo di persone non hanno servizi igenico-sanitari. Ogni diciassette secondi muore un bambino per le conseguenze derivanti dalla mancanza dell’acqua pulita.

Noi occidentali ci ammaliamo e moriamo per l’opulenza che distrugge il nostro fisico. Spendiamo miliardi per smaltire quel sovrappiù che aumenta le nostre pance. Buttiamo il quaranta percento delle risorse. Multiamo e smaltiamo prodotti che le persone di cui sopra vedrebbero come la manna nel deserto.

Sì, Expo 2015…un pugno in pieno volto a chi soffre!

 


 

 

Gennaro Olivieri

 

I cambiamenti che ho apportato al mio nel modo di alimentarmi negli ultimi anni sono andati nella direzione di aiutare, nel mio piccolo, i produttori locali, sopratutto gli agricoltori. Cerco di approvvigionarmi per quanto possibile dal coltivatore, altrimenti da negozianti degni di fede e consapevoli della provenienza dei prodotti che mettono in vendita. L’agricoltura e l’allevamento italiani sono da anni in enorme sofferenza, strangolati dall’industria di trasformazione e dalle grandi imprese di commercio e distribuzione, che impongono i prezzi che vogliono e ricorrono sempre più all’importazione dall’estero di prodotti agricoli di basso costo e di qualità scadente. Ho ad esempio la possibilità di approvvigionarmi direttamente dai risicoltori, vivendo in una zona di grande produzione risicola. In questo settore (ma il discorso vale più o meno per qualunque prodotto della terra) è utile fare un giro per le campagne: nel caso delle risaie, il primo segno della qualità e della sanità del riso coltivato è l’abbondanza di fauna nei campi. Se nelle risaie abbondano topi d’acqua, rettili, rane, aironi e altri uccelli pescatori, si può avere la quasi certezza che nella coltivazione non vengono usati pesticidi o fanghi industriali. E se posso dare un consiglio, siate molto scettici sulla provenienza dei risi delle grandi marche (quelle più pubblicizzate in tv) anche se dichiarata italiana, mentre sui derivati del riso , che ultimamente stanno avendo una certa diffusione commerciale (pasta di riso, gallette di riso, olio di riso), si può essere assolutamente certi che NON si tratta di prodotti fatti con riso italiano.

 


 

 

Jane

 

Mi appare più interessante, piuttosto che delle mie, parlare delle abitudini alimentari di coloro che per motivi di lavoro sono i “miei” utenti: i bambini delle scuole della città di Bologna (nidi, materne, elementari). Son tutti concordi nel ritenere che la crisi economica ha peggiorato, nelle famiglie italiane, la qualità dei cibi da destinare all’infanzia: il junk food costa meno, il baby food troppo, il pesce molto, etc. . Ciò non è accaduto ai bimbi nella nostra città. Perché vige da anni un modello di interazione pubblico-cittadini che regge alla prova dell’abbassamento delle capacità di acquisto: incontri serali con le famiglie, percorsi educativi, comitati di genitori sempre presenti a mensa, continuo aggiornamento delle linee nutrizionali. Insomma laddove i costi aumentano viene in aiuto il modello e ciò ha portato, all’opposto del trend nazionale, a un aumento considerevole dei consumi di verdura e frutta nella dieta dei bambini, dietro esplicita richiesta delle famiglie, con un più di circa il 10% di diete vegetariane negli ultimi 5 anni, ricche di legumi, uova e verdure.  A fronte del contenimento della spesa pubblica non è diminuita quella relativa al cibo da destinare ai nostri bambini. Ma è aumentata la qualità. Almeno a scuola.

 


 

 

Kokab

 

Apprezzo la buona tavola, il buon vino e i liquori di pregio, questi ultimi praticamente inesistenti nella categoria del km 0, e se presto volentieri attenzione all’etica del cibo quando non mi costa particolari rinunce, nel contempo ho sempre evitato di nutrirmi in modo triste per essere eticamente corretto; del resto come rifiutare la chianina in val di Chiana o il tortellino a Bologna, e come rinunciare nel contempo a questi prodotti quando non ci si trova in loco?
Nello stesso modo rifuggo dal cibo inteso come puro nutrimento, che privilegia praticità e rapidità a scapito del piacere e della qualità, e punirei con pene corporali coloro che associano l’hamburgher e le patatine fritte alla coca cola.
Oggi il cibo costa relativamente poco in occidente, anche perché ne esiste una grande abbondanza, ma è cibo di qualità medio/bassa che risponde a logiche di mercato, e non ha nulla a che spartire con l’etica del nutrimento e con la qualità della vita: se posso banalizzare la cosa con un esempio, a me sembra che il pollo di allevamento abbia con il pollo ruspante lo stesso rapporto che l’economia finanziaria ha con l’economia reale, intesa come produzione di beni e servizi che accrescono il benessere delle persone.
Sempre semplificando, credo che se vogliamo accrescere il tasso etico del concetto di nutrimento e del cibo che è necessario, oltre che della ritualità che lo circonda, dobbiamo sapere che dobbiamo governare il processo e staccarlo, almeno un po’, dalla logica del profitto: i comportamenti individuali virtuosi mi sembrano socialmente del tutto velleitari e insignificanti, per cui vedo molto complicato arrivare al risultato che vorrei, ossia a quella che personalmente considero la soluzione del problema.

 


 

 

Luistella

 

In un’epoca in cui le multinazionali impongono agli agricoltori le loro semenze e i loro pesticidi, che rendono sempre più resistenti le piante infestanti, in cui non si dà il tempo alla terra di riposarsi e ad alternare diversi tipi di colture, occorre, oltre a prendere coscienza del problema, sapersi arrangiare e cercare nel proprio piccolo, di provvedere alle proprie necessità alimentari con un minimo di oculatezza. Anche se la cosa è difficile.
Credo che l’Expo possa servire a cambiare le situazioni, a cambiare le mentalità, a far conoscere le produzioni e le cucine dei paesi del mondo, ad avvicinare i popoli. Contro le multinazionali, e le loro imposizioni, credo che sia più ardua la battaglia, o forse impossibile. Anche se le cose stanno lentamente cambiando. Vedremo.
Intanto incominciamo a non fare gli sprechi. Non sopporto,a livello epidermico, che si sprechi tanta acqua per lavare un cespo di insalata. Basta metterla un po’ a bagno, poi tirarla su, versare l’acqua alle piante (che a volte si sporgono il più possibile in avanti per dirci” dalla a me l’acqua”!), rimettere l’insalata a bagno e ripetere l’operazione. Non sopporto i pomodori a gennaio nei supermercati e i limoni che sono partiti dall’Argentina, per arrivare in Italia.
Da anni non mangio carne di agnello, capretto, non so cosa sia il tonno rosso. Vorrei essere vegetariana ma non ci riesco, per lo meno cerco di limitare il più possibile il consumo della carne. Non voglio cibarmi di cuccioli , o di pesci che “sono di moda” e che finiscono sulle tavole, a rischio di estinzione e di squilibrio della catena alimentare .
C’è un bel raccontino di Andrea Camilleri nel libro “ Le nuove ricette del cuore” , in cui personaggi famosi hanno raccontato la loro ricetta del cuore. Camilleri narra che in tempo di guerra, erano in una casa di campagna dove la nonna cucinava per nove persone. Pur essendo una famiglia benestante, erano comunque soggetti a restrizioni alimentari a causa della guerra. La nonna ogni sera preparava sempre verdura. Ad una protesta del gruppo che si rifiutava di continuare a mangiare verdura, la nonna escogitò un piatto in cui “la capuccina veniva ad interagire con la scarola,la lattuga con la bieda, l’indivia cruda con il cavolfiore spezzettato, il radicchio con l’indivia cotta” Tutto ciò sopra un piatto con gallette, Aveva “decorato la torta con una corona di fette di arance … una manciata di capperi era stata lanciata qua e là “, e aggiunto un po’ di alici e uova sode a fettine. Il piatto, molto gradito, venne chiamato “Munnizza” e a detta di Camilleri, è diventato un piatto tradizionale della sua famiglia.
Per evitare gli sprechi alimentari, dovremmo fare anche noi la “Munnizza”, con ciò che la nostra latitudine ci permette di avere a disposizione. E chissà che non si ottenga lo stesso risultato della nonna di Camilleri!

 


 

 

M.Ludi

 

Inizio anni ’80, poco prima di Pasqua; come altre volte vado a comperare l’agnello dal pastore, in montagna, dove lo comperavamo ogni anno, e come ogni anno mi aspettavo il solito rituale: prezzo già pattuito, la carne già incartata, pagavo e tornavo a casa. Quell’anno non fu così.
Quando arrivai, l’agnello stava ancora nella stalla e dovetti assistere a tutta la “procedura”; quell’uomo aveva un rituale che non prevedeva ne errori ne commozione: gesti misurati, precisi, terribilmente lenti per me che assistevo.
Ci sono due modi di affrontare quelle situazioni: inorridire e scappare, oppure restare lì e cercare una morale (nel senso etimologico del sostantivo). Fu ciò che feci, ma mentre ripercorrevo indietro la strada, scendendo lungo i tornanti, in mezzo a quei prati dove pecore e mucche pascolavano, con quel corpo ancora caldo in macchina, facevo fatica a razionalizzare ciò a cui avevo assistito.
Alcuni anni più tardi mi capitò di visitare una stalla dove si trovavano molte mucche che producevano latte per i caseifici del modenese: animali deformi, ammassati l’uno accanto all’altro dalla mattina alla sera, dediti solo a mangiare e produrre latte, mai lasciati pascolare all’aperto: una sorta di “catena di montaggio” del latte.
Nonostante questi due episodi “toccanti” non ho smesso di mangiare carne (anche se ne consumo molta meno di prima) e formaggio, e di morali ne ho razionalizzate tante ma, purtroppo, senza una sintesi. Anche se ammiro chi fa scelte drastiche e non mangia più carne, mi accontenterei di vedere gli animali al pascolo e non chiusi nelle stalle come nei lager.
Chissà se la crisi economica, colpendo il consumismo fine a se stesso, non finisca anche per restituire una dimensione umana al nostro rapporto con ciò che mangiamo: Fabrizio De Andrè ci ha ricordato in una sua celebre canzone che “dal letame, nascono i fior”.

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1 comment

  1. Tigra 8 aprile, 2015 at 10:54

    Leggendo gli interventi verrebbe da dire che gli unici due che presentano dei modelli di sostenibilità virtuosa, quelli di Jane e Luistella, sono riferiti a casi marginali e non rappresentativi.
    Credo sia un dato che riflette la realtà, e la realtà ci dice che una cosa fondamentale come il cibo, il più primario dei bisogni, ha perso centralità nella nostra vita, ed è stato completamente delegato ad altri.
    Sembra sia stata una delega in bianco, e oggi gli effetti sono fuori controllo, al punto che sembra anche impossibile invertire la tendenza, per l’enormità degli interessi consolidati che sono in gioco: per capirci, mi sembra ci sia una contraddizione insanabile fra una corretta educazione alimentare che può avvenire nella scuola, e il bancone del supermercato.
    Non so se è mai stata tentata la riconversione industriale che sarebbe necessaria per risolvere quel contrasto.

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