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Oscar Luigi Scalfaro, un Presidente eletto sulle macerie

Oscar Luigi Scalfaro, un Presidente eletto sulle macerie

Il maggio del 1992 è il mese più nero di un anno orribile. Il Paese è frastornato dall’inchiesta Mani pulite del pool di Milano. L’endemica costruzione del sistema politico italiano è sotto gli occhi di tutti. Il re è nudo. I partiti vivono le imminenti elezioni presidenziali in un clima surreale, fra avvisi di garanzia, inchieste e la diffusa sensazione che tutto stia per crollare. Alle metaforiche bombe giudiziarie se ne aggiunge un’altra, drammaticamente reale, sull’autostrada Palermo-Capaci.

 

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Oscar luigi Scalfaro, Presidente dal 1992 al 1999.

 

Cosa Nostra uccide così, all’uscita da una galleria dell’A29 il giudice Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini della scorta. La criminalità organizzata fiuta gli scricchiolii delle istituzioni e sceglie un momento speciale per farsi sentire. L’esecutore della strage, il pentito Giovanni Brusca, sosterrà in seguito che l’attentato aveva anche un forte scopo politico: bloccare la probabile elezione di Giulio Andreotti al Quirinale. “Ci aveva tradito, non facendo niente per abolire il carcere duro”, racconta il killer di Capaci, soffermandosi sui duraturi rapporti fra la mafia e il “divo”. Relazioni su cui la magistratura ha indagato a lungo, giungendo a conclusioni che non sgombrano i dubbi dell’opinione pubblica.

 

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 La strage di Capaci del 23 maggio ’92.

 

In ogni caso la mafia riesce nel suo obiettivo. Andreotti è fuori dai giochi. L’altro candidato democristiano, Arnaldo Forlani, non riscuote entusiasmo. A giocare in suo sfavore sono le voci riguardo a un suo diretto coinvolgimento nel sistema di corruzione scoperchiato dai giudici milanesi. Rumors che si riveleranno fondati. Occorre quindi affidarsi a una figura di garanzia. E si pensa così al presidente della Camera. Un politico che non ha mai mancato una legislatura.

Montanelli scrive: “I 700 chili di tritolo di Capaci hanno issato Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale più dei mille elettori”. Difficile dargli torto. Il Presidente proclamato sulle macerie è un servitore dello Stato esemplare. Metà piemontese, metà calabrese, ex magistrato, ha incentrato la carriera politica sulla trasmissione dei valori cattolici. Membro dell’Azione cattolica, è da sempre uno degli uomini più a destra all’interno del partito. Ma nei sette anni al Colle si trasforma in un baluardo della sinistra per i difficili rapporti con Silvio Berlusconi, imprenditore che all’alba della Seconda Repubblica porta il centrodestra al governo. Ma prima di parlare di nuove ere, è utile ricordare come tramonta la Prima Repubblica.

Il Paese vive una delle più gravi crisi finanziarie del Dopoguerra. È una fase in cui si naviga a vista. Le monetine tirate contro Craxi dalla folla assiepata fuori dall’hotel Raphael sono il fotogramma che chiude un’epoca. La manovra “lacrime e sangue” di Giuliano Amato, con lo straordinario prelievo sui depositi bancari, va a riprendersi con gli interessi gli spiccioli lanciati contro la classe dirigente. È il sacrificio necessario per restare in Europa.

Scalfaro si fa affiancare da Amato e Ciampi, ex Governatore della Banca d’Italia, al timone di un’Italia pericolosamente vicina agli scogli. L’ex numero 1 di Bankitalia, guidando un governo tecnico, riesce nel miracolo di risanare i conti. Sul fronte giudiziario, i giudici milanesi non placano la loro furia. E la politica risponde in modo meschino. Scalfaro rifiuta di firmare il decreto Conso che depenalizza il finanziamento illecito ai partiti e mira a togliere l’inchiesta dalle aule milanesi. Un maldestro tentativo di lavare i panni sporchi in una domestica commissione parlamentare ad hoc.

 

 

Anche il capo dello Stato viene toccato da guai giudiziari per una vicenda legata a fondi sottratti al Sisde nel periodo in cui era ministro degli Interni. Le accuse montano e il Presidente opta per una teatrale risposta pubblica. Il messaggio televisivo è perentorio. Il suo “Io non ci sto” risuona nelle case degli italiani. È il 3 novembre del 1993 e pur senza chiarire che fine avessero fatto quei soldi, Scalfaro offre l’immagine di un leader che non tollera accuse infamanti. Poco dopo scioglie le camere.

La nuova repubblica nasce il 27 marzo del ’94. E comincia subito con una sorpresa. La sinistra postcomunista, la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, s’infrange contro il neonato movimento di Silvio Berlusconi, che sfrutta al meglio le alleanze con la Lega al nord e con Alleanza Nazionale al sud. Una vittoria figlia di una campagna elettorale martellante, ma anche di una lucida lettura della nuova legge elettorale che prevede l’assegnazione del 75% dei seggi con un sistema maggioritario, il cosiddetto “Mattarellum”, dal nome del suo inventore Sergio Mattarella.

 

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  Scalfaro assegna l’incarico a Berlusconi. È il 1994.

 

È difficile ipotizzare due persone più diverse fra loro di Scalfaro e Berlusconi. Il primo è un politico navigato, cattolico ai limiti del bigotto. L’altro è l’uomo che incarna il nuovo sogno italiano, un marziano sceso a farsi beffa della politica tradizionale. Per proteggere inevitabilmente il proprio impero commerciale. Si scontrano su tutto, dalle nomine dei ministri agli atteggiamenti pubblici. Scalfaro invia a Berlusconi un decalogo del buon governo. Ma non serve, perché in otto mesi, il governo di Forza Italia si sgretola.

Il capo dello Stato si affida a un nuovo governo tecnico guidato da Lamberto Dini. Un esecutivo totalmente privo di esponenti politici. È la versione moderna dei vecchi “governi del Presidente”. I giornali parlano di “ribaltone”, perché la maggioranza a sostegno di Dini è formata dai partiti sconfitti alle elezioni. Più la Lega, in contrasto aperto con Forza Italia. Scalfaro non scioglie le camere. Prima serve una legge sulla par condicio che limiti il potere mediatico di Berlusconi. Un provvedimento che arriva nel 1995. Nella successiva tornata elettorale, Romano Prodi porta al successo una variegata coalizione di centrosinistra. Ma la stella del professore bolognese si spegne in fretta.

 

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Il giuramento del governo D’Alema nell’autunno del 1998.

 

La Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali auspicata da Scalfaro di blocca in Parlamento. E il governo Prodi è assassinato dal fuoco amico del compagno di coalizione Fausto Bertinotti. Rifondazione comunista toglie la fiducia e il Presidente nomina Massimo D’Alema. È il primo ex membro del Pci ad arrivare a Palazzo Chigi.

La parabola al Quirinale di Scalfaro si esaurisce, ma la guerra con Berlusconi prosegue, Nel 2006, l’ex Presidente capeggia il movimento referendario contro la riforma costituzionale del governo di centrodestra. E riesce nell’impresa. L’ultima della sua lunga carriera politica.

 

La serie: Tutti gli uomini del Quirinale

 

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1 comment

  1. Tigra 23 maggio, 2016 at 09:53

    Mi sembra un ritratto convincente, bella l’immagine di Scalfaro che da uomo di destra si trasforma in uomo di sinistra; poichè lui non è cambiato molto, bisogna forse concludere che sono stati i mutamenti della società e del sistema politico a determinare la nuova collocazione.
    A mio parere è riuscito nel capolavoro di azzoppare Berlusconi senza uscire dal ruolo e senza azzoppare la democrazia.

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