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Perché la sinistra deve cercare di perdere bene

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A otto mesi dalle elezioni politiche, e a sette dalle prossime elezioni europee, i sondaggi e i commentatori sono concordi nel prevedere un nuovo trionfo della destra in Italia, e un ulteriore arretramento della sinistra, che rischia di non aver ancora raggiunto il suo minimo storico con il risultato rovinoso del 2018.

Io credo che queste previsioni siano del tutto fondate e che l’inerzia delle ultime elezioni  sia tale da impedire qualsiasi inversione di tendenza, quali che possano essere, di qui al voto, le proposte o gli errori dei due schieramenti. Curiosamente, in questa fase di campagna elettorale strisciante e permanente la destra e la sinistra stanno ridefinendo la loro identità e mi pare che ben poche altre volte in passato sia siano trovate in una condizione così singolarmente asimmetrica.

La sinistra l’identità l’ha evidentemente perduta, puntando su una terza via che era fuori tempo massimo e non aveva più alcuna capacità di attrazione presso gli elettori; in questa operazione ha anche perso il contatto con la sua base tradizionale, quella dei lavoratori dipendenti, che per un verso sono di molto diminuiti, e per un altro hanno smesso di votarla, ritenendola ormai incapace di rappresentare le categorie di cittadini più povere e meno garantite. Giusta o sbagliata che sia, questa valutazione degli elettori ha ormai prodotto un effetto catastrofico per la sinistra, che viene oggi percepita come uno schieramento elitario, minoritario e corporativo, portatore di privilegi particolari e non di interessi generali, asservita a quell’Europa tecnocratica e finanziaria a cui vengono attribuite le principali responsabilità dell’impoverimento e del declino.

La destra invece l’identità ha saputo ricostruirsela, abbandonando quella classicamente e fintamente liberista che aveva caratterizzato il periodo berlusconiano, per approdare ad una nuova dimensione compiutamente populista, non solo e non tanto sul piano della ricerca del consenso, ma soprattutto sul piano della proposta politica “popolare” e delle fasce sociali che è stata capace di coinvolgere. Certo, dopo i disastri del suo ultimo governo nel quale aveva portato il paese sull’orlo del default, la destra ha potuto beneficiare del comodo fortino dell’opposizione e della rendita che ciò assicura a chi lo presidia nei periodi di crisi più acuta. Ad altri è toccato il peso del governo nel momento  più difficile, e ciò le ha consentito di far leva sullo spaesamento generale della società per ricostruire il suo consenso e allargarlo oltre i suoi confini fisiologici, già strutturalmente maggioritari.

La destra italiana si è trovata al posto giusto nel momento giusto, ma sarebbe ingeneroso non riconoscerle la capacità e la spregiudicatezza di cogliere l’occasione che ha avuto, mentre la sinistra, sia pure in una posizione più scomoda, sprecava la sua. Certo, il debito pubblico italiano e il sistema paese che l’ha determinato, che congiuntamente hanno reso impossibile per tutti un governo ad un tempo equo ed efficace, è figlio di tutti gli esecutivi degli ultimi trent’anni e di tutti i loro elettori, ma non si può negare che neppure il più imbarazzante Berlusconi abbia mai dovuto affrontare le elezioni con il carico di impopolarità che gravava sul PD il 4 marzo scorso: difficile credere che fosse tutto merito di Salvini e Di Maio, e che la sinistra di governo non potesse fare di meglio nella scorsa legislatura, per evitare questa condizione, sia sul piano del metodo che su quello del merito.

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Comunque ora è tardi per pentirsi. Nei fatti la destra, complice anche la congiuntura internazionale, è diventata popolare come una volta lo era la sinistra; nazionale, come la sinistra – pur essendolo quasi sempre stata – non è mai stata percepita; e soprattutto compiutamente sovranista perché, come in tutta Europa, ha avuto buon gioco nell’inchiodare l’Unione ai suoi errori e ai suoi ritardi – come se fosse l’unica ad averne commesso di imperdonabili –  salvaguardando con ciò il proprio inesistente candore e la ruffiana innocenza dei singoli paesi.

Oggi quella della destra è un’identità politica fortissima, in Italia più che altrove, e lo sarebbe anche se la sinistra avesse metabolizzato la sconfitta del 4 marzo e iniziato un doloroso processo di ricostruzione. Niente di tutto ciò è accaduto, e ancora oggi il PD è  sospeso fra il Partito di Renzi, che crede di aver perso per via del fuoco amico – un’evidente sciocchezza – e quello di Zingaretti, che ammette gli errori, condividendone  interamente la responsabilità, ma non sa dire in che modo potranno essere corretti.

Nella sostanza, di identità non si vede l’ombra, nuova o vecchia che sia, e di proposte politiche se ne vedono anche meno, per cui credo che al prossimo giro non ci sarà partita: la destra vincerà a mani basse, portando con ogni probabilità la Lega ad essere il primo partito italiano, con il Movimento 5 Stelle qualche punto più sotto; politicamente un disastro epocale. Ovviamente non perché sono forze di destra, ma perché sono la destra più rozza e ignorante che si sia mai vista.

Eppure in questo asimmetrico confronto c’è una ragione, diversa dal puro istinto di sopravvivenza, che dovrebbe spingere la sinistra a cercare di perdere bene, facendo tutto quel che serve in materia di autocritica, azzeramento delle classi dirigenti ed elaborazione di una proposta politica credibile, per quanto tutto ciò possa essere doloroso e lacerante. Questo perché in politica c’è sempre un domani, e per brutto che  sia, se per esempio il domani sarà una lunga fase di declino, saranno comunque in gioco la misura e il tempo. Non sarà di poca importanza, per nessuno, alleggerirne il peso.

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In ogni caso, indipendentemente dal risultato effettivo della sinistra,  la destra italiana vincerà, contro la sinistra e contro l’Europa, e conta da ora su un risultato generale che possa incrinare, se non ribaltare, gli attuali rapporti di forza nel Parlamento europeo, per dare ancora più potere ai singoli stati nel governo dell’Unione, come se non ne avessero in realtà già abbastanza. Ciò dovrà consentire, secondo i leader e i popoli del populismo moderno, di recuperare la sovranità nazionale necessaria a respingere i vincoli che frenano lo sviluppo e il benessere. Con questa idea è stata marchiata a fuoco la nuova identità della destra e sarebbe un’idea straordinaria come l’uovo di Colombo, se non fosse un’idea paradossale. Perché quello che a destra si immaginano, non succederà.

Cosa vuol dire sovranismo, alla fine? Poter svalutare liberamente? Poter battere moneta senza freni? Poter gonfiare il debito in modo incontrollato? Se fosse così semplice lo farebbero tutti, lo avrebbe fatto persino Schäuble, non ci sarebbe mai stato un default e nessun paese avrebbe un problema al mondo. Ma non è così, meno che mai nel mondo globalizzato e multipolare, e in questo mondo per l’Europa lo è meno di tutti, poichè delle tre grandi potenze continentali è quella politicamente e militarmente più debole, soverchiata per dimensione e capacità decisionale dagli Stati Uniti e dalla Cina.

E poi, che Europa sarebbe quella dei popoli? Sarebbe la vecchia Europa del Mercato comune? Sarebbe un’Europa dove ciascuna banca nazionale applicherebbe il suo QE? E come sarebbero riequilibrati i ruoli e le relazioni? Ognuno col suo debito e la sua inflazione? Probabilmente sì, ma in questa nuova/vecchia Europa, senza più il collante di una moneta forte, ci sarebbero ancora le economie forti e le economie deboli, i debiti grandi e i debiti piccoli, e ciascuno conterebbe per il suo peso.

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Bene, il nostro peso è trascurabile, anche se siamo la terza economia del continente; è trascurabile per il nostro debito, per la nostra inefficienza, per il sistema industriale polverizzato e senza più grandi imprese in settori strategici, per il peso della burocrazia e dell’illegalità diffusa, per la povertà delle infrastrutture e per il declino della scuola, per la nostra atavica incapacità di comportarci come grande paese e per l’inaffidabilità che da ciò deriva. E per molti altri motivi che neppure vale la pena elencare. Per questo nell’Europa sovranista ci faranno meno sconti che in quella burocratica e finanziaria, contro la quale i popoli dell’Europa populista dirigono la rabbia e il rancore che sono maturati e poi esplosi negli anni della crisi.

Certo, l’Europa di oggi e di ieri è il nemico ideale, perché non è stata capace di combattere l’impoverimento e le diseguaglianze, e in diversi casi le ha aggravate; perché troppo forte sul piano tecnico e troppo debole sul piano politico, ma da qui a presupporre che l’Europa dei popoli sarà più democratica, più egualitaria, più giusta, più solidale, in una parola più ricca e più vicina ai cittadini di quella dei burocrati ci corre di mezzo il mare, e nessuno di quelli che scommette sull’Europa populista ha ancora spiegato come ciò potrà accadere. In compenso tutti quelli che hanno meno problemi di noi, quasi tutti a dire il vero, con il giovane sovranista Kurtz buon ultimo, hanno detto chiaro e tondo che non ci pensano neanche lontanamente a pagare i debiti di qualcun altro. I nostri in primo luogo.

Qui sta il paradosso della destra italiana e dei suoi elettori, nel credere che l’Europa sovranista allenterà il rigore invece che renderlo più stringente. Del resto, perché dovrebbe farlo, visto che gli altri paesi saranno reciprocamente sempre più dei concorrenti e sempre meno degli alleati? È per questa inconsapevolezza che il popolo italiano, come sempre immemore delle sue colpe oltre lo stretto recinto delle sue piccole identità e dei suoi particolari interessi, ha deciso, primo fra i grandi paesi, di affidare il governo a chi indica il nemico esterno da combattere: l’Europa, i tecnocrati, il rigore, la finanza e la sinistra che si è a loro asservita, contro i popoli e a favore delle interdipendenze che la globalizzazione ha reso più forti e strutturali.

Naturalmente ci sarà il risveglio, perché la globalizzazione sopravviverà all’Europa, quale che sia il suo destino, e la grande finanza continuerà ad esistere; esisteranno i debiti e i crediti, il rigore e lo spreco, il benessere e la povertà, e quando la destra avrà perso la sua battaglia ci saranno un conto economico e un conto politico da pagare. Per questo sarebbe utile che ci fosse un’opposizione capace di pensare a quel momento, anche in termini di prospettiva storica; perché se da un lato è vero che questa destra stracciona ci può portare solo al declino, è anche vero che dietro al suo successo ci sono colpe ataviche della sinistra, che ha contribuito per antica debolezza e pervicace miopia politica a costruire un paese per vecchi.

Oggi la destra ci dice che il paese è divorato dagli strozzini perché vent’anni di avanzo primario sono stati insufficienti ad impedire l’aumento del debito; ma in Europa solo la Grecia, oltre a noi, ha un debito insostenibile, e nessun altro paese ha mai avuto la necessità di simili avanzi. Bisognerà pur chiedersi prima o poi il motivo, perché delle due l’una: o si rimuovono le ragioni che hanno determinato questa situazione paradossale, oppure prima o poi il conto, in termini patrimoniali, dovrà essere pagato. E i patrimoni che lo pagheranno non saranno quelli di chi ha portato grandi ricchezze all’estero, ma di coloro che si sono assicurati un modesto benessere dentro i confini del paese.

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Qui sta il nodo da sciogliere. Noi abbiamo bisogno di investimenti produttivi, di infrastrutture efficienti, di scuola, di modernizzazione, di costo del lavoro più basso e di minore evasione fiscale, di pubblica amministrazione efficiente e di minori costi fissi. Difficile trovare la soluzione del rebus, ma se andiamo avanti con le marchette elettorali dettate dall’emergenza, dagli 80 euro di Renzi al reddito di sudditanza di Di Maio, dalla simil flat tax di Salvini alla conservazione di diritti insostenibili sulle pensioni, finiremo solo per rendere sempre più alta la montagna del debito, e quello che ci aspetta sarà un destino sospeso fra l’Argentina e il Venezuela. Semprechè nell’attesa alcune affinità elettive non ci facciano fare anche un giro nel Brasile di Bolsonaro.

Può non piacere, ma qualcuno in questo paese dovrà cominciare a pagare i debiti contratti, perché in Italia esistono almeno due generazioni ancora viventi che hanno avuto troppo, in termini di privilegi e regalie, che si chiamassero evasione fiscale tollerata o benefici da spesa improduttiva diffusa. Se non si spezza questa catena, non solo il debito non diminuirà mai, ma gli interessi sul debito, che sono figli delle scelte politiche e della nostra debolezza congenita, continueranno ad aumentare. Su questo punto è bene essere chiari: l’onda lunga del liberismo planetario, sempre meno mitigata dalla politica, è certamente in grado di divorare i paesi feriti, e ciò non ci favorisce, ma la cura di cui ha bisogno questo paese col liberismo non c’entra nulla. Le risorse sprecate e improduttive sono tali in qualunque contesto, anche nel socialismo reale, e se non cominciamo a pagare il conto, quello che poi toccherà ai nostri figli sarà ancora più salato.

 

Se la sinistra vorrà perdere bene, dovrà inserire questi temi nella sua agenda, come quasi mai ha fatto in passato, facendosi carico delle povertà e dello sviluppo, magari legando al secondo i possibili nuovi debiti, ma riservando le prime al taglio delle spese. Questo è un punto delicatissimo, perchè esistono sprechi nella pubblica amministrazione, ma esistono anche privilegi che sono, o sono considerati, diritti acquisiti. Non è facile muoversi su questo discrimine, in un paese da sempre legato a nuove tasse o tagli lineari, ma da qui prima o poi bisognerà necessariamente passare, parlando chiaramente al paese e smettendola di raccontare favole, perchè di populismo si può anche morire. Credo che sarà anche indispensabile ammettere che la terza via si è rivelata ambidestra per chi l’ha inventata, se guardiamo a Trump e alla Brexit, e ridicola per noi che l’abbiamo percorsa con vent’anni di ritardo. Bisognerà infine riconoscere che nella passata legislatura si è si sbagliato il metodo, ma si è sbagliato anche il merito, perché impiccare cinque anni di governo ad una bislacca riforma costituzionale e ad una legge elettorale destinata ad essere cassata, invece che ai grandi problemi economici del paese è stata una scelta miope e sconsiderata, soprattutto nel momento in cui la crisi mordeva più ferocemente la carne viva di milioni di cittadini.

Al potere, ce l’hanno insegnato Grillo e Salvini, nell’epoca dell’alternanza non ci si arriva presidiando il potere, che è piuttosto un buon modo per perderlo, ma costruendo il consenso nella società, nel tempo. Lo si può fare con gli strumenti del populismo, cosa evidentemente più facile, ma lo si può fare anche con strumenti politici antichi, che abbiamo ritenuto obsoleti quando sono nati i “partiti leggeri”: oggi conviene usare questi ultimi, perché non si può essere populisti in due nello stesso tempo e nello stesso luogo.

C’è infine un ultimo aspetto che la sinistra dovrebbe considerare nel preparare al meglio la sconfitta prossima ventura. La destra si è costruita una nuova identità, che è quella della destra sovrana, della destra popolare, della destra del popolo. Bene, questa identità è fragilissima, lo è perché è tautologica e autoreferenziale, e lo è anche perché è intrinsecamente falsa. Il popolo che si è radunato in stragrande maggioranza sotto le bandiere della destra non ha nessuna idea degli interessi nazionali, ha solo l’idea del suo interesse, dell’interesse di ognuno dei singoli cittadini che rifiutano, assieme a molte ingiustizie, anche ogni idea di responsabilità. Non è un’identità collettiva legata ad un’idea di paese e ad un progetto per il futuro, è un’identità personale prestata ad un soggetto politico che ha il potere come fine e non come mezzo, cosa che per definizione non coincide con l’interesse dei cittadini. Quando quest’identità andrà in frantumi, se non ci sarà un’alternativa politica forte, che oggi non c’è, ci potranno essere solo soluzioni autoritarie.

 

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