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Quale Paese dopo il Congresso del PD?

Quale Paese dopo la fine del Congresso del PD?

La notizia di questi giorni è che il Partito Democratico ha finalmente terminato la sua lunga e faticosa traversata del deserto eleggendo un nuovo Segretario e connesso Gruppo Dirigente; come era stato largamente previsto da tutti i sondaggisti lo scontro che sostanzialmente verteva sulle posizioni opposte del favorito Zingaretti a Giachetti (alzi la mano chi ha veramente creduto ad una presenza determinante del terzo incomodo Martina) ha visto prevalere con scarto consistente il primo e mette in soffitta dopo circa sei anni l’esperienza, per certi versi stravolgente rappresentata da Matteo Renzi.

Il primo passo di Zingaretti, dopo aver passato la fase congressuale a marcare la differenza con l’esperienza precedente, è stato quello di tentare una ricompattazione interna del partito, ancor prima di pensare a quella fase di avvicinamento al Movimento 5 Stelle che tutti davano per certa, propedeutica a rilanciare il PD nella scena politica italiana dopo le recenti sconfitte elettorali, per scalzare dai posti di comando l’ala estremista di destra rappresentata da Salvini.

Il riconoscimento dell’esigenza di portare avanti i lavori della TAV è stata una mossa a sorpresa che ha scompigliato le carte, ed anche se i pontieri del movimento si sono messi subito all’opera nel tentativo di allacciare rapporti con la nuova dirigenza democratica, l’impatto di questo gesto è stato forte. La questione TAV all’interno del Movimento 5 stelle è ormai vista come l’ennesima battuta di arresto di quel processo di revisione, se non proprio di disdetta, di tutti gli accordi esistenti prima delle elezioni del 4 marzo 2018; è ormai chiaro, infatti che solo Toninelli, come un Don Chisciotte qualsiasi, è rimasto a combattere l’idea che quell’opera vada fatta: gliel’hanno cantata tutti e in tutti i modi, ma imperterrito persiste nella sua tesi a dimostrazione del fatto che solo gli stolti non cambiano mai opinione.

Alla fine tutte le mosse apparentemente inattese di Zingaretti si stanno rivelando come aderenti ad un copione scritto da tempo, nel quale sono previste sostanzialmente due mosse: tenuta interna ed apertura ad una nuova fase di governo con il PD che subentra alla Lega. Per quello che concerne il rientro dei fuoriusciti ai tempi di Renzi, probabilmente si tratterà di un passaggio soft, il più possibile a riflettori spenti, per non urtare tutti quegli elettori che dopo la comunicazione dell’esito delle primarie hanno dichiarato che pur non avendolo votato, Zingaretti è e rimane il segretario del loro partito, confermando che la fase di appartenenza fideistica ad un partito ma non ad un progetto, anzi, scollegata da esso, è un problema di quella parte politica.

 

 Cantiere della TAV

 

Renzi rimane Senatore della Repubblica, ma non pare avere la voglia o la possibilità (perché per farlo necessitano risorse ingenti di uomini e mezzi finanziari) di fare un proprio partito, nel quale portare avanti, magari commettendo meno errori del passato, quel progetto politico che, comunque lo si voglia declinare, rende orfano il Paese di un’alternativa riformista e liberale nella quale non si ricerchino scorciatoie nella definizione del circolo virtuoso che vede l’economia come motore per reperire risorse, creare posti di lavoro e redditi: un’economia nella quale lo Stato operi da regolatore ma non da soggetto primario, il tutto inserito in un contesto di diritti civili che sembrano essere totalmente spariti dall’agenda politica attuale, dove  al contrario si nota un corposo tentativo di tornare al passato più gretto della nostra Società con la cancellazione o l’attenuazione di norme frutto di lotte sociali durate decenni.

 

L’offerta politica attuale, a meno di inusitate novità delle quali però non si intuisce alcun germe vitale, è composta da ricette economiche che sostanzialmente si assomigliano tutte, divergendo casomai solamente nella destinazione finale delle risorse: massiccio ricorso al finanziamento in deficit per assecondare le esigenze dei rispettivi elettorati di riferimento, con la speranza che i soldi messi in circolo possano ridare fiato ai consumi e far ripartire l’economia.

Visto che è stato dimostrato ormai che l’impatto sull’economia di risorse così reperite è inferiore a 1, e che cioè a fronte di un euro erogato dallo Stato a deficit la crescita economica corrispondente difficilmente sarà superiore a 0,5 – 0,6 (ma facilmente potrebbe essere anche inferiore), sappiamo che questo tipo di politiche, laddove sono state applicate, hanno sostanzialmente fallito nello scopo dichiarato di creare quel circolo virtuoso del quale gli attuali governanti si riempiono la bocca.

 

 

È evidente che la perdurante situazione italiana di alternanza tra recessione e crescita modesta ha creato situazioni di disagio alle quali in qualche modo si deve cercare di porre rimedio, ma basare le manovre economiche, come è stato fatto, esclusivamente su sussidi in varia forma distribuiti, senza procedere ad una robusta riforma del complesso e farraginoso sistema produttivo del paese (a cominciare dalla riduzione della burocrazia, sino ad un’azione incisiva sul cuneo fiscale in particolare e sulla tassazione in generale), porterà ad allungare l’agonia senza consentire plausibili tempi di guarigione.

Il fatto è che tutta quella massa di elettori che non si sentono rappresentati dagli attuali partiti continueranno a vedere ingrossate le proprie fila, e questo per una democrazia è un problema che in qualche modo dovrebbe essere affrontato; per anni abbiamo considerato come fisiologico il fatto che il corpo elettorale attivo si andasse man mano assottigliando, perché questo avviene ormai da tempo nei paesi occidentali più avanzati, ma se indugiamo troppo sul considerare con sciatta disattenzione i pericoli che questo fenomeno rappresenta, finiremo col vedere degradare inesorabilmente il livello di democrazia in questo paese.

Da quando ho ricordo di aver manifestato interesse per la politica, ed avendo sempre votato per la sinistra nelle varie forme in cui essa è stata progressivamente rappresentata a partire dal vecchio PCI, l’idea di destra che ho sempre avuto presente è stata quella del fascismo e di tutto ciò che al fascismo è connesso. I guasti del periodo intercorrente tra la prima guerra mondiale e la fine della seconda incidono in modo sostanziale anche oggi sul comune sentire, perché dopo gli scandali della fine del XIX secolo e la fine della destra storica, in Italia la destra è fascismo, e se tenti in qualche modo di dire che l’economia in Italia è malata  (non ci vuole molto per dirlo), che i suoi guai sono determinati anche, ma non solo, dall’evasione fiscale, per eliminare la quale non basta attivare controlli severi, ma è anche necessario ridurre un livello di tassazione tra i più alti del mondo, e che per reperire le risorse che verrebbero a mancare se abbassi le tasse, occorre aumentare la produttività aziendale (che non significa far lavorare per più ore le persone) e quindi la base imponibile, fatalmente ti trovi marchiato: sei di destra.

 

         Zingaretti fotografato per un'intervista su Vanity Fair, 11 aprile 2018

 

Uscire da questo schema e provare a far capire che avere a cuore la salute di un sistema produttivo non significa automaticamente voler sostenere l’accumulo di capitale e l’evasione fiscale, ma considerarla condizione essenziale perché vi sia distribuzione di redditi ed erogazione di servizi da parte dello Stato non è né di destra né di sinistra, ma solamente buon senso.

Renzi ci ha provato, facendo molti errori ma ci ha provato, ed è stato sconfitto: fuori lui dalla scena il sistema si è ricompattato sui vecchi armamentari evergreen della politica di sinistra e di destra e mentre ci dicono che sarà un 2019 bellissimo, faccio fatica a crederci.

 

 

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