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Referendum, perché SÌ

 

voto SÌ

Cercherò di riassumere, per quanto possibile, il perché Voto Si.

Mi sia, però, consentito fare una piccola premessa: questa breve analisi non ha alcuna pretesa di esaustività – atteso che sarebbe necessario analizzare nel dettaglio le singole norme – né è finalizzata a far cambiare idea ad alcuno.

È solo il frutto di un mia personalissima analisi che prescinde da finalità partitiche e/o elettorali.

Per cominciare mi sembra opportuno evidenziare che l’ITALIA è una Repubblica Parlamentare, dove l’esecutivo non è scelto direttamente dal popolo, ma dal Parlamento che ne vota la fiducia su nomina del Presidente della Repubblica (art. 92 Cost.).

Ergo, dal punto di vista strettamente giuridico/normativo ogni discussione sulla legittimità di questo esecutivo deve ritenersi superata.

Atteso che l’iter previsto dall’art. 138 Cost. è stato rispettato, andiamo con ordine ad analizzare i singoli profili che mi hanno convinto a votare SI.

Il primo punto che mi spinge a votare SI è l’abolizione del CNEL (organo di “nominati” per eccellenza). Quest’Ente inutile, che non ha mai funzionato, è sempre e solo stato il parcheggio di tutti i trombati della politica, o  il luogo eletto per l’elargizione di prebende a burocrati e/o “parrucconi” (nella migliore delle ipotesi per accrescere e migliorare i CV) di volta in volta attigui alla compagine governativa o presidenziale in un dato momento storico. È evidente che, essendo un organo di rilevo costituzionale, la sua abolizione può avvenire solo attraverso una legge costituzionale.

Con la riforma, poi, vengono effettivamente abolite le provincie (è scritto così in Costituzione). Anche in questo caso, come nel punto precedente, l’abolizione delle provincie, essendo queste organi istituzionali costituzionali, può/deve avvenire solo attraverso una legge costituzionale.

Altro aspetto di non poco rilievo è l’introduzione della PARITA’ DI GENERE, elevata a vero e proprio principio costituzionale (art. 55 Cost. e anche art. 122 Cost.).

La riforma prevede, poi, la riduzione del numero dei senatori, portandoli da  315 a 100 (95 elettivi – e sottolineo elettivi – + 5 nominati dal Presidente della Repubblica).

La proposta di riforma costituzionale prevede che il Senato venga eletto in maniera indiretta. Non saranno quindi gli elettori a scegliere direttamente i senatori, ma i singoli consigli regionali decideranno quali consiglieri e quali sindaci inviare al Senato. Ogni regione eleggerà senatori in proporzione alla sua popolazione, ma nessuna regione ne potrà eleggere meno di due (la regione più popolosa, la Lombardia, ne eleggerà in tutto 14). Le provincie autonome di Trento e Bolzano eleggeranno due senatori a testa (un sindaco e un consigliere provinciale ciascuna). Il mandato dei senatori sarà legato a quello delle istituzioni territoriali che rappresentano: i sindaci-senatori, quindi, rimarranno in Senato fino a che saranno in carica come sindaci e i consiglieri regionali rimarranno in carica fino allo scioglimento del consiglio regionale. Di conseguenza ci saranno più elezioni per il Senato, che sarà rinnovato in tempi diversi.

Non mi venite a dire che perdiamo il nostro diritto di voto, altrimenti non posso più continuare: andatevi a vedere l’ultima scheda elettorale del Senato (A.D. 2013). L’ultima volta abbiamo votato con il porcellum ed erano presenti solo i simboli dei partiti e non era consentita l’indicazione del senatore; dunque, l’attuale Senato è un organo di nominati. In ogni caso il porcellum, come l’italicum, sono leggi elettorali e non sono oggetto del referendum per il quale andremo a votare il 4 dicembre (si vota solo per la proposta di riforma costituzionale). La proposta di riforma sottoposta a referendum non fa altro che demandare ad una legge – ordinaria – successiva le modalità di voto di questo organo, stabilendo semplicemente che dei 95 senatori ogni regione ne vota almeno 2 (tranne il Trentino che ne vota 4: 2 Trento e 2 Bolzano) ed il resto in numero proporzionale agli abitanti. Non avrebbe potuto prevedere diversamente perché una legge elettorale non può/ non deve entrare in Costituzione.

voto SÌ

La Costituzione prevede anche una disposizione che permette agli elettori di indicare chi vogliono eleggere al Senato. Nell’articolo 2 della riforma, che andrà a modificare l’articolo 57 della Costituzione, è scritto che l’elezione dei Senatori deve avvenire: “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi” ed ancora che “Con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale”. Il Governo ha già dichiarato che, in caso di vittoria del SI, cercherà di far approvare una legge che consenta all’elettore, al momento dell’elezione del Consiglio regionale, di indicare, con due schede differenti, la preferenza per il consigliere e per il rappresentate (Sindaco o Consigliere) da inviare al Senato. Questa per me sarebbe una buon modo per eleggere il Senatore, ma diciamo che ciò non avvenga e che la legge ordinaria stabilisca differenti modalità di elezione, la critica sarebbe da muovere nei confronti della legge elettorale (ordinaria) e non della riforma … o NO!?

Peraltro, anche quella dell’immunità ai consiglieri/senatori è una bufala, perché l’immunità, prevista dall’art. 68 che è rimasto uguale, riguarda “le opinione espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”, se quindi i Senatori rubano, uccidono o sono corrotti vengono processati e condannati ugualmente come avvenuto per noti nomi (Senatori o Deputati che fossero). In ogni caso votando NO l’immunità rimane comunque e a beneficiarne saranno 315 Senatori anziché 100.

Avuto precipuo riguardo al procedimento per l’approvazione delle leggi, oggi per approvare una legge è necessario che il medesimo testo venga approvato sia alla Camera che al Senato nel medesimo testo. Basta un singolo emendamento e il testo deve tornare all’altra camera, creando molto spesso un empasse che blocca l’iter legislativo. Con la riforma, tranne in alcune materie, il potere legislativo è solo nelle mani della Camera dei Deputati.

Il Senato, che con la riforma non voterà più la fiducia al Governo, ha infatti solo un potere consultivo su tutte le leggi; mentre dovrà legiferare per le leggi costituzionali o di riforma della costituzione, per quelle di interesse regionale, per quelle che attuano le politiche comunitarie.

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Questa proposta di riforma va, a propria volta, a riformare il titolo V (cioè quella parte della Costituzione che era già stata modificata con la legge cost. 3/2001) e che ha comportato un aumento esponenziale del contenzioso innanzi alla Corte Costituzionale per i conflitti di attribuzione delle competenze tra lo Stato e le regioni o tra le regioni stesse.

Con la riforma viene abolita la legislazione concorrente tra Stato e Regione che, di fatto, ha comportato l’innalzamento esponenziale di questo tipo di contenzioso (prima del 2001 queste cause erano pari a circa il 5% del contenzioso pendente ora sono circa il 45%).

Inoltre, l’accusa di (ri)trasferimento di poteri in capo allo Stato che tutti bollano come una “iattura”, per quanto mi riguarda è un elemento fortemente positivo di questa riforma.

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Come tutti sappiamo la stragrande maggioranza delle ruberie avviene a livello regionale. In questo modo non solo si limitano le competenze delle regioni, ma è evidente che un controllo nazionale renderà certamente più difficile il perseguimento dell’interesse particolare.

Ci sono poi alcune materie che, secondo me, è assurdo siano di competenza regionale: mi riferisco in particolare alla materia ambientale (dove la tutela ambientale spetta allo Stato, ma quella relativa alla protezione del territorio o alla valorizzazione dei beni ambientali alla regione), al turismo, all’urbanistica, alle politiche energetiche e anche alla sanità. Questo comporta nella migliore delle ipotesi un conflitto di attribuzioni tra lo stato e le regioni, nella peggiore una vera e propria differenziazione normativa da luogo a luogo. Ad esempio, è possibile che una legge urbanistica campana consenta alcune situazioni che la legislazione urbanistica laziale vieta; o ancora in materia di turismo, dove per aprire un B&B a Roma ho bisogno rispettare alcuni vincoli dimensionali, burocratici o economici previsti dalla legislazione regionale che a Napoli o a Milano non esistono.

È stata poi introdotta la cd. CLAUSOLA DI SUPREMAZIA (lo Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. In realtà in questo momento l’unico esempio che mi viene in mente in cui lo Stato avrebbe interesse ad avocare a sé tale prerogativa è nell’ipotesi in cui un provvedimento regionale vada ad incidere sulla possibilità del cittadino (limitandola) di farsi curare in una regione anziché in un’altra. Ovviamente, però, è la mia mente limitata che non vede questa indifendibile ingerenza dello Stato nei legittimi interessi regionali.

La riforma prevede, ancora, un tetto massimo agli stipendi dei consiglieri regionali che non potranno mai superare quelli previsti per il Sindaco del Comune Capoluogo (art. 122). Vorrei ricordare che oggi ci sono consiglieri regionali – semplici consiglieri non Presidenti di regione – che hanno stipendi anche di 20.000 euro al mese, in quanto la durata della carica, le modalità di elezione e gli stipendi vengono stabiliti a livello regionale e non nazionale.

Passando all’iter legislativo, detto che con la riforma vi sarà un evidente vantaggio di tempi con la soppressione di un ramo del parlamento, cerco di sintetizzare tre aspetti che per me sono fondamentali:

  1. Il voto a data certa: fermo restando il potere del Parlamento, e in particolare della Camera, di proseguire nell’attività di indirizzo legislativo, l’Esecutivo può chiedere alla Camera che un disegno di legge essenziale per l’attuazione del suo programma sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e votato entro 70 giorni. Sono escluse dalla procedura veloce le leggi bicamerali, le leggi elettorali, le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e le leggi che richiedono maggioranze qualificate. Questo comporterà l’evidente vantaggio di non dover ricorrere, o quantomeno limitare il ricorso, al procedimento previsto dall’art. 77 Cost. (decretazione d’urgenza). Ed infatti, nella storia della Repubblica, e ancora di più negli ultimi 20 anni, si è sempre più favorito il ricorso a tale procedimento, che dovrebbe rappresentare l’eccezione, per legiferare. Con il voto a data certa l’esecutivo non ha più alcuna necessità di ricorrere a questo tipo di procedura per l’approvazione “normale” delle leggi.
  2. Leggi di iniziativa popolare: è vero che la riforma ha aumentato (anche in considerazione dell’aumento demografico rispetto al 1948) il numero delle firme necessarie per sottoporre all’approvazione del Parlamento una proposta di legge ad iniziativa popolare (da 50.000 a 150.000), ma è altrettanto vero che è previsto, a differenza di quanto avvenuto fino a questo momento, l’obbligo per il Parlamento di discutere il disegno di legge ed eventualmente approvarlo o bocciarlo con relativa assunzione di responsabilità, in un senso o nell’altro, nei confronti dell’elettorato. Dall’entrata in vigore della nostra Costituzione fino ad oggi, solo 1% delle proposte di legge di iniziativa popolare è poi diventata effettivamente legge e dal 1979 a oggi, su 260 proposte di legge di iniziativa popolare, solamente 3 sono diventate legge, l’ultima nel 2000. Inoltre, tutte e tre le proposte sono diventate legge solamente perché accorpate in Testi Unificati con proposte di iniziativa parlamentare o governativa. Delle 260 proposte, 137 (53%) non sono state neanche mai discusse in Commissione, rimanendo nei cassetti di Camera e Senato;
  3. Referendum abrogativo e propositivo: non è vero che vengono aumentate le firme per richiedere un referendum abrogativo (cfr. art. 71, comma 1, cost. e proposta di riforma) che erano e rimangono 500.000. Quello che cambia è che, se la richiesta di referendum è stata avanzata da 800.000 persone, il quorum per “far passare” il referendum si abbassa. Questa scelta non mi sembra per niente antidemocratica. Inoltre, è prevista l’introduzione dei referendum propositivo e di indirizzo demandandone ad una successiva legge la disciplina. Anticipando la polemica (la riforma istituisce tali referendum, ma poi non ne disciplina le modalità … è probabile che non verrà fatto!!!), dico solo che, nella peggiore delle ipotesi (cioè che non vengano emanate le regole di attuazione e, dunque, hanno ragione quelli del NO), nulla cambierà rispetto alla situazione attuale e, dunque, non vi sarà alcun peggioramento o deriva antidemocratica. Se però, come spero, verrà data attuazione a tale comma, avremo uno strumento di democrazia diretta che prima non avevamo.

Infine, all’art. 73 secondo comma è previsto il vaglio preventivo di costituzionalità della legge elettorale da parte della Corte Costituzionale in modo che si possa evitare il pasticcio del porcellum (prima si sono svolte le elezioni e poi è stata dichiarata incostituzionale la legge elettorale).

 

La riforma prevede un controllo preventivo sulla costituzionalità della legge elettorale prima che entri in vigore.  Nel nostro ordinamento, la Corte costituzionale interviene in due ipotesi base: a) a seguito di rinvio da parte di un Giudice, per decidere se una norma di legge è conforme alla Costituzione; b) per risolvere conflitti tra i poteri dello Stato o quelli tra lo Stato e le Regioni, o quelli tra le regioni. Queste ipotesi, di intervento successivo, sono rimaste invariate. A queste si è aggiunto un giudizio preventivo di legittimità – quindi, prima dell’entrata in vigore della legge elettorale – quando venga richiesto “da almeno un quarto dei componenti della Camera dei deputati o da almeno un terzo dei componenti del Senato della Repubblica entro dieci giorni dall’approvazione della legge”. La legge elettorale entra quindi in vigore se nessuno chieda l’esame preventivo alla Corte costituzionale o se quest’ultima ne dichiara la incompatibilità con la Costituzione.

Come avrete notato il discorso è piuttosto complesso e, proprio perché stiamo discorrendo (VIVA IDDIO) di un qualcosa di molto importante, sarebbe necessario un maggior approfondimento.

In conclusione, io rimango convinto del SI e spero che qualcuno dei miei amici sostenitori del NO riesca ad argomentare perché questa riforma rappresenterebbe l’archetipo della deriva antidemocratica del nostro Paese.

 

Per confronto: Referendum; perchè No!

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