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Salvini & Di Maio sospesi fra Visegrad e Bruxelles

Salvini & Di Maio sospesi fra Visegrad e Bruxelles

In questo tragico mese d’agosto diviso fra il crollo del Ponte Morandi e la vicenda di Nave Diciotti, che hanno portato al calor bianco la tensione sociale e istituzionale nel paese, Matteo Salvini e Luigi di Maio hanno deciso di alzare la posta, e simultaneamente hanno portato lo scontro fuori dai nostri confini, su un palcoscenico che pare francamente troppo grande per loro. Quale che sia la ragione, che sia un caso, che sia l’inerzia di questo momento storico, o il frutto di una scelta consapevole e concordata, resta il fatto che hanno aperto contemporaneamente il fuoco sull’Europa, non in modo puramente propagandistico come in molti altri casi, ma in modo specifico e circostanziato, con un attacco diretto ai meccanismi di finanziamento dell’Unione da parte di Di Maio, e con l’apertura di un processo di ricollocazione geopolitica internazionale da parte di Salvini.

 

Davvero, in questo momento in cui l’italia si è divisa e incattivita come non mai, nel quale ha bruciato ogni residuo margine di compatibilità e di legittimazione fra cittadini, partiti e istituzioni, non si sentiva il bisogno di aprire un nuovo fronte che aggiunge altra benzina al fuoco della campagna elettorale permanente che si celebra dai banchi del Governo da quando il premier in conto terzi ha giurato nelle mani del Presidente della Repubblica. Se si può comprendere Salvini, che sta chiaramente puntando alle elezioni per divorare Forza Italia ed erodere il consenso del Movimento 5 Stelle, prima di essere costretto ad uscire dalla propaganda populista sui migranti e dover davvero governare, risulta più difficile capire Di Maio, che ha solo la metà delle motivazioni di Salvini, la seconda, perché da uno scontro all’ultimo voto con l’attuale capo del centro destra ha tutto da perdere e niente da guadagnare.

Salvini & Di Maio sospesi fra Visegrad e Bruxelles

Che recitare queste parti in commedia fosse il destino degli asimmetrici dioscuri del Governo è stato evidente nel momento stesso in cui è stata resa nota la lista dei ministri, con Salvini ben  piantato sul palazzo del Viminale a presidiare un bidone di benzina vuoto, i flussi migratori già ridotti ad un rigagnolo in secca in modo spiccio da Minniti, e Di Maio seduto sui principali problemi del paese, il lavoro che non c’è, l’Ilva di cui non si sa bene cosa fare, a parte forse una figuraccia, e oggi pure la questione delle concessioni autostradali, che riassume in sé tutti i nodi infrastrutturali del paese. Troppo diversa la dimensione dei problemi da affrontare, risibile e propagandistica quella di Salvini, sostanziale e drammatica quella di Di Maio, tutta ideologica ed economicamente trascurabile, legata all’immediatezza e al quotidiano la prima, tutta carne, sangue e denaro, completamente centrata su prospettive di lungo periodo la seconda.

 

E difatti, mentre Di Maio annaspa sui mali atavici del paese, cercando soluzioni forse inesistenti, certamente ad altissimo rischio, e comunque di la da venire, Salvini si prepara ad affrontare la campagna elettorale millantando un successo epocale sui migranti e il ruolo di difensore del popolo italiano, contro tutto e contro tutti. Naturalmente la crescente popolarità di Salvini è fondata su una credulità di massa imbarazzante, ma in ogni caso la sua è un’immagine di straordinario successo che viene sempre premiata al momento delle elezioni, che oggi, in Italia come altrove, si giocano in larga parte sul tema dei migranti, simbolicamente assurti a spartiacque dell’identità nazionale. A me pare una follia credere che la difesa dei confini e dell’identità debba rappresentare la catarsi dei popoli europei, il momento della rinascita e dell’uscita dalla crisi e dal declino, ma i popoli possono ben impazzire come le persone, e visto che è già successo molte volte può indubbiamente succedere di nuovo.

 

È vero che entrambi hanno ragione di temere la prova del governo, la scarsa arrendevolezza dell’Europa e la reazione ferocemente punitiva dei mercati,  se e quando tenteranno di attuare i vari punti del programma di governo, ed è altrettanto vero che non essendoci più una credibile opposizione interna può essere necessario cercare un nemico fuori dai confini, per tenere alta la tensione, ma è ben diverso poter affrontare una campagna elettorale sull’onda del successo di un “problema finalmente risolto”, come pretestuosamente potrà fare Salvini, rispetto a chi dovrà di nuovo promettere di risolvere dei problemi difficilissimi, mai risolti da nessuno, come toccherà in sorte a Di Maio.

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In ogni caso, quale che sia l’inconsapevolezza di Di Maio sulla sua debolezza politica rispetto a Salvini, non ha esitato a porsi in concorrenza con il Ministro dell’interno, e a sfidare l’Europa su un terreno di nuovo più insidioso di quello scelto dal leader della Lega. Su questo punto, bisogna essere estremamente chiari: la minaccia di utilizzare i 20 miliardi annui con cui l’Italia contribuisce al bilancio dell’Europa per finanziare il programma di governo, praticamente tutto di spesa corrente, è una stupidaggine insostenibile sotto il profilo giuridico, ma è anche una follia politica che se messa in atto porterebbe immediatamente il paese fuori dall’Europa, e non nel fine settimana in cui si stampano di nascosto le lire. Non a caso il commissario europeo al Bilancio, Gunther Oettinger, ha immediatamente rispedito al mittente le minacce, riprese peraltro anche da Salvini in tono come al solito più moderato, chiarendo che ove si passasse dalle parole ai fatti ci saranno immediatamente penali e sanzioni per l’Italia. Del resto è impensabile poter stare nell’Unione senza sostenerne il bilancio, una quota del quale ritorna comunque nel nostro paese.

 

 Il Parlamento Europeo a Bruxelles

 

Salvini è invece rimasto sul suo tradizionale cavallo di battaglia, quello dei migranti, che costa poco e rende molto, cercando e trovando sponda nel governo Ungherese, il cui capo, Viktor Orban, è anche il leader dei paesi di Visegrad, sostanzialmente un branco di parassiti che con l’Europa non c’entrano palesemente nulla, nonché il campione di quella democrazia illiberale che sta gonfiando le vele di tutti i populisti europei, ansiosi di ritrovare le piccole patrie dello scorso millennio. E’ chiaro che spostare l’Italia a Visegrad via Vienna è un’operazione politicamente devastante, ma non palesemente illegittima come quella pensata da Di Maio, che obbligherebbe Bruxelles un immediato intervento punitivo. Tuttavia cambiare le alleanze e sostituire Berlino e Parigi con Budapest e Varsavia non è un’operazione a costo zero, perché i paesi si pesano e non si contano. L’Europa non esisterebbe più se fosse guidata da Orban, e l’Ungheria guidata da Orban è ancora  sopportabile solo perché  è un paese insignificante: forse i sovranisti nostrani, ammirati dai regimi clerico-fascisti dell’Europa centrale non ci pensano mai, ma l’Ungheria ha un PIL più basso di quello che producono gli immigrati in Italia, e la più popolosa Polonia non arriva ad 1/4  del PIL del nostro paese.

 

Il Primo Ministro della Repubblica Ceca Bohuslav Sobotka, il Primo Ministro Viktor Orban,
Primo Ministro della Polonia Beata Szydlo e Primo Ministro della Slovacchia Robert Fico
durante la riunione del Gruppo Visegrad a Varsavia, in Polonia, il 28 marzo 2017.

 

Comunque la si guardi, la politica del Governo Italiano oggi si pone in rotta di collisione con l’Europa, essenzialmente per ragioni di politica interna, oltre che per mere questioni di potere. È naturalmente un gioco pericoloso, che punta in modo ricattatorio sulle dimensioni del nostro paese, la cui uscita dall’Unione avrebbe conseguenze gravissime sul progetto europeo e sulla moneta unica, oltrechè sugli interessi diretti dei governi francese e tedesco. Personalmente credo che questa politica sia del tutto sbagliata, anche nel contesto degli errori imperdonabili commessi dall’Unione negli ultimi venti anni, ma se anche così non fosse la nostra posizione non cambierebbe: non abbiamo la forza per fare la voce grossa con gli altri paesi fondatori dell’Europa se rimaniamo nel gruppo, e diventeremmo un nemico da punire in modo esemplare se andassimo a rafforzare i sovranisti di governo, che tutti assieme cubano si e no come la metà della Spagna.

 

Le rovine del castello di Visegrad, il Fellegvar (La Cittadella) , Ungheria.

 

Ma poi, nell’ipotesi peggiore, quella che vede lo sfaldamento dell’Europa e il fallimento del progetto unitario, chi canterebbe vittoria oltre a Steve Bannon, degno ideologo di questa banda di scappati di casa, e i Brexiter incalliti, che potrebbero trovarsi inaspettatamente senza nessuno a cui pagare il conto? In realtà sarebbero in molti a gioire, perché la scomparsa di un gigante economico come l’Europa, definitivamente trasformata in un nano politico, offrirà  a chi saprà coglierle grandi occasioni e opportunità, ma credo di non sbagliare nel dire che il più felice di tutti sarebbe Putin, che guida un paese sottosviluppato col secondo esercito del mondo ai confini dell’Europa.

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A me pare evidente che Di Maio e Salvini siano totalmente inadeguati a gestire una partita del genere, e che non abbiano ben capito quello che stavano facendo mentre lo facevano, ma evidentemente non la pensa in questo modo il popolo italiano. E tuttavia, se chiudiamo gli occhi e proviamo a pensare a Di Maio e Salvini sospesi fra Bruxelles e Visegrad, che tentano di piegare l’Europa alle piccole e miserabili esigenze della politica italiana, viene quasi istintivo l’immagine di due sciocchi che pensano di cambiare il mondo senza sapere da che parte gira, e che si bruciano le dita con lo stesso cerino.

 

 

 

 

La società italiana sepolta sotto le macerie del ponte Morandi
Una bella catastrofe era proprio ciò che ci voleva
Salvini, Di Maio e l’Italia senza un governo (meno male)

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