le storie

Serate in Langa

 

Forse non era stata una buona idea accettare l’invito dei Cravero a quella cena; ero stanco, dopo dieci ore in sala operatoria e Lucia era di un umore intrattabile a causa di un lavoro che avrebbe dovuto presentare, a giorni, ad un congresso e su cui era in ritardo.

Ci avviammo, comunque, alle otto di sera, in direzione di Cherasco, essendo riuscito a convincere la mia collega ad anticipare il cambio sulla mia guardia: avevo potuto, almeno, rientrare a casa per una doccia e due parole, con mia moglie, sulle ultime del giorno.

I Cravero, moglie e marito, proprietari di vigne e aziende agricole, erano entrati nella nostra vita, in seguito ad un incidente occorso alla loro barca, un grosso cabinato, mentre trascorrevamo una vacanza nella nostra casa sullo Jonio: erano rimasti in panne ad un paio di miglia da terra, ed in quel momento, sul Boston del nostro amico Raffaele, incrociavamo nei loro pressi, a goderci il tramonto settembrino che segnava, ormai, la fine di quella vacanza.

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Era stato un caso sfortunato: avevano smontato, proprio quella mattina, il motore ausiliare per una messa a punto, ma non avevano saputo resistere, anche loro agli sgoccioli delle ferie, ad un’ultima uscita in quello splendido pomeriggio, nonostante lo stato di sicurezza della barca non lo consigliasse.

Rientrammo, ormai a notte, trainandoli in porto dopo complicate manovre di avvicinamento e scambio di cime da uno scafo all’altro; sembrava che Raffaele avesse passato metà della sua vita a comandare un rimorchiatore nel porto di Marsiglia, non a condurre l’azienda agricola di famiglia nel Salento.

Era seguita, il giorno dopo, una serata nel giardino della loro villa sulla litoranea; Laura Cravero, dopo un paio di aperitivi, sembrava aver voluto dedicare l’occasione al tema del nostro fortuito incontro: rimorchiare.

D’altra parte, avvicinando la nostra ospite per la normale cortesia degli invitati, avevamo interrotto, involontariamente, alcuni scambi di battute con diversi “bellocci” locali, i cui scampoli intercettati la dicevano lunga sui passatempi preferiti dalla signora.

Il marito, Alberto, sembrava non farci caso più di tanto, se non, a volte, minacciandola, scherzosamente, con l’indice agitato nella sua direzione; senza, per altro, interrompere il discorso con il suo interlocutore: in genere un politico o un uomo d’affari della zona.

Insomma, una bella coppia aperta di cinquantenni danarosi, ognuno con i suoi hobby…

Avevamo,così, scoperto di essere vicini di casa; non solo al mare – avevano comprato quella villa quindici anni prima – ma anche nei nostri luoghi di residenza abituale: io e Lucia di A., loro proprietari di una vera e propria magione di origine medioevale nel centro di Cherasco.

Tornati a casa, ci eravamo quasi scordati di loro, relegandoli tra gli episodi di una vacanza che non era stata, per il resto, molto movimentata, per fortuna.

Passato un mese dal ritorno, avevamo, però, ricevuto un loro biglietto di invito (con tanto di R.S.V.P.) ad un cena, in una loro casa di campagna nell’Albese, dedicata ad un “Benvenuto al re tartufo…” .

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Vi erano state alcune discussioni sull’accettare o meno l’invito, combattuti tra la nostra (mia, soprattutto) ritrosia a frequentare salotti lontani dal nostro tranquillo ambiente provinciale, e la necessità di levarsi dal nostro isolamento misantropico (secondo Lucia).

Era stata una serata molto piacevole; i “pochi intimi” dell’invito erano una cinquantina di persone tra le quali avevamo individuato un piccolo gruppo con cui eravamo riusciti a traghettarci alla fine della cena senza annoiarci.

Seguirono, ancora, alcuni inviti e la varietà degli ospiti ci aveva sempre permesso di fruirne con ottimi risultati per il palato e per l’arricchimento delle nostre frequentazioni. Il fatto che Laura, alle spalle di mia moglie, fingesse di flirtare con me, inoltre, mi divertiva sempre.

Il pensiero dei piacevoli precedenti, ma, soprattutto, un certo tono di urgenza che Laura aveva messo nella sua telefonata di invito, ricevuta sei giorni prima, legato ad una sua necessità di chiederci un consiglio professionale, ci aveva convinto a metterci per strada in quella serata di inizio Dicembre.

Il tempo era pessimo, cadeva una pioggia fredda e le previsioni davano neve in arrivo: ci sorprese, in effetti, mentre terminavamo la salita al paese.

Lasciata l’auto raggiungemmo la casa dei nostri amici avvolti in un soffice e gelido silenzio che imbiancava le strade, a quell’ora, quasi deserte.

Un paio di scampanellate al grandioso portale di nobile ed antico legno e, lentamente, si aprì il portoncino pedonale: dall’altra parte non comparve, però, il cameriere-giardiniere Attilio, conosciuto in occasioni precedenti, ma un uomo con la barba lunga, il viso tirato e gli occhi iniettati di chi non dorme da tempo, in pantofole e giacca da camera:” Ma che bravi, che cari a venire, avete saputo allora di Laura?”.

“Di Laura? Cosa, di Laura?”

Alla sorpresa di riconoscere in quell’individuo dall’aspetto malsano, il nostro anfitrione Alberto, sempre elegante e curato, nel vestire, persino quando ci guidava a visitare i suoi orti e le sue vigne, si sovrappose, come una sensazione di liquido malessere, la sua ultima domanda-affermazione.

Mentre entravamo, dalle sue parole, ci rendemmo conto che Alberto non aveva idea dell’invito che ci aveva portato fino alla sua casa in quella orrenda serata; invito che aveva stupito, al momento, anche me e Lucia, essendo il primo ricevuto, da loro, per telefono e, per di più, con pochissimo preavviso.

D’altra parte noi non avevamo potuto leggere, perché confinata nelle pagine della provincia di Cuneo, la notizia della scomparsa di Laura e la denuncia fatta da Alberto con un paio di giorni di ritardo: vi erano stati, infatti, dei precedenti “normali”, così aveva definito, Alberto, alcune assenze da casa della moglie.

Facendo un rapido calcolo, concludemmo che la telefonata di Laura era stata fatta la sera prima della sua scomparsa; dell’ultima volta che il marito l’aveva vista, senza avere alcun avvertimento, nemmeno involontario, della sua prossima, prolungata, assenza.

Lo seguimmo percorrendo uno stretto porticato appoggiato, a partire dal portone sulla piazza, a metà del perimetro del cortile interno per portare, protetti dalla intemperie, al salone che occupava gran parte del piano terreno di quella notevole abitazione: per raggiungerlo, passato il portone sul cortile, si attraversava una spaziosa anticamera dalle pareti ricoperte da una ricca scelta di tele di impressionisti.

Raccontammo ad Alberto i particolari dell’invito telefonico, chiedendogli se avesse qualche sospetto sul motivo che avrebbe potuto spingere Laura a insistere sulla nostra presenza, due medici, ad un incontro presentato come una cena delle tante che loro organizzavano; ma lui scuoteva la testa, come sforzandosi di capire.

Nei minuti che occorsero al percorso ebbi agio di osservare una continua e rapida trasformazione in quell’uomo che, ormai, stentavo a riconoscere: espressioni e sentimenti che, fino ad allora, non avevo mai avuto modo di collegare all’amico mondano e leggero che frequentavo, è vero, da così poco tempo.

Raccontava una storia (o piuttosto ne accennava inquietanti contorni attraverso frasi smozzicate, talvolta scollegate tra loro) di un matrimonio in grave crisi; un quadro completamente diverso da quello che ci si era potuti fare in quei pochi mesi.

“Una ciulàta fuori casa, normale, chi non se la fa, ti pare?”, percorrevamo il corridoio verso la biblioteca e spiccava il disordine e la sporcizia in quegli ambienti che ricordavo così curati e lindi.
“E poi, dai, che vuol dire…, però non portarmelo in casa, sotto il naso; non sono mica scemo, è un mese che vi fate alle mie spalle!.”

Un odore nauseabondo ci veniva incontro come un’onda di marea su cui galleggiavano le frasi sempre più sconnesse di Alberto.
Urlava:“Vi annusavate come cani, e non capivo niente, cretino!”
Dolcemente:”Avevo prenotato per Mauritius, dovevamo essere lì, ieri: il solito bungalow; te lo ricordi?”.

Dei sacchi neri, lungo il corridoio, rilasciavano un fetore che permeava, ormai, tutto l’ambiente.
“Chiama il 112 ed il 118, Lucia, subito!” sussurrai; intanto lo prendevo sottobraccio e lo guidavo verso la veranda sul retro, affacciata sulla valle sottostante.
“Alberto, dai, sai come sono le donne; domani Laura torna, sicuro!”
“Eh no caro! Laura non torna… più!”
Con uno strattone si liberò dalla mia presa e si rifugiò, accucciato in un angolo; rideva, piangeva…
Poi, con uno scatto improvviso, scavalcò la balaustra e, senza un grido, si precipitò nel vuoto.

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5 comments

  1. Kokab 7 agosto, 2015 at 23:54

    modus ha ormai decisamente un’estate tinta di giallo, con due penne diverse, per stile ed approccio, che si passano la palla: credo che siano da ringraziare per le piacevoli letture che ci regalano, speriamo anche oltre l’autunno.
    questo secondo racconto di scan è più dark e meno fantastico, il che varia gradevolmente l’offerta narrativa; restiamo in attesa del prossimo.

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