la società

Sharing economy; cosa non va?

 

Quello che non va con Airbnb e Uber.

I più significativi risultati di quella che è stata chiamata “economia della condivisione”, o anche “consumo collaborativo” sono gigantesche multinazionali che perseguono potere di monopolio. Cos’è esattamente quello che viene condiviso?

di Steven Poole
Recensione del libro di Tom Slee, What’s Yours Is Mine: Against the Sharing Economy (Quel ch’è tuo è mio: contro l’economia della condivisione)
(Traduzione redazione Modus)

Sharing economy; cosa non va?

La “condivisione” è uno dei concetti più abusati nella retorica quotidiana dei nostri tempi. D’apprima ci siamo cullati nell’eufemismo del “file-sharing”, la condivisione di dati, usato per indicare la duplicazione e lo scaricamento di brani di musica o film da internet. Ebbene, in primo luogo non è possibile condividere ciò che non è tuo (se faccio un prelievo a mano armata in banca e poi distribuisco il bottino tra i miei amici, potrei discolparmi dicendo che quello era nient’altro che “money-sharing”, denaro condiviso, ma non per questo avrei meno probabilità di essere condannato per rapina). Ora abbiamo una presunta “sharing economy”, una “economia della condivisione”, e i due esempi più spesso citati sono Uber e Airbnb, due grandi società che cercano di monopolizzare il mercato, scontrandosi con i governi di tutto il mondo. Ma in queste società cos’è esattamente quello che viene condiviso e nell’interesse di chi?

Le prime attività basate sulla “economia della condivisione” o “consumo collaborativo” promosse in internet davano la possibilità agli iscritti di gestire in multiproprietà e a minor spesa beni quali automobili o attrezzi da lavoro, piuttosto che comprarli e lasciarli inutilizzati la maggior parte del tempo. Tali iniziative, nella loro forma più pura, erano “peer-to-peer”: organizzazioni autogestite da ogni individuo senza un’autorità centrale referente. Appena si formano società a scopo di lucro che si occupano della logistica, come ad esempio Zipcar, il concetto di “condivisione” esce con ogni probabilità fuori dalla porta. Eppure, nell’origine di Airbnb è rimasto il nocciolo di un’idea comunitaria. Una società fondata da due persone impegnate nel settore tecnologico che un giorno, dopo aver affittato materassini gonfiabili per offrire alloggio a partecipanti ad una conferenza da loro organizzata, hanno pensato che c’era un mercato aperto da sfruttare.

L’ascesa della popolarità di siti come Airbnb ha dell’incredibile. Ma emularli, affrettandosi ad affittare parte della nostra casa, potrebbe essere complicato. Con la probabilità che spesso non lo si possa neanche fare perchè sarebbe in violazione dei termini imposti dal mutuo, cosa che implicherebbe spese aggiuntive, come maggiorazioni dei tassi di interesse o peggio.

 

Il marketing di Airbnb è ancorato nel contesto di una socialità virtuosa e avventurosa, basato sul concetto e sull’idea di poter dare e ricevere “ospitalità ” nelle stanze di casa non utilizzate. Eppure, come sottolinea magistralmente il libro di Tom Slee, la stragrande maggioranza delle attività di Airbnb è ora incentrata sull’affitto, non tanto di una stanza, quanto piuttosto di intere abitazioni, appartamenti o ville. Avviene così che affittuari a lungo termine in città come San Francisco vengono sfrattati dai proprietari che vedono incremente i profitti con affitti a breve termine, come appunto quelli promossi da Airbnb. Nel suo libro Tom Slee ha condotto una ricerca molto intelligente, scoprendo che il più costoso locale offerto da Airbnb a Roma è parte di un gruppo di appartamenti di lusso dislocati in vari paesi d’Europa di proprietà di un imprenditore americano, comprati con i proventi della vendita di una società di software. Il concetto di “condivisione” in questo caso è privo di significato, come lo è quello creato da Uber di “ride-sharing” (condivisione di viaggi in automobile). Che, pur assomigliando al concetto ecologico di “car-sharing” (condivisione di autovetture), non è in realtà nient’altro che un servizio di taxi. Così come non c’è “condivisione” di sorta nei servizi offerti da aziende quali TaskRabbit, dove si trovano offerte, a prezzo competitivo, di prestazioni quali piccoli lavori e faccende domestiche.

 

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Ciò che non viene esplicitamente condiviso nelle immagini pubblicitarie della “economia della condivisione” o di  “consumo collaborativo” è l’assunzione di responsabilità. Quando in una transazione di Airbnb o Uber qualcosa va terribilmente storto, la risposta che si ottiene da queste aziende è sempre la stessa: “Non è colpa mia”. (Queste mega-società non essendo né acquirente né l’offerente delle prestazioni offerte, si dichiarano essere solamente intermediari innocenti da colpe). Tom Slee dedica un capitolo del libro a come il sistema di rating per classificare le “prestazioni” fornite con i giudizi  dagli utenti non funzioni affatto, perchè spesso la gente non se la sente di dare valutazioni negative a chi se lo merita ampiamente, per cui il rating viene falsato con la stragrande maggioranza dei giudizi negativi raggruppati in voti di quattro e cinque. Piuttosto, il giudizio del pubblico dovrebbe invece essere garantito dall’azienda, imponendo un sistema di sorveglianza rigidamente disciplinato. Al contrario, queste aziende non fanno altro che insistere sul fatto che quello da loro offerto non può neanche essere considerato un servizio, essendo i loro siti web e le loro apps nient’altro che una “piattaforma di comunicazione” che collega acquirenti e offerenti (Ciò nonostante non hanno remore nell’imporre alte tariffe agli offerenti dei servizi, con le percentuali di Uber che sono cresciute nel tempo fino ad arrivare al 30% del totale del prezzo finale). Né, notoriamente, Uber considera i sui autisti come dipendenti dei quali assumere la piena responsabilità, chiamandoli piuttosto “operatori indipendenti “.

 

Tutte queste artificiose impalcature create da Uber, Airbnb e aziende  simili non sono altro che scaltre operazioni tendenti ad aggirare tutta la legislazione emanata nel corso di vari decenni al fine di proteggere sia affittuari che proprietari, sia i tassisti che i loro passeggeri. Colpiti dalla loro grande popolarità e dal loro peso finanziario, la maggior parte dei legislatori si fanno in quattro per accoglierne tutte le richieste. Come ad esempio lo stato della California, il quale ha ultimamente approvato uno statuto speciale che riconosce Uber e tutti i suoi concorrenti come “aziende operanti nel settore trasporti”. L’anno scorso l’Alta Corte di Giustizia inglese, in risposta ai reclami da parte dei conducenti di taxi di Londra, ha decretato che lo smartphone di un conducente della Uber non è un “tassametro”, perché la misurazione delle distanze tramite il GPS e il calcolo delle tariffe vengono effettuate su internet. (Cosa che tecnicamente ne fa operatori non soggetti alle regole applicate alle società di taxi operanti in Inghilterra – ndr). Questo non è altro che un’inadempienza, perversamente creativa, nell’applicare le vigenti norme legislative, dato che “tassametro” nei veicoli a noleggio privato viene definito a norma di legge come “un dispositivo per il calcolo della tariffa che deve essere applicata a qualsiasi viaggio con riferimento alla distanza percorsa o al tempo trascorso dall’inizio del viaggio (o anche una combinazione di entrambi)”.

Niente di quanto menzionato sopra indica che queste redditizie operazioni di pseudo “condivisione” non possano essere impostate a beneficio pubblico. L’introduzione a Parigi nel 2007 del sistema di ciclo-noleggio Vélib ha portato grandi vantaggi per i residenti, e ora Autolib offre con simile successo il noleggio di auto elettriche. Nel frattempo, molti di noi continueranno ancora ad utilizzare Uber. Criticare non è prerogativa esclusiva di coloro che sono ammiratori sfegatati delle alte tariffe dei tassisti di Londra e della loro abitudine di andar veloci quando piove. Tom Slee sottolinea giustamente che le sue argomentazioni non sono legate alla preferenza sua o dei suoi lettori ad utilizzare o meno questi servizi. Oggigiorno siamo soggetti a disinformazione come il voler farci credere che la scelta dei consumatori sia onnipotente. Mentre, piuttosto, l’idea che il diritto sovrano delle scelte dei consumatori porta sempre ai migliori risultati è spesso utilizzata nell’interesse delle imprese per sfuggire a leggi e regolamenti. Cosicchè Slee, pur continuando a utilizzare i servizi di Airbnb, esorta le autorità cittadine a cercare di regolamentarle più strettamente. Non essendoci alcuna contraddizione nel decidere di tornare a casa da una festa con i mezzi della Uber, augurandosi nel frattempo che il comportamento dei suoi conducenti migliori. Alla fine solo un’adeguata legislazione può costringerli a farlo.

 

Per approfondimenti:

Uber, Airbnb & co: la sharing economy e il prezzo del risparmio
Sharing economy, cosa è (e perché è difficile dire cosa è)

 

Sharing economy; cosa non va?

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