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Cosa avresti sempre voluto sapere sul rating e le banche ma avevi paura di chiedere

il rating, lo spread e le banche; quello che sarebbe opportuno sapere

Quello che ha fatto uscire l’Europa dal Medioevo e l’ha proiettata nel futuro è stata un’invenzione che oggi è oggetto di alcune tra le peggiori maledizioni: quella delle banche. La grandezza dei Medici, e di tutte quelle famiglie toscane che intuirono le potenzialità della nuova attività economica, non fu originata dall’enorme patrimonio artistico prodotto in quei secoli: essa ne fu l’effetto, mentre la causa originaria fu le grande ricchezza accumulata con lo sviluppo dei commerci internazionali che solo ingenti capitali potevano consentire.

Sino al tardo Medioevo le prime banche (o per meglio dire “banchi”) erano sostanzialmente delle casseforti dove chi disponeva di denaro da mettere al sicuro lo consegnava ai “banchieri”, perché lo tenesse in custodia in luoghi protetti, pagando una commissione per il deposito. Sostanzialmente al momento della necessità, al legittimo proprietario sarebbero state restituite le stesse identiche monete che egli aveva depositato.

Fu con l’invenzione dei titoli di credito (sostanzialmente delle lettere nelle quali si dava atto del trasferimento di una certa quantità di denaro da una persona ad un’altra) che quei denari, che sino ad allora erano stati oggetto diretto dei pagamenti commerciali mediante la consegna in cambio di merci, passarono di mano da una persona ad un’altra, magari a centinaia di chilometri dal luogo in cui quei denari restavano depositati al sicuro, con il semplice trasferimento di un foglio di carta firmato da un banchiere.

Iniziato il processo, esso è divenuto inarrestabile, producendo anche storture, non negli strumenti (per esempio i famigerati derivati, che vogliono significare molte cose spesso diverse tra loro), ma nel loro utilizzo. Le banche di oggi poco hanno a che vedere con quelle di cinque o sei secoli or sono; tuttavia, anche se oggi sono aziende enormi, spesso ramificate in più paesi,  continuano sostanzialmente a svolgere la stessa attività che ebbe origini dalle intuizioni medievali: raccolgono denaro da chi dispone di risparmi e convogliano questi risparmi verso chi necessita di prestiti, ed ha, o meglio dovrebbe avere, la capacità reddituale per rimborsare quei soldi in un lasso di tempo prestabilito.

 

A fronte di questa attività di intermediazione le banche si pongono in duplice veste:

1) Giuridica: diventano debitrici nei confronti dei depositanti e creditrici nei confronti di coloro ai quali hanno prestato; questo significa che il rapporto delle banche è diretto, sia nei confronti di chi deposita che di chi chiede prestiti, e se questi ultimi non rimborsano alla scadenza, le banche non possono onorare i propri impegni con i depositanti. Che poi non sempre abbiano prestato con criterio il denaro ricevuto è un altro discorso.

2) Economica: per la loro attività riscuotono interessi e commissioni da coloro ai quali hanno prestato denari e/o servizi, con i quali pagano interessi a ha depositato il denaro. Il differenziale esistente tra il tasso debitore che le banche pagano ed il tasso creditore che al contrario incassano (sostanzialmente uno “spread”), è una variabile dipendente da molti fattori, in parte interni alla banca (efficienza che incide sulla concorrenza), in parte riguardante ogni singolo debitore al quale la banca presta soldi: più il debitore è affidabile (patrimonio e reddito) più è in grado di mettere in concorrenza le banche, e, per ciò di contrattare un tasso a lui più favorevole.

I debitori ottengono dalle rispettive banche un loro personale rating (valutazione), in base al quale si determina la finanziabilità della richiesta di prestito ed il tasso al quale essa debba essere regolata: più alto è il rating meno si paga di interessi. Non sempre è funzionato esattamente così, ma chi adesso ha rapporti di debito con le banche sa che il problema di affidabilità e di rating è sostanziale per ottenere credito e per ottenerlo a tassi accettabili.

 

 

E qui nasce il problema dei problemi; ogni azienda, per poter svolgere un’attività economica, ha necessità di capitali che possono derivare dai conferimenti dei soci (azionisti nel caso delle Società per azioni – Spa) e dai prestiti (obbligazionisti e banche o altre istituzioni finanziarie): più alta è la quantità di denaro di cui l’azienda dispone autonomamente, minore sarà l’esigenza di chiedere denaro a prestito, minori saranno complessivamente gli interessi da dover pagare, i quali vanno ad erodere in maniera più o meno significativa i margini di utile realizzati dall’attività produttiva aziendale; margini che, occorre chiarirlo, non sono omogenei in tutte le aziende, ma dipendono da vari fattori anch’essi interni ed esterni. E’ chiaro quindi che più un’azienda riesce a produrre profitti, maggiore sarà la sua capacità, da un lato di ottenere autonomamente i capitali da reinvestire nel processo produttivo, e dall’altro di rimborsare agevolmente sia gli interessi sui debiti che il capitale a scadenza.

 

Tutto questo per spiegare che, seppur gli Stati non sono assimilabili automaticamente alle aziende commerciali, un qualche ragionamento su spread, indebitamento e capacità di rimborso dei prestiti lo si può fare mutuando alcuni dei concetti di base sino ad ora espressi.

1) L’ampiezza dello spread sugli interessi pagati sul debito pubblico rispetto a quello che convenzionalmente si definisce il “rischio zero” (nel caso specifico dato dal debito di paesi economicamente solidi come la Germania) non è altro che il premio preteso dai creditori per assumersi il rischio insito nei titoli che vanno ad acquistare; e chi sono questi creditori? Normalmente sono banche e grandi istituzioni finanziarie, constatato che oramai da molti anni i singoli risparmiatori si rivolgono ad altri strumenti per diversificare il rischio anche in portafogli singolarmente piccoli. E come fanno le banche a decidere a quale prezzo acquistare i titoli, e quale tasso sia congruo richiedere? Trattandosi di titoli di debito di Stati (così come avviene per alcune grandi aziende quotate) vi sono agenzie specializzate nel determinare il rating da attribuire ai singoli emittenti, ma anche alle singole emissioni del debito pubblico (per esempio, la durata di un titolo può determinare un maggiore o minore rating rispetto a quello attribuito allo Stato emittente, in quanto si può ragionevolmente ritenere che la solvibilità del debitore sia più incerta al prolungarsi della scadenza).
Chi grida allo scandalo rispetto a questi meccanismi, semplicemente non sa di che cosa sta parlando, oppure è in malafede.

 

2) L’indebitamento di uno Stato non può essere considerato alla stregua di quello di un’azienda, banalmente perché lo Stato non produce profitti ma eroga servizi, per cui il livello di indebitamento che esso può raggiungere va considerato in modo diverso: se un’azienda fosse indebitata per un importo pari al fatturato (che convenzionalmente possiamo assumere come omogeneo al PIL), essa probabilmente avrebbe un rating piuttosto basso e grosse, anzi enormi difficoltà ad indebitarsi ulteriormente; inoltre pagherebbe interessi molto elevati, a meno che i profitti che essa potrebbe produrre non fossero talmente elevati da giustificare quell’indebitamento; si parla in tal caso dell’effetto leva, cioè banalmente della capacità dell’azienda di trarre profitti più che proporzionali rispetto a quanto  essa è costretta a pagare in interessi passivi sui debiti. Tradotto in termini contingenti, l’extra-deficit proposto nella nuova manovra finanziaria dal Governo Conte avrebbe un senso e sarebbe giustificato sulla base dal cosiddetto “moltiplicatore keynesiano” (da J.M. Keynes al quale talvolta impropriamente viene attribuito), cioè dalla capacità che nuovi debiti possano generare un incremento dei consumi, e questi portare ad un aumento delle imposte (dirette, indirette, accise) tali da essere multiplo degli interessi passivi sul nuovo debito prodotto. Premesso che gli effetti di questo “moltiplicatore” si sono verificati solo in fase di recessione (e adesso non lo siamo), e solo quando si è dirottata una componente importante dei nuovi debiti in investimenti (questa seconda parte assente almeno al momento nel DEF), si tratta in ogni caso di una scommessa sui cui esiti molti al momento sono scettici, proprio perché i presupposti (fase di recessione ed investimenti) sono sostanzialmente assenti; i soli consumi, accertata la difficoltà evidente di canalizzarli esclusivamente su prodotti di origine italiana, difficilmente basteranno. Di sicuro c’è che l’aumento dello spread assorbirà parte delle risorse, e se non si arriverà ad un riequilibrio nel tempo porterà inevitabilmente al default. Se il moltiplicatore non dovesse funzionare come nelle ottimistiche previsioni del Governo Conte, il nuovo debito servirà per pagare gli interessi dello stock complessivo in maniera sempre maggiore, e tutto finirà per assomigliare sempre più al più classico “schema Ponzi” nel quale i truffati alla fine saranno i cittadini.

 

3) La solvibilità di un’azienda è data sostanzialmente dalla possibilità che essa ha di produrre profitti con i quali pagare in parte gli interessi sul prestito ed in parte rimborsare lo stesso a scadenza (eventualmente per farne poi un altro a fronte dell’inizio di un nuovo ciclo produttivo e nuovi investimenti). Le garanzie offerte (patrimonio dell’azienda e/o dei soci, quando possibile) per ottenere il finanziamento si assumono come accessorie, e sarebbero utilizzate solo nel caso in cui, per tutta una serie di eventi inattesi ed imprevedibili, alla scadenza non vi fosse possibilità parziale o totale di rimborso, inducendo così i creditori a rivalersi su di esse. Per gli Stati cambia molto, quasi tutto: le numerose ma non numerosissime volte nelle quali uno Stato si è trovato nell’impossibilità di fare fronte ai propri impegni, il default ha avuto come conseguenza inevitabile l’impossibilità di ricorrere ulteriormente ai mercati finanziari, ma altre iniziative come per esempio il sequestro delle navi e delle ambasciate di proprietà dello stato insolvente non si sono mai intraprese, almeno per quanto io possa ricordare.

 

 

A tale proposito alcuni sostengono che il nostro debito pubblico è sostenibile, in quanto la ricchezza complessiva della nazione (patrimonio pubblico + patrimonio privato – debiti dei privati) è largamente superiore al suo ammontare complessivo; vogliono forse farci credere che nel caso in cui l’Italia risultasse insolvente pagherebbero anche i singoli cittadini? Siamo tutti pienamente coscienti del fatto che nominalmente su ogni nuovo nato grava un debito di oltre 30.000 euro senza che egli abbia fatto altro se non il primo vagito della sua vita? La verità è che si dà per scontato che una buona parte dei debiti pubblici non verranno mai rimborsati, e l’Europa a prudente (forse anche troppo) trazione tedesca ha deciso che quella quota di debito che può ragionevolmente essere considerato consolidato è data da una percentuale del PIL non superiore al 60%; in relazione a ciò nel fiscal compact (legge costituzionale 2012) è stata prevista una riduzione annua del debito per arrivare nel tempo a quella percentuale, mentre noi che attualmente siamo a più del doppio (131% circa), anziché ridurlo intendiamo aumentarlo, confidando sul fatto che l’incremento di debito permetta mediante il moltiplicatore keynesiano non solo di incrementare il PIL, ma anche di acquisire maggiori risorse tali da consentirci, nei prossimi anni, di ridurre sia il deficit che lo stock di debito.

 

 

Chi determina il rating degli Stati? Le agenzie maggiormente accreditate, tra le molte che stanno sorgendo a livello internazionale, sono tre e tutte statunitensi; possono le agenzie di rating sbagliare nel loro giudizio? Certamente! E’ accaduto con Lehman Brothers, le cui obbligazioni erano valutate “AA” da Standard & Poor’s appena pochi giorni prima del default; si scoprì ben presto che quei buontemponi della L.B. erano stato molto abili, non solo a falsificare i bilanci, ma anche a tenere a lungo nascoste le loro difficoltà.
Le Agenzie di rating hanno margini di soggettività per attribuire i rating? Certamente! Sono formate da persone riunite in comitati che analizzano gli studi effettuati su tutta una serie di variabili economiche, al fine di attribuire un giudizio sintetico, e per di più pagate da coloro che devono giudicare. Inoltre non sempre le varie agenzie sono concordi nei loro giudizi, anche se gli scostamenti tra l’una e l’altra difficilmente sono ampi .
L’importanza del rating è data dal fatto che le norme europee sconsigliano alle banche l’acquisto di titoli aventi rating inferiore a BBB (Standard & Poor’s), rating attualmente attribuito ai titoli di Stato italiani; quindi, se le agenzie ci degradano ulteriormente, non ci sarà più chi ci presterà soldi nei canali tradizionali, e dovremo cercarne altri: a quale prezzo? Tra gli acquirenti possibili più interessati, la Cina rappresenta per molti stati una sorta di “prestatrice di ultima istanza”; i cinesi hanno già sostanzialmente acquisito il porto del Pireo ad Atene, e messo gli occhi sul porto di Trieste: chissà quanto lo valutano? E poi, cosa vendiamo loro?

 

Chi determina lo spread? Il mercato, coloro che prestano denaro ad uno Stato! Inizialmente lo spread agisce sul mercato secondario dove si negoziano i titoli già emessi, ma poi finisce con l’avere conseguenze anche sulle nuove emissioni in corso determinandone il tasso.
È possibile che le banche sottovalutino o sopravvalutino un titolo, agendo conseguentemente sullo spread? Certamente! Ma occorre anche aggiungere che così facendo finiscono per danneggiare anche se stesse: aumentando infatti lo spread italiano in negoziazione sul mercato secondario, automaticamente diminuisce il valore dei titoli italiani che esse hanno già in portafoglio. Poi mi si spieghi anche perché a essere presi di mira sono sempre i soliti Stati, e non la Germania, la Francia, l’Austria, il Canada, la Svizzera; solo perché sono più potenti economicamente o finanziariamente di noi? E allora, perché se la prendono con l’Italia? Non credo che Junker abbia fatto qualche telefonata chiedendo di massacrarci dopo che un conclamato bevitore (almeno se dobbiamo basarci sui suoi continui selfie) lo aveva accusato di essere un ubriacone, ma il fatto stesso che questo spiacevole fatto sia accaduto non depone certo a favore di uno Stato che ha messo il conclamato bevitore a fare il Ministro; e qui mi fermo, anche se altro ci sarebbe da aggiungere.

 

Noi non siamo debitori affidabili. Non lo siamo perché non ci sentiamo parte dello stato al quale apparteniamo, ma lo consideriamo semplicemente un bancomat a plafond illimitato al quale ricorrere ogniqualvolta ne abbiamo bisogno, per poi capitalizzarne i benefici, ognuno nei limiti delle proprie possibilità; non lo siamo perché ad ogni elezione, qualunque sia la durata della singola legislatura, cambiamo le carte in tavola e smentiamo ciò che avevamo detto prima; non lo siamo perché non ci prendiamo mai (singolarmente e collettivamente) le colpe che abbiamo, scaricando sempre la responsabilità su altri. Ed è per questo che oggi gridiamo allo scandalo contro le agenzie di rating, contro lo spread, contro le banche, contro la Germania, e contro chiunque ci tratti per ciò che siamo: dei pagliacci governati da pagliacci capaci solo di fare annunci senza mai spiegare come alle parole seguiranno i fatti.
Dei pagliacci, non c’è grande scelta sulla possibile definizione da dare all’attuale governo, non dopo aver letto le modalità ed i contenuti della conferenza stampa del 3 ottobre a Palazzo Chigi.

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