le storie

Wakantanka (Il grande Spirito)

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Chi come me ha vissuto la propria infanzia tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60 ricorderà come il regalo più comunemente utilizzato nelle ricorrenze (compleanni e Natale), facesse fatalmente riferimento all’Epopea Americana della conquista del West: fucili, pistole, cappelli a larghe falde e pantaloni sfrangiati, riportavano noi bambini alle scene dei pochi film che allora potevamo vedere oltre ai cartoni animati di Walt Disney.
A parte Carnevale (quando una bella chioma piumata sicuramente aiutava alla costruzione di un mascheramento riuscito, anche se molto sfruttato), nei giochi di tutti i giorni, fare l’indiano (nel senso del Pellerossa) era da sfigati perché finivi fatalmente per essere braccato e catturato mentre gli altri, i cow-boys, risultavano sempre vincitori di quegli interminabili scontri a fuoco nei quali l’arma letale era la saliva che fuoriusciva dalla bocca nel mimare l’esplosione dei proiettili.                                           Wakantanka (Il Grande Spirito))

L’educazione su cosa fosse il bene ed il male, di quali fossero i buoni ed i cattivi si riduceva alla contrapposizione tra cow-boys ( i buoni) e gli indiani (i cattivi); tutta la letteratura e la filmografia del tempo riproduceva questo schema con qualche variante non meno infida dove una tribù di indiani si alleava con i bianchi per combattere una tribù avversaria, sempre pronta, però, a tradire i nuovi alleati per ricongiungersi ai loro simili: Capitan Miki e il Grande Blek, per fare dei nomi di famosi fumetti di allora, per non parlare della nutritissima filmografia lasciataci da Jhon Ford e interpretata da Jhon Wayne.                              Wakantanka (Il Grande Spirito))

Fu per noi una sorpresa scoprire con la filmografia “revisionista” della fine anni ’60 e anni ’70, che le cose non erano andate proprio così; ricordo con nitidezza le emozioni che provai nell’assistere al film Soldato blu dove, per la prima volta forse, la storia veniva narrata in modo sconvolgente per i nostri canoni: i nativi non erano più quell’orda crudele e spietata che tagliava lo scalpo a tutti i bianchi che capitavano a tiro ma un popolo che avrebbe voluto vivere nella propria terra, rispettoso della natura e in pace con gli altri ma che le circostanze avevano tramutato in strenui difensori delle proprie tradizioni, sino all’estremo sacrificio.                Wakantanka (Il Grande Spirito))
In Italia, già dal 1949, Sergio Bonelli aveva piano piano tentato di introdurre queste nuove chiavi di lettura; il suo Tex Willer non era un nemico degli indiani a prescindere, anzi, era divenuto parte della tribù dei Navajos e, tutt’al più, combatteva le tribù nemiche dei suoi amici nativi.                           Wakantanka (Il Grande Spirito))

Nella filmografia italiana, Sergio Leone fece un’operazione diversa, quasi pudica, lanciando una fortunatissima serie di film (forse i più belli del genere, tant’è che persino gli americani ne presero esempio), nella quale i nativi scomparivano dalla scena, lasciando che i buoni e i cattivi (insieme ai belli ed ai brutti), si dividessero la scena, non più nelle praterie del west, ma spesso nelle polverose città della frontiera dove la legge era sempre quella del più forte; i protagonisti però erano tutti bianchi (o, al più, meticci) ed i nativi non avevano più un ruolo.
In ogni caso, aperta la diga, la filmografia successiva ha largamente rivisitato tutta l’epopea, vista dalla parte di quelli che un tempo erano i cattivi e che, al contrario, cattivi non lo erano per niente: Un Uomo Chiamato Cavallo, Piccolo Grande Uomo e su, su fino a Balla coi Lupi.

 

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 Rodney A. Grant e famiglia

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È qui che entra in scena Rodney A. Grant che ho conosciuto alcuni anni or sono durante una delle sue conferenze a giro per il mondo durante le quali racconta come vivono adesso quelle poche migliaia di nativi i quali, non avendo voluto rinnegare completamente le proprie tradizioni restano confinati nelle polverose riserve dove convivono con povertà e malattie, e cercano, con ben poche speranze di far sì che la loro leggenda sopravviva ad un mondo che non li vuole più.                             Wakantanka (Il Grande Spirito))

Vento Nei Capelli (questo era il nome del personaggio che interpretava a fianco di Kevin Kostner), è oggi un uomo corpulento non altissimo ma imponente, severo, con uno sguardo che tradisce la fierezza dei suoi avi; nella sua vita ha avuto altri ruoli cinematografici ma è rimasto attaccato alla sua gente ed è venuto a raccontarci cosa è veramente accaduto.                             Wakantanka (Il Grande Spirito))
Non mi aspetto di narrare cose sconosciute, ma credo sia opportuno ricordare come la Scoperta dell’America sia stata, in realtà una delle più grandi tragedie che l’umanità abbia conosciuto; una specie di giorno (oggi) della memoria, dedicato a uomini donne e bambini che sono stati spazzati via dalla nostra “civiltà”.

Di loro Cristoforo Colombo ebbe a scrivere: “Questi indiani sono leali e privi di avidità per ciò che non è loro”. Egli viveva nell’equivoco di aver raggiunto l’India anziché aver scoperto un nuovo continente ma colse da subito l’essenza vera di quel popolo, il suo tratto distintivo rispetto a quello che, già allora, noi europei eravamo diventati: la volontà di vivere come parte della natura, nel mondo e non come proprietari sfruttatori.

Le radici di quelle civiltà indigene, più o meno collimano con le nostre ed i primi reperti sulla presenza umana in Nord America indicano che le basi di partenza sono state le stesse; eppure nel 1492 mentre quelle popolazioni mostravano un sostanziale non progresso rispetto alle origini (coperti di pelli animali e con strumenti primordiali fatti di legno e pietra), i nostri avi li incontrarono agghindati in vesti finemente lavorate armati di tutto punto e già ubriachi di ogni vizio che l’umana natura avesse saputo concepire.                  Wakantanka (Il Grande Spirito))

Al contrario quelle popolazioni vivevano di ciò che la terra concedeva loro, cacciando solo per bisogno, già coscienti allora che non tutto è infinito; noi, già padroni della fisica e dell’astronomia ci dedicavamo allo sfruttamento intensivo di tutto lo scibile mentre loro sapevano che uccidere un bisonte femmina nella stagione della gestazione significava limitare la possibilità, in futuro, di avere altra carne da mangiare.
I loro accampamenti erano composti da capanne facili da montare e smontare e quando lasciavano un luogo, questo doveva restare il più possibile integro in modo da consentire loro di tornarci e vivere in futuro, con gli stessi benefici del passato. Vivere in armonia con ciò che avevano intorno, sia alberi che animali, come parte di un tutto e non proprietari di tutto. È con questa filosofia di vita che ci conobbero e fu anche il motivo della loro fine.

Bartolomeo de Las Casas in uno dei suoi scritti coevi a Colombo ebbe a dire che quegli strani esseri “Sono barbari a noi come noi lo siamo a loro”, anch’egli cogliendo appieno la contraddizione di una modernità distruttrice al cospetto di un’arcaicità rispettosa del mondo, ma le sue parole furono gocce nel mare e, laddove non poterono fucili e pistole, riuscirono ben presto malattie e pestilenze delle quali siamo sempre stati valorosi e fieri esportatori. Nelle sue peregrinazioni, il Las Casas ebbe contatti prevalentemente con le popolazioni del Centro-Sud America, spesso molto più evolute rispetto ai nativi del Nord, ma ciò che affermò, sembrò potersi adattare perfettamente anche ai secondi.

Si calcola che nei trecento anni che vanno dalla scoperta dell’America sino alla fine del 19° secolo, furono sterminati (non saprei in quale altro modo dare adeguata definizione) tra gli 80 e i 90 milioni di persone: uomini donne e bambini vissuti tra le le Ande e le sterminate praterie del Nord America, tutti colpevoli di non aver capito l’importanza delle ricchezze di cui disponevano (oro e argento prima, terre e petrolio poi). Ciò che resta oggi della loro fierezza è disseminato tra i villaggi sperduti sulle Ande e le poche riserve in desolati angoli di povertà e miseria.
Facendo salve le notevoli differenze tra i nomadi Nord Americani rispetto alle popolazioni Atzeche, Maya ed Inca del Centro-Sud America, c’è stato un destino comune che le ha accomunate: la quasi totale distruzione. E ciò che non hanno potuto le devastazioni di allora, possono oggi, per i nativi Nord Americani superstiti, pratiche di sterilizzazione forzata, utilizzo delle riserve per sperimentazioni chimiche (pesticidi ed armi), estrazioni minerarie che inquinano le falde acquifere, un’emarginazione totale che impedisce livelli minimi di scolarità ai bambini.

Ormai la resistenza dei superstiti si è ridotta ai minimi termini, con la crescente indifferenza che il mondo sembra mostrare nei loro confronti; ciononostante restano scolpite nel ricordo le parole che uno degli ultimi grandi capi Sioux, prima di deporre le armi e accettare il confino in riserva, pronunciò amaramente:

Ci fecero molte promesse, più di quanto ne ricordi, ma ne mantennero una sola: promisero di prendere la nostra terra……e se la presero.”

Alcuni anni prima, lo stesso Nuvola Rossa ebbe a dire,

Non ci interessa la ricchezza, ciò che vogliamo è allevare bene i nostri figli. La ricchezza non è di nessuna utilità e non si può portarla con noi una volta morti. Non vogliamo ricchezza, vogliamo Amore e Pace”.                              Wakantanka (Il Grande Spirito))

Chiudo con una citazione di Engels il quale nel suo trattato su L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato così descrive la costituzione sociale dei nativi americani: “… questa costituzione gentilizia, con tutte le sue puerilità e con tutta la sua semplicità, è una costituzione meravigliosa! Senza soldati, gendarmi e poliziotti, senza nobili, re, luogotenenti, prefetti o giudici, senza prigioni, senza processi, tutto segue il suo corso regolare.”

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Wakan Tanka (The Great Spirit)

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3 comments

  1. M.Ludi 11 febbraio, 2015 at 19:35

    La situazione nelle riserve indiane è una situazione pressochè disperata; solo da pochi anni il Governo americano sta tentando, in modo parziale e con poche risrorse, di riparare ad una sorta di rimozione fisica oltrechè morale delle popolazioni native, ma sino agli anni ’80, erano in corso massicci interventi, in alcuni casi sfociati persino nella sterilizzazione delle donne mentre gli uomini venivano indotti dall’inedia all’utilizzo di alcolici (che non metabolizzano essendo del tutti privi dei necessari enzimi) e di cibi spazzatura, confinati in zone dove non potevano svolgere alcuna attività economica se non piccoli commerci di artigianato con i pochi turisti. Una grande cultura condannata all’oblio eterno dalla trasmissione orale, rivivrà forse solo per effetto della filmografia e di quel poco che riusciremo a trasmettere a futura memoria.

  2. Genesis 11 febbraio, 2015 at 06:48

    Ludi, mancando un tasto virtuale che indichi l’approvazione di un testo, di un pensiero, sono a scrivere qui la mia.
    Aggiungo solamente che ancora oggi gli USA si autodefiniscono paladini della Libertà…calpestando magistralmente la bieca storia dell’invasione europea di un continente, quello tra il Pacifico e l’Atlantico, che portò alla distruzione di intere enormi culture…cosa che ancora oggi, per il dio Denaro, viene perpetrata: non si usano più così spesso le pistole, ma i pesticidi emessi dagli aerei che aiutano alla preparazione delle foreste per la costruzione di campi di coltivazione intensiva di ciò che, sempre a noi europei, piace avere sulla tavola…una vita per una banana…

  3. Luistella 10 febbraio, 2015 at 15:04

    “Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose.
    Quando guardo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, ancora vedo
    le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone a zig-zag,
    chiaramente come li vidi coi miei occhi da giovane. E posso vedere che con loro morì
    un’altra cosa, lassù, sulla neve insanguinata, e rimase sepolta sotto la tormenta.
    Lassù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno… il cerchio della nazione è rotto
    e i suoi frammenti sono sparsi. Il cerchio non ha più centro, e l’albero sacro è morto”.

    Alce Nero

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