SET 020116-B01

di Jon Henley da Londra

(Traduzione Redazione Modus)

 

In questo periodo l’anno prossimo, la Gran Bretagna potrà benissimo aver votato di lasciare l’Unione europea. Non c’è, naturalmente, alcuna certezza su questo, ma consideriamo l’evidenza.

In primo luogo, il tempismo del voto. La maggior parte degli osservatori concordano sul fatto che David Cameron non tarderà ad indire il, da lui promesso, referendum oltre l’anno prossimo, perché non ha nulla da guadagnare dall’aspettare. Né la Francia né la Germania faranno nuove concessioni nel 2017, perché entrambi saranno a quel punto coinvolte in elezioni nazionali. Quindi meglio farla finita: nel mese di settembre, probabilmente.

In secundis, la natura del dibattito. Le campagne per il dentro e per il fuori dibatteranno dei numeri – quanti posti di lavoro si salvano restando, quanti gli immigrati tenuti fuori, lasciando l’UE, quale sarà l’impatto sul PIL – ma per molti elettori, l’Europa non ha a che fare con i numeri. È una questione di fede. Si tratta di un dibattito in gran parte impermeabile ai fatti.

E coloro che credono che per la Gran Bretagna sarebbe meglio uscire sono, anche di poco, in vantaggio. Guardare le urne: un anno fa, il campo dei pro UE era avanti con margini fino al 25%. Questo divario si è ora ridotto dai due ai quattro punti, e tre degli ultimi otto sondaggi hanno il campo dell’out avanti. Il trend sembra chiaro.

 

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Il presupposto inespresso potrebbe essere che la maggior parte dei “non so” seguirà lo status quo, ma i precedenti dimostrano che quando il voto riguarda l’Unione europea, gli elettori spesso votano di protesta. Qui, Ukip ha vinto le elezioni europee dello scorso anno; e sul continente, ogni recente referendum, eccetto uno, su una questione UE si è concluso con un no.

C’è di più, che in nessuno di questi altri paesi europei sia la stampa che il partito di governo sono così lontanamente euroscettici come in Gran Bretagna. Nel Regno Unito, la campagna per il rimanere si è logorata nel nuotare controcorrente ad una marea populista di sentimento anti-UE vecchia di decenni, e trasmessa da un’ala influente del partito conservatore e gran parte dei media.

Il primo ministro è riuscito a riassumere ciò che vuole come condizioni di riforma per rimanere, ad una lista di richieste ridotte all’osso, molte delle quali la UE potrebbe anche accettare. Ma il vero problema è se queste richieste sono in grado di soddisfare il suo stesso partito, e di avere successo – anche temporaneo – nel frenare la marea euroscettica.

Con un numero record di cittadini dell’Unione europea in arrivo in Gran Bretagna, e con altri terrori futuribili della zona Schengen, una probabile seconda estate di rifugiati e di caos migranti, una campagna ben finanziata a favore dell’uscita dall’UE che guadagna terreno, e gran parte dei media che pare essersi già schierata a riguardo, sarà un voto annunciato.

Finché Cameron, il suo gabinetto e, forse ancor più importante, Boris Johnson, non diranno presto, spesso e in modo inequivocabile che il futuro della Gran Bretagna dipende dal suo rimanere nella UE, so già dove scommetterei i miei soldi.

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1 comment

  1. Tigra 3 gennaio, 2016 at 13:52

    Mi sembra che questo sia uno dei nodi decisivi della politica internazionale; se l’Inghilterra esce dall’Unione Europea si scioglie un equivoco che data dalla sua costituzione, e contemporaneamente, se non ci sarà il fallimento del processo di unificazione, si avrà comunque il suo pesante ridimensionamento.
    L’antieuropeismo cresce praticamente dappertutto, e in Inghilterra è più forte che altrove, ma forse bisogna avere il coraggio di ammettere che l’Unione non ha fatto molto spesso delle scelte capaci di contrastarlo: se la scelta dovessere essere percepita fra un’Europa inadeguata e nessuna Europa, è molto facile che vinca la seconda.

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