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Morte, rinascita e resurrezione

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I termini “rinascita” e “resurrezione” vengono spesso utilizzati come sinonimi, pure se esiste una differenza semantica, che va evidenziata.
Il primo termine infatti ha un’accezione che si potrebbe definire “orizzontale”, collegata all’idea di ricomposizione degli elementi, all’interno dell’eterno ciclo del divenire materiale di tutti gli enti di natura (la physis dei Greci). Ogni rinascita è la ricomposizione di un’unità.
Il secondo invece, custodisce un significato “verticale”, evocato dall’immagine del “tirare su”, del “sorgere” e del “sollevare”, che già il verbo greco anìstamai suggerisce; da questo verbo deriva il sostantivo anàstasis, che nei Vangeli, insieme anche al verbo aghèiro, con una certa forzatura semantica, arriva a indicare appunto la “resurrezione” di Cristo dalla morte.
Tale verticalità del concetto, nel testo sacro assume naturalmente un significato più propriamente metafisico, intendendo la resurrezione cristiana come vita individuale dopo la morte fisica, che riprende eterna, glorificata e incorruttibile oltre il tempo e oltre la natura. In una parola, la resurrezione si identifica con la salvezza dell’anima e del corpo (Paolo di Tarso nella Prima lettera ai Corinzi parla infatti del corpo risorto come “corpo spirituale”, in greco sòma pneumatikòn).
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Premessa dunque la sfumatura di significato dei due termini,  inizio dicendo che noi esseri umani, siamo nati per rinascere; semplicemente perché nella vita si nasce e si muore spiritualmente tante volte.
Ma si rinasce ogni volta, dopo un’esperienza dolorosa, lasciando alla morte un po’ della nostra salute, della nostra carne e del nostro spirito; e portandoci al contempo, conficcato addosso – metaforicamente – anche un pezzetto di quel “pungiglione” mortifero di cui ci siamo provvisoriamente liberati. Se così non fosse, infatti, dalla vita non impareremmo niente e di nessun dolore faremmo tesoro.
La rinascita in termini qualitativi è certamente qualcosa di più della semplice vita, proprio perché avviene dopo che la vita biologica ha avuto inizio, dentro di essa, e non dopo il vuoto, da cui si viene al mondo con la nascita fisica. Però, nonostante l’innegabile intensità di tale esperienza, forse il rinascere dopo un grande dolore, non è solo gioia e felicità pura, come immaginiamo.

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Io credo infatti che, una volta incontrata e attraversata la morte – che ha mille vite e mille volti, primo fra tutti, come diceva Schopenhauer, la separazione dalle persone che amiamo – qualcosa di suo ci rimanga inevitabilmente attaccato addosso. E ce lo portiamo nella coscienza, come un sigillo perenne, a ricordarci che siamo provvisori e che dobbiamo ogni volta riformulare, con un inevitabile gradiente di amarezza, la nostra visione del mondo. Perché, se pure abbia avuto un esito positivo, ogni esperienza dolorosa ci insegna comunque che, al di là di ogni considerazione o giustificazione teoretica, il male esiste, che il dolore è la forma attraverso cui lo conosciamo, e che lascia cicatrici ogni volta che lo incontriamo.

 

Piero Della Francesca, La Resurrezione (1458-1474), Museo Civico, Sansepolcro

Dopo, quando la carne sarà divenuta polvere, forse, rimarrà solo l’anima con la sua energia, a librarsi nel volo dell’eternità come una farfalla (noto per inciso che i Greci con lo stesso termine, sonoro e poetico, psychè, indicavano i due significati).

A quel punto però, non ci saremo più noi, a godere coi nostri occhi e col nostro cuore la gioia leggera di quel volo.
Solo chi ha fede nella resurrezione cristiana – individuale, reale e non semplicemente metaforica – può sperare nel contrario.
La fede, però, se è vero che è un dono come ci insegnano al catechismo, non possiamo regalarcela da soli con un ragionamento o con la nostra volontà; pure se questa sia spinta e supportata dalla grazia, come invece diceva, non senza contraddizioni, Tommaso d’Aquino: “Credere è un atto dell’intelletto che, sotto la spinta della volontà mossa da Dio per mezzo della grazia, dà il proprio assenso alla verità divina”. (Summa theologica, II, 11, 29).
Per noi che viviamo questo tempo stanco e disincantato – dopo che la ragione ha dispiegato tutto il suo potere liberatorio, da Kant in poi, per limitarci ai secoli recenti, ma pure certi suoi effetti distruttivi, quando si è esercitata nella sua forma puramente tecnica e calcolante, soprattutto se in alleanza con la volontà di potenza che da sempre muove l’animale umano – la fede, dicevo, in questo scenario, la si ha o non la si ha, indipendentemente dalla volontà e anche dalla ragione. Si può decidere di cercarla, certo, ma non di trovarla.
E questo perché essa non scaturisce dalla necessità puramente logica dell’intelletto aristotelico-tomista, né da un atto di cosciente buona volontà, ma dal sentimento profondo di chi si sente abbandonato e privo di appigli, in un mondo sempre più irrazionale, insensato, cattivo e frammentato, e vede invece nella fede in un Dio amorevole e provvidente, il sommo bene e l’ultimo porto sicuro e realmente salvifico.
Volontà di credere e ragionamenti teologici, seppure ci sono nell’animo di un credente, penso che vengano dopo questo radicale slancio interiore, ma come sostegni eterogenei, più illusori che reali, a mio parere, e non come elementi davvero fondanti.
Posto che la fede, per definizione, riguarda realtà sperabili e invisibili (Lettera agli Ebrei, XI, 1: “Est fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium”), alla ragione riesce decisamente più facile demolirla, che dimostrarla; e la volontà, dal canto suo, ha ben poco potere sull’evidenza sconfortante della realtà, così come sui sentimenti profondi degli uomini.
E quindi inevitabilmente ciascuno vive il proprio itinerario di liberazione interiore dalla tirannia del negativo, come meglio sente e riesce a fare, nell’intimo della propria coscienza, accontentandosi di rinascite provvisorie e limitate, oppure confidando ad occhi chiusi e cuore spalancato nella certezza della salvezza finale e definitiva.
Però, se talvolta, per indicare una delle tante rinascite, usiamo il termine propriamente evangelico “resurrezione” – che la dottrina riserva solo a chi crede in Colui che ha vinto la morte sulla croce – forse lo facciamo per evidenziare la forza e lo slancio prorompente di quelle particolari esperienze di felicità e ritrovata pienezza, che invece, almeno una volta nella vita, ci è concesso di vivere a tutti, credenti e non.

 

 

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(17 aprile 2023)

 

 

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