le storie

Il viaggio di Annibale

Il viaggio di Annibale

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Il Colle del piccolo Moncenisio

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da Laura Monteleone

 

Nell’autunno del 218 a.c. un esercito cartaginese partito sei mesi prima dalla Spagna arrivava nella pianura padana attraverso uno dei passi , mai chiaramente identificato, che sono compresi fra il Piccolo Moncenisio e il Monviso.

Era un esercito stremato, decimato dal freddo, dalle malattie e dalle continue e inutili battaglie combattute durante il percorso contro gli abitanti dei territori che aveva attraversato; dai 20.000 ai 25.000 uomini, fra fanti e cavalieri, erano sopravvissuti alla folle e impensabile impresa di attraversare le Alpi, circa la metà di quelli che erano partiti, e se ad attenderlo ci fossero state le legioni romane, la seconda guerra punica non sarebbe mai iniziata, mentre la storia avrebbe dovuto fare a meno di uno dei suoi più grandi protagonisti.

Annibale aveva allora 29 anni, e dal giorno in cui era diventato il capo dell’esercito cartaginese di Spagna, tre anni prima, si era adoperato per costruire un casus belli che gli permettesse di muovere guerra a Roma, trovandolo rapidamente nella conquista di Sagunto, cosa che aveva determinato la sia pur tardiva reazione romana.

Il viaggio di Annibale

Publio Cornelio Scipione, il padre del futuro Africano, Console in quell’anno, era partito per la Spagna con l’intento di chiudere li la partita, ma non era riuscito ad intercettare l’esercito cartaginese, anche perché Annibale, che non intendeva combattere altro che in Italia, aveva rifiutato la battaglia; quali che fossero le idee di Scipione sui piani di Annibale, quella che potesse attraversare le Alpi non era contemplata, e anche se fosse mai giunto in Italia, cosa avrebbe mai potuto fare con 50.000 uomini quando Roma ne poteva mettere in armi più di mezzo milione?

 

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      Mappa della Seconda Guerra Punica(cliccare immagine per ingrandire)

 

Annibale dal canto suo non temeva affatto mezzo milione di romani in armi; era un uomo che coniugava l’anima punica alla formazione ellenistica, aveva avuto uno spartano come maestro, e aveva passato tutta la vita a prepararsi per diventare quello che avrebbe presto dimostrato di essere, il più grande generale dell’antichità: i Barcidi (da barak, folgore in lingua fenicia) erano una delle famiglie più antiche e potenti di Cartagine, al punto che nelle due generazioni di Amilcare e Annibale in alcuni momenti si sovrapponeva allo stato, o ad una sua parte.

Il viaggio di Annibale

Annibale sapeva per certo, lo aveva appreso da Alessandro, che nessun esercito con più di 50.000 uomini poteva conservare la capacità di manovra, e gli eserciti immobili vengono sempre sconfitti; sapeva, sempre da Alessandro, che l’uso delle armi combinate, fanteria e cavalleria, era in grado di travolgere gli eserciti che come quello romano combattevano solo o prevalentemente a piedi; era poi alla testa di un’armata di professionisti, i suoi soldati erano tecnicamente dei suoi dipendenti, e sempre gli sarebbero rimasti fedeli fino alla morte, mentre gli eserciti romani erano eserciti di leva, formati da contadini appena decentemente addestrati, e guidati da generali a tempo determinato, che sarebbero scaduti alla fine dell’anno con il mandato consolare.

Infine i romani combattevano come Ettore e Achille, in campo aperto, con gli eserciti schierati e con piena fiducia nella lealtà del nemico, perché i rapporti fra “giusti nemici” sono regolati dalla “fides”, mentre lui, Annibale, combatteva come Ulisse, perché la guerra “moderna” si fonda sulla “metis”, una concezione che i romani allora non potevano neppure lontanamente comprendere.

No, per assurda che la cosa potesse sembrare, Annibale non temeva di poter essere sconfitto in nessuna battaglia campale, e contava di poter staccare da Roma, sull’onda dei successi militari, un numero sufficiente di alleati per indebolire la Repubblica e impedirle di nuocere o di limitare Cartagine; il piano di Annibale, possiamo dirlo subito, sarà militarmente un successo e politicamente un disastro.

 

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Il Trebbia oggi a Rivergaro, ai piedi delle colline in
 cui Scipione cercò rifugio dall'esercito di Annibale.

 

Sul volgere dell’inverno del 218, nessun esercito romano era acquartierato ai piedi delle Alpi occidentali, e Annibale, scendendo da quel passo che è rimasto sconosciuto deve aver sorriso, nonostante le perdite e la fatica, pensando che aveva evitato l’unica eventualità che veramente temeva, essere costretto a combattere senza aver scelto il momento e il luogo.

I due anni successivi sono diventati una cantilena sui moderni libri di storia: il Ticino, la Trebbia, il Trasimeno ed infine Canne sono state tutte battaglie da manuale, nelle quali Annibale ha riscritto l’arte della guerra per i secoli a venire; non sono tanto le vittorie, quanto la varietà delle soluzioni tattiche applicate e il bilancio delle perdite dei due eserciti in campo a lasciare del tutto a bocca spalancata.

La battaglia del Ticino è stato in realtà un semplice scontro di cavalleria, poco più che una scaramuccia, destinata a rimanere famosa solo perché vi è rimasto ferito Scipione, e soprattutto perché il suo giovane figlio ha iniziato il suo lungo apprendistato di soldato salvando la vita al padre.

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Busto di Publio Cornelio Scipione Africano

 

La battaglia della Trebbia è stata il primo vero assaggio della guerra annibalica: i romani sono stati attaccati prima dell’alba del 25 dicembre, mentre erano intenti nelle abluzioni mattutine, da un esercito rifocillato, riscaldato dai fuochi e ben coperto, attirati progressivamente fuori dal campo, divisi in due tronconi sulle opposte rive del fiume, ben presto bagnati e gelati oltre che affamati, e attaccati di volta in volta da contingenti riposati e asciutti che si davano il cambio; prima che all’imbrunire circa metà dell’esercito riuscisse a scappare erano rimasti sul terreno fra i 15.000 e i 20.000 legionari, e se anche non si conoscono le perdite cartaginesi, ben difficilmente saranno state superiori a quelle delle altre battaglie (più o meno il 10% di quelle dei romani).

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La battaglia del Trasimeno è stata una imboscata tesa in una mattina nebbiosa all’esercito romano in marcia sulla riva del lago, in un punto nel quale gli era impossibile qualsiasi movimento che non fosse quello di finire in acqua, dove in effetti moltissimi legionari annegarono: 15.000 morti e 15.000 prigionieri, a fronte di 1.500 cartaginesi caduti (in realtà la maggioranza delle perdite si registrava sempre fra i galli, che per il loro modo di combattere selvaggio, indisciplinato e ingestibile, finivano sempre nei punti dove le linee puniche, nei piani di Annibale, dovevano cedere).

 

La battaglia di Canne, 80.000 romani contro 40.000 cartaginesi, è stata la più grande manovra di accerchiamento della storia militare: la formazione di Annibale, una linea convessa rivolta al nemico, con il centro che combatteva e con le ali arretrate e arma al piede, ha iniziato a cedere ed indietreggiare nel punto di contatto, diventando progressivamente concava, mentre a destra e a sinistra le cavallerie puniche, superiori in numero e addestramento, sbaragliavano quelle romane; quando la linea è stata sufficientemente concava, le ali cartaginesi si sono chiuse convergendo sui romani, mentre la cavalleria attaccava da dietro, realizzando in modo definitivo una trappola perfetta.

 

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 La battaglia di Canne, progressione delle formazioni in 5 schede

 

Si dice che la tonnara sia stata inventata dai fenici, e forse questa è la prova: 50.000 romani sono stati massacrati in un pomeriggio, all’arma bianca in uno spazio grande come un campo da calcio, e mentre di nuovo il giovane Scipione salvava la pelle meditando sull’arte del guerra, rimanevano sul terreno un centinaio di senatori e qualche decina di ex consoli e pretori, a riprova del fatto che nel mondo antico si aveva un diverso concetto di classe dirigente.

 

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   Topografia e disposizioni sul campo all'inizio della battaglia di Canne.
                (cliccare immagine per ingrandire)

 

Coi 6.000 uomini caduti a Canne, Annibale ne aveva persi meno di 10.000 in due anni scarsi di guerra, meno di quelli periti nel viaggio dalla Spagna, mentre Roma contava perdite che superavano le 100.000 unità, compresi molti prigionieri, e soprattutto, come lascito di questi massacri, provava un diffuso senso di impotenza di fronte al nemico: i romani erano stati sconfitti su tutta la linea, senza discussione, ma negarono l’evidenza e quando Annibale offrì il negoziato si rifiutarono semplicemente di considerare l’ipotesi.

Quella che seguì fu la prima “guerra mondiale” della storia, logorante, sanguinosa, con città che cambiavano fronte o passavano di mano, con le campagne saccheggiate ed un progressivo impoverimento dell’intera Italia, una guerra nella quale Annibale riportò altre vittorie senza subire particolari sconfitte, ma che alla fine perse, perché la Repubblica aveva già una struttura “nazionale”, non era più una semplice città stato, e soprattutto perché, mentre resisteva contro ogni logica, riuscì a cambiare la propria organizzazione militare e le modalità di attribuzione del comando; quando nel 203 Annibale fu richiamato in patria, il giovane Scipione aveva già sottratto la Spagna ai cartaginesi e, passato in Africa, in soli due anni di guerra aveva messo in ginocchio la città punica, dimostrando di aver imparato e perfezionato l’arte della guerra e fatto tesoro degli insegnamenti di quello che doveva considerare il suo vero maestro.

 

    La battaglia di Zama

 

A Zama vinse Scipione, che era un grande generale, ma la sua vittoria, ottenuta in condizioni di chiara superiorità (un esercito professionale contro un esercito fatto per due terzi di reclute male addestrate) fu forse legata alla fortuna più di quanto la storiografia non abbia in seguito ammesso.

 

Ai Campi Magni Scipione aveva sconfitto un esercito punico accerchiandolo senza usare la cavalleria. Aveva schierato gli hastati in prima fila, formando la linea di combattimento, e posizionato dietro di loro le centurie di princeps e triarii; i due schieramenti avevano la stessa larghezza, e ciò ha consentito a Scipione di far scorrere princeps e triarii a fianco dei due eserciti, fino a girare alle spalle della retroguardia cartaginese per chiuderla in trappola, perfezionando la manovra di Annibale. A Zama tentò di ripetere le stesso schema, ma le cose andarono diversamente; la cavalleria cartaginese, ormai irrilevante rispetto a quella romana grazie al cambiamento di bandiera dei numidi, era scappata solo per farsi inseguire, e proprio mentre Scipione stava per dare l’ordine di accerchiamento, si accorse che la terza fila cartaginese, quella dei veterani d’Italia, era rimasta indietro, e lasciando aria fra sé stessa e la prima linea impediva l’esecuzione della manovra di accerchiamento effettuata ai Campi Magni: l’allievo non aveva ancora superato il maestro.

 

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   Battaglia dei Campi Magni - Manovra a tenaglia attorno ai Celtiberi.

 

Scipione fu costretto a rinunciare e ad allargare ed assottigliare il suo schieramento fino a pareggiare quello cartaginese, per non rischiare di essere a sua volta aggirato, e la battaglia divenne uno scontro all’ultimo sangue fra i veterani d’Italia, più freschi, e le legioni dei sopravvissuti di Canne, in punizione dal 216; alla fine la battaglia e con essa la guerra fu vinta dai romani, forse immeritatamente, grazie al ritorno della cavalleria numidica.

Annibale aveva allora 46 anni, e tutta una vita davanti; oltre che un grande condottiero, spietato in guerra ma non personalmente crudele, era un uomo colto, poliglotta, amante dell’arte, morigerato nei costumi, eccellente agronomo, abile uomo d’affari e fine politico.

Trattò la pace coi romani, assunse i suoi uomini come contadini per coltivare le sue terre, il patrimonio della sua famiglia era immenso, e divenne sufeta (capo del governo) di Cartagine, con la probabile intenzione di trasformarla in una sua signoria personale: quando obbligò l’aristocrazia punica a pagare le tasse, questa gli si rivoltò contro e chiedendo l’aiuto dei romani lo costrinse all’esilio.

 

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Artassa, nell’attuale Armenia

 

Fu ancora soldato, al servizio di Antioco di Efeso, ma senza reali poteri militari, e poi urbanista, prima al servizio di Artassa, nell’attuale Armenia, dove costruì la nuova capitale del regno, Artaxana, e poi in Bitinia, dove costruì in onore del re Prusia l’attuale Bursa.

 

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Prusia I°, il re di Bitinia, nell'attuale Anatolia

 

Alla fine i romani, stanchi dei suoi tentativi di spingere il mondo ellenico ad allearsi contro Roma, chiesero la sua testa a Prusia, che acconsentì, e del resto, come avrebbe potuto rifiutare…; tutti sappiamo il seguito, lo abbiamo studiato a scuola, Annibale preferì la morte, e concluse il suo viaggio a 67 anni sulle rive del mar Nero; cosa resta nella storia del viaggio di Annibale?

 

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  Il Castello di Annibale a Libissa dove morì,
vicino all'odierna Gebze, 40 km a est di Bisanzio.

 

A mio parere un sogno, quello di un uomo che aveva immaginato di essere Alessandro e di continuare la sua impresa, ma mentre il mondo si apriva davanti alle armate macedoni, e si ellenizzava in modo quasi entusiasta, davanti a quelle di Annibale si chiudeva, e resisteva, e combatteva all’ultimo sangue: forse la differenza sta nel fatto che Alessandro rappresentava un mondo e una cultura, l’ellenismo, nel momento della sua massima espansione, mentre Annibale rappresentava sé stesso che voleva imporre al mondo quella stessa cultura ormai in via d’esaurimento; la seconda guerra punica è stata in realtà la guerra annibalica, la guerra di un uomo contro uno stato, e probabilmente per questo è stato impossibile vincerla, a dispetto di tutte le battaglie dominate, compresa Zama, dove gli dei si sono probabilmente voltati dall’altra parte.

Personalmente credo che sia stato un peccato, perchè immagino che la cultura greca avrebbe opposto un ben più solido baluardo alla cultura giudaico cristiana e ai disastri che ha causato nella storia del mondo, ma questo è impossibile da dimostrare.

Il viaggio di Annibale

 

 

 

Damnatio memoriae
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9 comments

  1. Fralive 29 maggio, 2016 at 14:41

    Grazie Kokab! Bellissima questa tua ricostruzione del viaggio di Annibale. In poco spazio (cosa che rivela una profonda conoscenza dell’argomento) mi hai fatto ripercorrere le tappe fondamentali del lungo viaggio di uno dei miei modelli preferiti di guerriero e di condottiero.
    Credo che ognuno di noi abbia bisogno di modelli, per stimolare e tenere vive quelle parti del nostro animo capaci di affrontare le battaglie della vita. Gli antichi lo sapevano bene, e il mito in fondo non è altro che una grande carrellata di esempi da seguire (o da evitare), ma in ogni modo da riconoscere gestire e scegliere dentro di noi.
    Sono tanti i modelli che popolano il mio immaginario interiore e mi aiutano a “reggere” quando sento di non farcela più, che mi danno consigli per “ritrovare la strada” quando sento di essermi persa davvero. Io li chiamo “i miei amici”. Sono tutti morti da secoli, ma vivissimi dentro di me. Quando ho bisogno, li chiamo… E arrivano subito… Parlano con me e non si stancano: sono pazienti, incoraggianti, a volte duri (ma sempre illuminanti)… Soprattutto sono discreti: sanno quando è il momento di andarsene e non si offendono mai.

    Anche Annibale aveva i suoi modelli: Achille, Alessandro. e – come giustamente indichi tu – Ulisse.
    Ma Annibale ha fatto qualcosa di più. E’ andato oltre, diventando mito egli stesso, affrontando un’impresa che aveva e conserva ancora i caratteri dell’“impossibile”.
    A pensarci bene, tutti i miei modelli hanno un po’ questa particolarità che me li rende “amici”: non si spaventano di fronte all’“impossibile”!… Anzi!… Quasi quasi ne sono attratti… Come se si trattasse di una sorta di “garanzia di riuscita”…
    E Annibale è un vero campione in questo. Il “difficile” per lui non era sufficiente!…Ci rilanciava sopra!… continuamente!…
    Che meraviglia!…

    • Kokab 29 maggio, 2016 at 17:20

      sui modelli di annibale vale la pena di fare qualche precisazione.
      certamente alessandro era un riferimento fondamentale, perchè come sarebbe successo a lui era un uomo diventato mito, già in vita e dopo la morte, ma sui miti veri e propri il modello era certamente ercole, il melqart dei fenici, sulla cui biografia annibale, che curava evidentemente la propria immagine, aveva costruito la sua: melqart aveva sconfitto gerione, che coi suoi armenti stava in spagna, e poi, passate le alpi, si era fato un giro nel lazio, guarda un po’, uccidendo un mostro di nome caco.
      ercole/melqart nell’antichità era un mito universale, e ovunque era il buono che sconfiggeva i cattivi; annibale aveva indubbiamente un’ottima opinione di sè stesso, e siccome sapeva vendersi bene, paragonarsi a melqart sarà una costante della sua storia in vita.
      l’altro, tornando agli umani, sul quale ci sono meno certezze, può essere lisandro; annibale aveva avuto uno spartano come precettore, e lisandro dei generali di sparta è quello a lui più vicino, capace di ogni sotterfugio in guerra, ma bacchettone all’inverosimile nella conduzione della propria vita privata, e anche qui i conti tornano.
      ti assicurò però che addentrarsi in queste problematiche richiede tempo e lughe letture…

      • Fralive 29 maggio, 2016 at 17:57

        Certo che tutto questo comporta lunghe letture! D’altra parte questo genere di “amici” parla a noi attraverso i libri… Interessante la tua precisazione sui miti di Annibale (Eracle era peraltro uno dei “modelli” seguiti anche da Alessandro… Insieme ad Achille e a Ciro il Grande).
        Il mio intervento era però giocato su un’altra riflessione (forse un po’ delirante), che forse varrebbe la pena esplicitare adesso in una domanda: quanto e come questi modelli antichi (tradotti in miti del nostro immaginario e conseguentemente fusi a parti di noi stessi) possono essere guida al nostro vivere? Intendo nella vita di tutti i giorni… Quella che di “mitologico” ed “eroico” apparentemente (ma solo apparentemente!) sembra non avere niente…

        • Kokab 30 maggio, 2016 at 22:55

          non ti so dare una risposta, per quanto fascino possano avere su di me alcuni personaggi storici, e per quanto mi appassioni la storia dei miti antichi e dei loro protagonisti, non mi sono mai sorpreso a dialogare con gli uni o con gli altri, o a sentirli parte di me; ti faccio una domanda, per la quale non ho risposte definitive: questi miti e questi uomini, in che misura sono l’oggetto, e in che misura sono il soggetto della cultura?
          e a distanza di millenni, quanto poco consideriamo, per esempio, il male che possono avere fatto?
          annibale è un personaggio affascinante, oltre che storicamente fondamentale, ma quanti morti ha fatto la sua guerra inutile? almeno 200.000 in italia, si suppone, senza considerare il cartaginesi e quelli che sono derivati dall’accelerazione della trasformazione della repubblica in un impero, in ogni caso un’enormità per l’epoca. quale sarebbe il punto di vista di questi morti sul mito di melqart?
          certo, a me piace credere che annibale combattesse anche per la cultura ellenistica, e penso che lo facesse, penso addirittura che sarebbe stato meglio se avesse vinto, ma annibale ha perso, e l’ultimo e forse il più grande genio prodotto dalla cultura greca, archimede, è una delle vittime della sua guerra.
          certo, so bene che il polemos è il padre di tutte le cose, so che la morte e la guerra nel mondo antico avevano un significato molto lontano dal nostro sentire, e non credo neppure che tutte le guerre siano ingiuste, ma alla fine preferisco pensare ad archimede, o a democrotico, o ad aristotele, o a talete, e non ai grandi guerrieri, se devo dialogare con qualcuno.
          ma alla fine non è neanche questo il punto, in realtà fatico a credere che ci sia qualcosa che si fonde veramente con il nostro immaginario e ci possa in qualche modo veramente guidare, se non in senso negativo, mi pare troppo complicato farsi ispirare da personaggi così ingombranti…

          • Fralive 2 giugno, 2016 at 09:41

            Se qualcosa può guidarci in senso negativo, può farlo anche in senso positivo. Qui il problema è se i miti (o i personaggi storici assunti al ruolo di “miti”/”esempi”) possano rappresentare per noi una guida oppure no.
            Per me è così. E questo vale anche per personaggi letterari o affini.
            Ma questo è un discorso (mi rendo conto) che ha più a che fare con la psicologia che con la storia…
            D’altra parte il buon Manzoni ci insegna che storia e psicologia (“il guazzabuglio del cuore umano”) non sono poi così separate tra loro…
            E Machiavelli (altro mio “amico”) dialogava con gli antichi nei lunghi periodi di esilio forzato nella sua tenuta dell’Albergaccio… Durante il giorno si “ingaglioffava” in attività ripetitive e poco stimolanti, ma la sera vestiva panni nuovi, ed entrava “nelle antique corti delli antiqui huomini”… E lì, “da loro ricevuto amorevolmente”, non si vergognava a parlare con loro… E quelli “per loro humanità” gli rispondevano…

    • Gennaro Olivieri 30 maggio, 2016 at 17:51

      Però… l’impresa veramente difficile, ad Annibale non riuscì, anzi, non la tentò nemmeno: quella di assestare il colpo definitivo all’esercito di Roma. Mi è difficile capire perchè Annibale, mai sconfitto dai Romani in Italia, ed essendo ammantato dell’aura di invincibile, non scatenò mai la madre di tutte le battaglie, ma si trattenne invece per ben quindici anni nelle terre italiche continuando a punzecchiare i romani. Forse capiva che quella che non poteva sconfiggere era la romanità, cioè quel complesso di supremazia culturale, tecnologica, economica, politica che avrebbe dominato il mondo nei secoli successivi; poteva solo accontentarsi di tenere i romani in una situazione di stallo a tempo indefinito. Ma non sono da biasimare i suoi compatrioti, che a un certo punto richiamarono a casa quel condottiero abilissimo, ma troppo costoso per i risultati che ottenne.

      • Kokab 2 giugno, 2016 at 18:31

        la moderna storiografia è sostanzialmente concorde nel ritenere che maarbale avesse torto nel dichiarare che annibale sapeva vincere, ma non sfruttare la vittoria; annibale ben difficilmente avrebbe potuto conquistare roma, ben difesa e con un accesso al mare che i cartaginesi, privi di flotta, non avrebbero potuto controllare, e comunque la cosa non era nei suoi piani.
        non credo che nel 216 la supremazia cuturale, tecnica e politica dei romani fosse già così chiara, e comunque annibale non voleva distruggere roma, ma affermare la supremazia di cartagine su un mondo pacificato da lui, sulla base di un progetto ambizioso come quello di alessandro, che in fondo ha distrutto due città in tutto, per ragioni comunque politicamente comprensibili.
        quanto ai costi della guerra, erano sostanzialmente pagati dalle risorse della spagna, praticamente un possedimento personale dei barcidi con il quale risollevavano la madrepartia dai costi della prima guerra punica, almeno fino a quando scipione non li ha sloggiati; il vero problema stava nel fatto che, con l’eccezione di annibale e di suo padre, cartagine non ha mai avuto dei grandi generali, il talento è stato troppo concentrato nel tempo e nello spazio…

  2. nemo 28 maggio, 2016 at 08:28

    Bella ricostruzione, in questi giorni si sta preparando una nuova ricostruzione , in loco, della battaglia di Canne. la storia, sia pur in modo velato mette in evidenza quella privata tra due famiglie, ambedue tradite. I Barca e gli Scipioni. Ambedue tradite dai loro stessi conterranei. si, in questo modo si conferma ancora una volta che nessuno è profeta in Patria.

    • Kokab 28 maggio, 2016 at 11:23

      forse noti le affinità perchè sai che ci sono, io avevo accuratamente evitato qualunque riferimento; in ogni caso il tema che poni è reale e complicato da dirimere.
      per quel che vale il mio parere, credo che esistano dei profeti in patria, ma sia scipione che annibale remavano contro corrente: il primo rappresentava degli interessi mercantili, potremmo dire “borghesi” con moderna terminologia, che certo non si erano ancora affermati in quel tempo rispetto alla proprietà terriera; il secondo aveva una visione del mondo di natura fortemente ideale, che dubito potesse rappresentare l’interesse del gerontium di cartagine, se non nella misura in cui inviava metalli preziosi dalla spagna, nella sostanza era e si regolava come un principe in uno stato che non era un principato.
      non potevano pretendere, nessuno dei due, di essere molto popolari in patria…

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