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Tristano e Isotta: il mito dell’amore impossibile

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MUS 050216-00

 

di Gianmarco Catacchio
(Traduzione dell’autore della comunicazione pronunciata nel colloquio internazionale Revisitar o Mito/Recyling Myth presso la Faculdade de Letras da Universidade de Lisboa)

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“Signori, vi va di ascoltare un bel racconto di amore e di morte?…”

Molti sono, all’interno delle nostre tradizioni letterarie, gli esempi di coppie di amanti che la storia ci ha dato, da Romeo e Giulietta, fino a Lancillotto e Ginevra, passando per Paolo e Francesca, Piramo e Tisbe, e tanti altri casi di maggior o minor fortuna, tanto letteraria quanto amorosa. Singolare è, però, il caso di Tristano e Isotta, protagonisti di un mito che ebbe origine nel Medioevo e le cui riverberazioni sono così profonde da mantenersi intatte fino ai nostri giorni.

Molto brevemente: Tristano, nipote, figlio adottivo ed unico erede del re della Cornovaglia – Marco – è mandato in Irlanda, per andare a prendere Isotta, la principessa reale, ed offrirla in sposa al suo re. Nel viaggio di ritorno, però, i due bevono, per errore, un filtro amoroso e si innamorano perdutamente. A partire da questo momento sono protagonisti e vittime delle più disparate peripezie, fino a quando sono scoperti. Si allontanano. Tristano, ferito a morte, attende l’arrivo di Isotta che è l’unica capace di salvarlo. Questa, però, arriva troppo tardi. Tristano muore e lei, nel vederlo, muore a sua volta.

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Ora, questo freddo e cortissimo riepilogo appena fatto è certamente in grado di distruggere tutto l’incanto presente nella narrazione del romanzo amoroso di Tristano e Isotta, ma nonostante ciò mi permette di sottolineare alcuni aspetti che mi sembrano importanti. Il primo, e quello che probabilmente più ci interessa nell’ambito di questo colloquio, è che se parlo di mito quando mi riferisco a Tristano e Isotta è perché evidentemente c’è qualcosa che distingue la storia di questi due amanti da quella di tutti gli altri dapprima citati; esistono degli elementi che indirizzano verso un versante mitico quello che, senza questi stessi elementi, potrebbe essere considerato semplicemente un romanzo cavalleresco o, se si vuole, cortese.

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Di cosa tratta, in fin dei conti, il mito di Tristano e Isotta? Sarà soltanto una storia d’amore, per quanto bella e affascinante, terribile e poderosa? La risposta a questa domanda è ovviamente ed inesorabilmente una sola: no. Ciò che fa della storia di Tristano e Isotta un mito è il suo legame profondo con la morte. Questo, però, ancora non è sufficiente, di per sé, perché, come abbiamo visto, infiniti sono i casi letterari di amanti infelici che hanno già mostrato questo legame tra l’amore e la morte. Ciò che rende il percorso letterario di Tristano e Isotta il vero mito di Eros e Thanatos non è tanto la circostanziale unione di amore e morte in esso presente, quanto il vincolo profondo esistente tra la passione amorosa e lo stesso desiderio di morte. È questo che rende la storia un mito, o meglio, che rende imprescindibile la presenza del mito in luogo della semplice narrazione artistica, per esprimere il fatto inconfessabile ed oscuro che la passione è collegata alla morte e gli amanti che ad essa si abbandoneranno completamente, saranno destinati alla distruzione.

 

La seconda cosa che mi preme sottolineare è che l’opera Tristano e Isotta di Wagner, finita di comporre nel 1859, ma rappresentata per la prima volta solo 6 anni dopo, rappresenta il punto d’arrivo forse insuperabile dal punto di vista della stilizzazione formale del mito e del suo contestuale arricchimento di significati trascendenti. Wagner, infatti, nel suo libretto, ebbe l’intuizione di depurare la linea narrativa del mito, e quindi eliminare tutti gli elementi non strettamente necessari, in modo da far risaltare, di conseguenza, ciò che per lui era realmente importante dentro la traiettoria mitica di Tristano e Isotta. In questo modo, riuscì a condensare tutta l’immensa narrazione dei romanzi medievali su Tristano e Isotta in soli tre atti. Il primo, preceduto dal preludio strumentale dell’orchestra, racconta il viaggio di ritorno dall’Irlanda alla Cornovaglia durante il quale i due bevono il filtro che li farà innamorare. Il secondo è la narrazione dell’estasi dell’incontro tra i due amanti e la manifestazione dello smisurato potere di attrazione e distruzione della passione amorosa. E, infine, il terzo atto è il vero e proprio canto della morte e della dissoluzione degli amanti nell’umwelt e nella notte, che giustamente si conclude con l’impetuosa aria finale, il Liebestod, letteralmente, in tedesco, “amore-morte”.

 

            Il Liebestod di Isolde, interpretato da Waltraud Meier

 

Torneremo a Wagner, in seguito, ma non prima di sottolineare ancora che non esiste, o per lo meno non si è conservata fino ai nostri giorni, una prima versione scritta del mito originale, la cui linea, per così dire, primitiva è perciò difficile da stabilire. Nonostante ciò, come abbiamo visto, è possibile tracciare un percorso unitario di partenza, come il letto di un fiume, a partire dal quale tutte le varie diramazioni provengono e si distaccano. Notiamo che tutti gli elementi che elevano la narrazione verso il piano del mito sono presenti, in maggior o minor misura, nelle sue versioni principali ad oggi conosciute. Di questi elementi, vorrei qui identificarne alcuni.

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Uno dei più importanti e significativi è, senza dubbio, il filtro amoroso. L’amore di Tristano e Isotta, infatti, nacque a causa di una pozione che i due avrebbero bevuto durante il viaggio che li portava dall’Irlanda verso la Cornovaglia. In tutte le versioni principali del mito, con maggior o minor risalto dato all’episodio, è questa pozione d’amore, preparata dalla madre di Isotta, che provocherà la nascita dell’indomabile passione tra i due amanti. Cos’è che questo filtro, infine, rappresenta? Perché un amore come questo non sarebbe potuto nascere spontaneamente, senza la necessità dell’intervento del soprannaturale, della magia? La posta in gioco è nuovamente quella che riguarda la natura intima di questo amore, la sua pulsione annichilatrice. Come avremmo potuto mai, infatti, accettare senza scrupoli che una passione così violenta e distruttrice potesse essere nata naturalmente, senza gli effetti della magia? Mai saremmo stati capaci di ammirare la bellezza di questo amore senza che esso fosse liberato da ogni sorta di legame visibile con la responsabilità umana. È a partire da questa origine soprannaturale che l’amore di Tristano e Isotta, da un lato diventa possibile nella sua conformazione così smisurata ed eccessiva, e dall’altro legittima l’esistenza del mito di fronte ad un amore così ingiustificabile ed incomprensibile.

 

È anche necessario dire che, in contrasto con la maggior parte delle versioni precedenti, Wagner inserisce nell’episodio del filtro il tema dell’equivoco e della vendetta. Nell’opera dell’artista tedesco, infatti, Isotta intende dar da bere a Tristano un filtro di morte, per ucciderlo e vendicarsi dell’uccisione da parte di quest’ultimo del promesso sposo di lei, Moroldo, e vuole a sua volta bere lo stesso filtro per uccidere se stessa, di modo a lavare l’onta di esser data in sposa al re della Cornovaglia. Al posto del filtro di morte, però, in seguito alla sostituzione operata dalla serva Brangania, i due bevono il filtro d’amore. Tristano, presagendo l’intenzione di Isotta di avvelenarlo, pronuncia le fatidiche parole: “Benefico filtro d’oblio, – ti bevo senza esitare!”[1]. Ironicamente, però, l’oblio a cui Tristano si riferiva, l’oblio della morte, non arriverà immediatamente a causa del filtro funereo, ma ugualmente arriverà, attraverso altri cammini, con il filtro d’amore, insieme pure all’oblio della ragione e dell’identità stessa, fino alla dissoluzione nella morte.

 

Ci manca ancora osservare altri importanti elementi del mito dell’amore di Tristano e Isotta, precisamente la sua totale opposizione all’istituzione del matrimonio, così come la sua impossibilità costituente. Tristano si ritrova diviso tra gli obblighi cavallereschi verso il suo re Marco e gli obblighi cortesi verso la sua domina Isotta. Come risolvere questa contraddizione? Nella propria essenza della passione amorosa è possibile intravedere un primo aspetto dell’impossibilità di inquadrare questo amore. Difatti, in opposizione al matrimonio, come istituzione ordinatrice, appartenente al sistema regolamentato della società, esiste un vincolo di fedeltà, indipendente dal matrimonio legale, basato solo sull’amore. Del resto, il tipo di passione travolgente incarnata in Tristano e Isotta, rappresentazione dell’Eros – la brama ardente dell’amore-passione – è incompatibile con l’amore sacramentale, l’Agape – la carità sponsale, imitazione dell’amore divino. Quest’ultimo ha come fine l’amore all’altro, nel mantenimento dell’identità tanto dell’Io, come dell’Altro, mentre lo scopo ultimo e irraggiungibile del primo è la dissoluzione nell’altro, attraverso la perdita e l’annullamento delle identità.

 

Prima di analizzare gli sviluppi di questa constatazione, dobbiamo sottolineare ancora che, curiosamente, questo tipo di amore si oppone, così come al matrimonio, pure alla ‘soddisfazione’ dell’amore stesso. Con ciò si vuol dire che dentro questa idea d’amore esiste un’impossibilità strutturale, manifestata attraverso la ricerca continua dell’amore non realizzato. Sono gli amanti stessi che quasi cercano e creano gli impedimenti al loro amore. L’amore che sentono, seppur non potendo smettere di sentirlo, non è reale e di ciò sono completamente consapevoli. Tristano e Isotta non si amano, l’un l’altro. Ciò che essi amano è l’amore, è il fatto stesso di amare, ed agiscono come se avessero capito che tutto ciò che si oppone alla realizzazione dell’amore lo garantisce e lo consacra nel loro cuore. La separazione si rivela, così, una parte fondamentale del loro amore, l’oggetto della passione arriva ad essere identificato con lo stesso ostacolo all’amore fino ad arrivare al vero fine ultimo a cui porta la passione di Tristano e Isotta, l’ostacolo finale, la morte. Nell’abisso più segreto dei loro cuori è la passione attiva della Notte, ciò che detta le decisioni fatali dei due, è la volontà di morte.

 

Cosa sarà questa passione attiva della Notte che conduce le azioni degli amanti? Torniamo, in questo modo, all’opera di Wagner. Infatti la versione wagneriana del mito di Tristano e Isotta, caricando enormemente il valore trascendentale del desiderio di morte insito nella passione amorosa, si trasforma nell’esaltazione della supremazia della Notte sul Giorno. Se da un lato il Giorno rappresenta gli obblighi esteriori della vita sociale, quindi la separazione, il mondo delle differenze illusorie, la vita delle apparenze; la Notte, al contrario, rappresenta la dissoluzione dell’essere, il fluido indistinto in cui tutto si scioglie e si confonde, l’unico luogo in cui i due amanti si possono amare. La Notte rappresenta la vita vera, rappresenta la morte. Niente meglio delle parole di Wagner per illustrare questa ricerca costante verso la dissoluzione nell’oscurità della notte. Dice Tristano, nel secondo atto: “Oh, fummo allora / votati alla notte! / Il perfido giorno, / pronto all’invidia, / ci poteva dividere con il suo inganno / ma non più tradire con la sua bugia! / Del suo vano splendore, / del suo vanitoso lucore, / ride chi alla notte / ha dedicato lo sguardo: / […] Nel vano sogno del giorno / gli resta un’unica brama, – / la brama / della sacra notte, / dove dall’eternità, / unicamente vera / la gioia d’amore gli ride!”[2].

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Solo sprofondando nella notte loro possono spegnere i bagliori ingannatori della ragione, ogni legame con il mondo esteriore e con tutto quel che non sia soltanto Tristano e Isotta. Solo nella vacuità notturna possono giungere all’oblio di se stessi e al termine delle loro identità distinte, poiché l’obiettivo ultimo al quale gli amanti mirano è proprio l’annichilamento delle loro esistenze individuali; essi desiderano perdere la loro umanità, il loro principio di individuazione, uno attraverso l’altro, fino ad identificarsi uno nel’altro. Raggiungiamo così la meravigliosa scena culminante dell’identificazione amorosa quando Tristano, nel secondo atto, cinge con il suo abbraccio Isotta e canta: “Tu Tristano, / io Isotta, / non più Tristano!”[3] e lei contemporaneamente: “Tu Isotta, / io Tristano, / non più Isotta!”[4]. Questo, in realtà, è anche il preludio alla svolta tragica dell’azione, che porterà alla morte dei due amanti, il fine verso il quale loro anelano e a cui amorevolmente si rendono,

In molti sono quelli che non mancano di vedere, giustamente, le innegabili affinità che legano le tematiche qui esposte dell’opera di Wagner, con la filosofia di Schopenhauer e con il pensiero mistico buddista. Di fatto, la dissoluzione nella notte, così come la perdita dell’identità attraverso la morte, sono simboli di unione cosmica assimilabili a quelli presenti in entrambi i sistemi filosofici. Nonostante ciò, mi sembrerebbe esagerato insistere eccessivamente sulla filiazione di questo capolavoro wagneriano unicamente a partire da queste dottrine. Al di là di tutte le ragioni che si potrebbero addurre per giustificare tale perplessità, mi sembra essenziale sottolineare un elemento in particolare. Il percorso che porta al fine ascetico del buddismo – la liberazione dai cicli dell’esistenza attraverso il raggiungimento del Nirvana –, così come la dissoluzione dell’individuo attraverso l’accettazione della pura volontà schopenhaueriana sono cammini di ricerca spirituale individuali e solitari. Al contrario, il percorso mitico di Tristano e Isotta segue per un sentiero fondamentalmente differente: è solo uno attraverso l’altro che i due amanti possono raggiungere il loro obiettivo. La morte trasfiguratrice di Isotta è possibile solo attraverso Tristano, e viceversa. È il desiderio amoroso che qui fa la differenza, è per mezzo di questo desiderio che si realizza la loro traiettoria, tragica e allo stesso tempo divinizzatrice.

Questa traiettoria si situa, così, di fatto, al di là delle leggi del bene e del male, poiché la fatalità amorosa che costringe i due amanti e alla quale essi si abbandonano gemendo, sopprime quest’opposizione; la loro passione li conduce al di là dell’origine di tutti i valori morali, al di là del piacere e della sofferenza, nel regno della notte, dove già non si distingue e dove i contrari ormai non si escludono. I due amanti non sono più padroni del loro essere e delle loro azioni. Nell’impossibilità di cancellare il loro desiderio, qual è, perciò, il destino tragico di questi amanti infelici? Tristano canta: “a qual sorte destinato / son dunque nato? / Verso qual sorte? / L’antica melodia / me lo dice ancora: / Bramare – e morire!”[5].

 

                  dal film Tristan und Isolde di James Bort,
         ispirato dal balletto di Giorgio Mancini con Dorothée Gilbert
            e Mathieu Ganio, danseurs étoiles de l’Opéra de Paris.

 

[1] Vergessens güt’ger Trank, – dich trink ich sonder Wank!
[2] O nun waren wir / Nachtgeweihte! / Der tückische Tag / der Neidbereite, / trennen konnt uns sein Trug, / doch nicht mehr täuschen sein Lug! / Seine eitle Pracht, / seinen prahlenden Schein / verlacht, wem die Nacht / den Blick geweiht: / […] In des Tages eitlem Wähnen / bleibt ihm ein einzig Sehnen, – / des Sehnen hin / zur heil’gen Nacht, / wo urewig, / einzig wahr /Liebeswonne ihm lacht!
[3] Tristan du, / ich Isolde, / nicht mehr Tristan!
[4] Du Isolde, / Tristan ich, / nicht mehr Isolde!
[5] zu welchem Los erkoren / ich damals wohl geboren? / Zu welchem Los? / Die alte Weise / sagt mir’s wieder: / mich sehnen – und sterben!

 

 

La matematica dell’amore

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13 comments

  1. M.Ludi 8 febbraio, 2016 at 13:48

    (Per Tigra, rispondo qui, altrimenti la conversazione assume caratteri surreali). Tu dici che l’arte crea dei pieni, io dico che riempie dei vuoti. non credo che la questione sia dirimente ai fini dell’ottimo blog, ma se la fisica non è un’opinione…..

  2. M.Ludi 5 febbraio, 2016 at 14:17

    La mitizzazione dei sentimenti “forti”, quale è l’amore musicato da Wagner in questa opera, è l’altra faccia della medaglia di una Società europea che aveva ereditato secoli e secoli di frustrazioni di quel sentimento il quale solo nella tragedia aveva trovato la sua subliamzione; l’anima cattolica da una parte e quella protestante dall’altra, avevano ridotto l’incontro tra uomo e donna ad un mero contratto nel quale convivevano due elementi costitutivi: il sostentamento della famiglia (e per le famiglie più ricche, il mantenimento del patrimonio), con l’esigenza di procreare eredi. Talvolta ne insisteva un terzo e cioè quello dell’acquisizione del blasone portato in dote (laddove il patrimonio, magari, scarseggiava). Il risultato era una frustrazione delle pulsioni amorose che trovava sfogo solo ed esclusivamente nei rapporti “impossibili”, quelli contro i quali la società, ancor prima della famiglia, avrebbe reagito con forza cercando di impedirne la realizzazione. Ecco che la contemporanea presenza di due forti momenti della vita di una donna e di un uomo, l’amore e la morte, crea il mito nel quale trovavano fonte di emozione le persone le quali, non avendo ceduto all’amore ed essendosi accontentate della vita che altri avevano deciso per loro, vivevano la morte con la rassegnazione di chi non ha niente da perdere.

    • Tigra 5 febbraio, 2016 at 14:59

      Il bello dell’arte è che riesce sempre a creare valore da materie che nella realtà non ne hanno; l’amore negato, l’amore infelice, l’amore che porta alla morte sono tragedie della vita, e una società strutturata per questi tipi d’amore è una società malata, che ha perso di vista i più semplici valori umani.
      Nonostante ciò, e a me in fondo pare un po’ strano, l’arte su questo lavora e produce forme che trascendono il proprio contenuto, e parlano a tutti; non riesco a spiegarmi il come e il perchè, ma va bene così.

        • Tigra 6 febbraio, 2016 at 20:43

          All’arte che riempie vuoti non avevo mai pensato, e pensandoci ora mi verrebbe da dire che è possibile, ma non mi pare una regola generale, a meno che tu non lo intenda nel senso della creazione di una cosa che prima non c’era, ma dal tuo commento non mi pare.
          In gni caso, e fortunatamente, l’arte crea soprattutto dei “pieni”, di parole, di immagini, di oggetti fisici, di emozioni, e di una infinità di altre cose che non riusciremmo ad elencare, in una parola è capace di una cosa e anche del suo contrario.

  3. Kokab 5 febbraio, 2016 at 10:23

    complimenti all’autore, per chi come me è un semplice “fruitore passivo” dell’opera, e certamente non un esperto, l’articolo rende in modo magistrale il canone romantico, l’idea musicale di wagner e la potenza espressiva del tristano e isotta, il che significa poi che il compito dei possibili commentatori è abbastanza arduo; comunque ci provo.
    c’è una cosa, appena accennata nel testo, che mi è sembrata particolarmente acuta, ed è l’idea dell’innamoramento autoreferenziale, non si ama l’altro, ma si ama il proprio amore; mi ha colpito non solo e non tanto perché, in questa forma, l’amore assume una caratteristica assoluta che ben si sposa alla sua compenetrazione con la morte, ma perché l’idea, a me pare, non è alla fina racchiudibile nel recinto della cultura romantica, ma ha una valenza generale ed è un potente strumento di interpretazione dei sentimenti umani tuot court.
    mi verrebbe quasi da dire che l’idea, per stare all’interno del romanticismo, deve assumere quel connotato e quella natura assoluta che le garantisce la sublimazione dell’amore nella morte, ma senza di questa non sarebbe affatto un’idea romantica, ma forse addirittura il suo contrario: è la necessità della morte che rende romantica l’idea, ma senza la morte assumerebbe una valenza eticamente molto più relativa e diventerebbe, diventa secondo me, un patrimonio anche di altre culture.
    per chi come me è culturalmente figlio dell’illuminismo e della scienza, e considera il romanticismo storicamente una disgrazia, ciò vuole essere un riconoscimento che supera il valore artistico dell’opera di wagner.

    • Gennaro Olivieri 5 febbraio, 2016 at 11:36

      Grazie all’autore per l’interessantissimo articolo. Credo che Wagner abbia voluto sostenere delle tesi sull’amore molto vicine a quelle che 80 anni prima di lui sostenne la geniale coppia Mozart-Da Ponte nel Don Giovanni, usando un linguaggio musicale assai più rivoluzionario di quello che usò il divino salisburghese. Quando incontri Eros, devi necessariamente esserne schiavo fino alla tua consumazione in lui. Se non ti consumi, e non ti sublimi in Eros, non hai amato, non stai amando.
      Ovviamente, alle persone comuni quali noi siamo, non è dato, se non per brevi periodi, di assaporare l’aspetto totalizzante dell’amore. Diventare schiavi d’amore e morire in lui significherebbe la fine, oltre che degli amanti, della stessa società civile. Questo è ben chiaro a Wagner, che dimostra con il suo stile inusitato e così disturbante di volere proprio quello: una rivoluzione, uno totale sconvolgimento musicale, intellettuale, sociale. Mozart alla fine, mentre si fa un po’ beffe di noi, ci salva: dice : “stavo solo scherzando, so benissimo che non si può amare l’amore, voi non avete il coraggio di uscire dalla vostra esistenza borghese fatta solo di vuote convenzioni, quindi state pure tranquilli e mandate avanti il vostro mondo banale”. Wagner invece fa terribilmente sul serio, e ci spinge a dare tutto per amore. O per un ideale. A costo che tutto venga travolto. Sì, faceva sul serio, e alla fine qualcuno che poi lo interpretò ancor più sul serio, ahimè, ci fu.

      • Kokab 5 febbraio, 2016 at 13:08

        condivido il tuo ragionamento, ma parlando dell’innamoramento per il proprio amore mi ero allargato un può fuori dal contesto musicale e dalla cultura romantica; fuori da questa l’amore autoreferenziale è secondo me una cosa molto comune, quasi ordinaria direi, con tratti egoistici e stumentali, non ha nulla di particolarmente nobile e riflette uno dei più comuni comportamenti umani, che è l’uso a proprio beneficio delle altre persone.
        lo facciamo tutti, chi più e chi meno, e tutto sommato non è una tragedia, sopratutto se lo si sa.
        che wagner lo prendesse troppo sul serio mi sembra probabile, ma il concetto evidentemente ce l’aveva; quanto a mozart, non a caso era un uomo del ‘700…

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