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Giuseppe Saragat, il presidente che mandava telegrammi e sognava la terza via

Giuseppe Saragat, il presidente che mandava telegrammi

Natale a Montecitorio. Non è un cinepanettone degli anni ’60, ma l’incredibile fotografia delle elezioni presidenziali del 1964. Le più inattese. L’ictus che ha messo fuori gioco Antonio Segni costringe il Parlamento a scegliere il nuovo inquilino del Quirinale a distanza di soli due anni dall’ultima proclamazione. Ma deputati e senatori non sono gli stessi del ’62. In mezzo c’è stata una tornata elettorale che ha registrato il flop del primo governo di centrosinistra.

 

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Giuseppe Saragat, Presidente della Repubblica 1964 – 1971

 

Il Paese vive un periodo di recessione dopo i lucenti anni del miracolo economico. La Dc è ancora al potere ma le correnti interne fanno più rumore del solito. E nel segreto dell’urna, i nodi vengono al pettine. La segreteria democristiana punta ostinatamente su Giovanni Leone, giurista napoletano. Un uomo per tutte le stagioni, già titolare di un governo di transizione nel mezzo della crisi coi socialisti. Ma per il pittoresco politico partenopeo non è ancora arrivato il momento buono. Incassa quindici no. Lo definisce “un supplizio cinese”. Mettere d’accordo le varie anime del partito è impresa più ardua del solito.

Gli scrutini iniziano il 16 dicembre e proseguono anche a Natale e Santo Stefano. La gente, credendo che i politici siano pagati con “festivi” e “superfestivi” come se lavorassero in azienda, ritiene che temporeggino di proposito per fare cassa. Non è così, ma è il segno del calo di fiducia nella politica. La Chiesa riprova a mettere bocca, ma l’operazione provoca solo risposte ironiche. Come quella di alcuni parlamentari che scrivono sulla scheda “Lodovico Montini”, fratello del pontefice e deputato ultraconservatore. Di quale partito non serve dirlo.

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La prima pagina del Corriere della Sera del 29 dicembre 1964
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Nel caos si fa strada un nome che Aldo Moro aveva in mente già due anni prima. Non è un democristiano, né un liberale. Era socialista ma si è staccato con la storica scissione di Palazzo Barberini del 1947. È anche, ironia del destino, l’uomo che involontariamente ha “causato” lo stato di infermità di Segni. E a quattro mesi dal diverbio col suo predecessore, Giuseppe Saragat diventa il nuovo Presidente della Repubblica. Sono stati necessari ventuno scrutini, ma almeno il messaggio di Capodanno è salvo. Saragat viene eletto il 28 dicembre, anche coi voti dell’ala destra del partito comunista. Quella in mano a Giorgio Amendola, suo compagno di prigionia in tempo di guerra.

Il nuovo capo di Stato è un torinese figlio di immigrati sardi. I suoi detrattori lo dipingono come un mezzo alcolista, ma sono commenti viziati dal peccato originale della scissione. Lo chiamano “social fascista”; gli danno del traditore. E si scandalizzano per le sue idee filoamericane e filoisraeliane. Ma il vero sogno di Saragat è creare una sinistra italiana che prenda come modello i laburisti inglesi e lasci perdere il dogmatismo sovietico.

 

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Saragat, a Londra con la figlia Ernestina, posa per la foto ufficiale

 

Non ha una first lady. Da qualche anno è vedovo e l’unica donna accanto a lui è la figlia Ernestina che lo accompagna spesso in occasioni ufficiali. Brutalmente schietto, impulsivo, ma anche determinato come pochi. Fra tutti i presidenti eletti, è quello che ha la carriera politica più ricca. Un percorso fatto di amarezze, di scissioni e di ricongiungimenti. Un cammino che s’incrocia perennemente con quello del suo alter ego socialista, Pietro Nenni. Il sogno di una riunificazione socialista viene realizzato nel ’66 ma è un fuoco di paglia. Tre anni dopo ognuno riparte per la sua strada. I socialdemocratici mirano a essere una terza forza indipendente. L’ideale saldatura fra proletariato e classe media. Sogni, perché la realtà mostra un partito che si limita a una posizione di fiancheggiamento della DC.

 

 

Nei suoi accorati messaggi presidenziali si richiama alla responsabilità dei cittadini. Vuole dare l’idea di un capo dello Stato presente e attento a tutto ciò che succede. A volte esagera. Si congratula con il pugile Benvenuti per il successo in un incontro. E in un’epoca in cui i cinguettii sono solo suoni di uccelli, lo fa attraverso un telegramma. Ne invia dozzine ogni giorno. I napoletani lo soprannominano “don Peppino ‘o telegramma”.

Attraversa il ’68 e la strage di piazza Fontana. L’alba di un periodo difficilissimo, eppure Saragat coltiva l’ambizione di una riconferma. E la possibilità diventa un caso internazionale. I socialdemocratici tedeschi sarebbero arrivati a offrire 200 miliardi ai comunisti italiani per votarlo alle presidenziali del ’71. Una proposta che il segretario Luigi Longo porta a Mosca. Avrebbe significato autonomia finanziaria per il Pci. Al Pcus si va alla votazione. Per un solo voto, l’offerta viene rigettata. Morirà nel 1988, poco prima che l’universo socialista fosse travolto da Tangentopoli.

Saragat, il presidente che mandava telegrammi e sognava la terza via

La serie: Tutti gli uomini del Quirinale

 

Giuseppe Saragat, il presidente che mandava telegrammi e sognava la terza via

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