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Quando una partita di calcio non è solo questo

Quando una partita di calcio non è solo questo

Come molti ragazzi della mia età che vivevano allora nella provincia italiana, lo sport più conosciuto, l’unico praticato diffusamente ovunque fosse possibile, con una palla ed un paio di zaini per delimitare la porta, era il calcio. Ho iniziato giovanissimo a giocare con in testa il sogno di diventare un campione ed un giorno cimentarmi in una squadra importante, in uno di quegli stadi che allora si vedevano la domenica sera nei resoconti sportivi della giornata di campionato, rigorosamente in bianco e nero, rigorosamente sull’unico canale Rai fino al 1961, quando si aggiunse la seconda rete.

 

Le nazionali italiane e tedesche si apprestano a giocare la "partita del secolo" a Messico '70.

 

Il primo importante ricordo che ho del calcio risale ai mondiali del Messico nel 1970, un anno dopo lo sbarco sulla luna di Apollo 11, due anni prima che, con le Olimpiadi di Monaco, si passasse alle trasmissioni a colori; niente a che vedere con l’HD di adesso, ma pur sempre un bel passo in avanti. Furono i primi campionati del mondo nei quali la nazionale italiana si distinse dopo decenni di grigiore seguiti ai fasti delle prime edizioni d’anteguerra. Sino a quel momento il calcio italiano era vissuto prevalentemente sui successi di Inter e Milan tornate trionfanti da imprese, per quel tempo epiche, non tanto sui campi europei durante le edizioni della Coppa dei Campioni (guai a dirlo oggi: adesso si chiama Champions League) degli anni ’60, quanto sui campi sudamericani dove le vincenti dei rispettivi campionati per club (europeo e sud americano), si contendevano la Coppa Intercontinentale.

 

La targa che commemora la partita Italia - Germania (4 - 3).

 

Il sudamerica allora esprimeva il meglio del calcio mondiale, con il Brasile e l’Uruguay che avevano vinto già due edizioni a testa, e l’Italia, forte delle vittorie del ’34 e del ’38, era l’unica nazione europea che poteva contendere loro il primato nella graduatoria mondiale, mentre Germania e Inghilterra seguivano con una vittoria a testa.

Quel campionato del mondo venne poi vinto dal Brasile, che da allora si è stabilmente posizionato al vertice della classifica, con le altre che seguono a distanza, ma la partita che segnò quella edizione fu la semi finale che giocammo con la Germania, nella quale esaurimmo tutte le energie psicologiche e fisiche, dato che si giocò a Città del Messico ad oltre 2000 metri di altitudine, per di più con l’extra time dei  tempi supplementari. Giunti stanchi alla finale con il Brasile di Pelè, la perdemmo malamente.

 

La nazionale uruguagia Campione del Mondo, 1930

 

 

La nazionale italiana Campione del Mondo, 1934.

 

 

La nazionale italiana Campione del Mondo, 1938.

 

A quel tempo la maggior parte delle squadre nazionali era formata quasi interamente da giocatori nati e vissuti nel paese di cui vestivano la maglia, con poche eccezioni dovute agli oriundi (giocatori nati in un paese ma discendenti da immigrati da altri paesi), i quali, in virtù dell’ascendenza potevano essere tesserati in una federazione nazionale diversa rispetto a quella di nascita, ed i nati nelle colonie o possedimenti d’oltremare, naturalizzati poi nel paese colonizzante. Nel primo caso nella nazionale italiana si ricordano i nomi di Angelillo e Schiaffino (di nascita l’uno argentino e l’altro uruguagio) per non parlare di Sivori (argentino) ed Altafini (brasiliano) i quali giocarono sia nelle nazionali dei rispettivi paesi di nascita, sia in maglia azzurra dopo essere stati naturalizzati italiani.

 

Eusebio in Coppa dei Campioni 1963, Benfica - Milan.

 

Nella seconda categoria di giocatori per molti anni non si sono avuti se non rari ed eccezionali casi da poter citare: il più famoso è quello di Eusebio da Silva Ferreira, ancor oggi considerato uno dei migliori calciatori di tutti i tempi, nato in Mozambico quando ancora il paese era una colonia del Portogallo e naturalizzato mentre militava come portabandiera della più famosa squadra portoghese, il Benfica di Lisbona, che portò alla vittoria nella Coppa dei Campioni in due edizioni consecutive all’inizio degli anni ’60.

A quei tempi il calcio africano praticamente era inesistente, ed anche se la Confederation Africaine de Football era stata costituita nel 1957, le partite dei vari campionati nazionali venivano giocate in campi polverosi, con gli spalti senza contenimento e controllo adeguato, dove si ammassavano i tifosi , dove episodi di violenza anche gravi si verificavano spesso, specialmente quando ad affrontarsi erano squadre che rappresentavano città o etnie contrapposte. Per decenni le più importanti manifestazioni calcistiche hanno visto protagoniste esclusivamente squadre sud americane ed europee, mentre le partecipazioni con tanta buona volontà e poca gloria dell’Egitto ai mondiali del ’34, e quelle più decorose del Marocco in Messico nel ‘70 e del Camerun a Italia ’90, passarono in secondo piano rispetto a quella dello Zaire (oggi Congo) in Germania, dove avvenne un fatto che solo in seguito è stato inquadrato nella sua inaudita drammaticità, visto che stiamo parlando di una competizione sportiva.

 

La partita tra il Brasile e lo Zaire volgeva al termine con il Brasile che stava vincendo per 3 a 0 e che si apprestava a calciare una punizione dal limite con uno dei suoi più famosi specialisti, Rivelino, dotato di un calcio molto potente, e famoso per la sua capacità realizzativa sui calci piazzati. Improvvisamente un calciatore dello Zaire, mentre la barriera era impostata e Rivelino si apprestava a calciare, si stacca dalla barriera, corre verso il pallone e lo calcia lontanissimo, verso la tribuna. Il pubblico sugli spalti e fuori si mise a sorridere dell’apparente scarsa conoscenza da parte di quel giocatore delle regole del gioco; la partita continuò e finì con la vittoria del Brasile, ma senza altre segnature.

 

 

Joseph Mwepu Ilunga, della nazionale dello Zaire e l'episodio dell'ultima 
     punizione durante il torneo di Coppa del Mondo in Germania 1974.

 

L’episodio apparentemente comico venne spiegato dallo stesso autore Joseph Mwepu Ilunga, che anni dopo svelò la realtà di giocatori terrorizzati dal subire un passivo eccessivo poichè minacciati di morte al loro rientro in patria dall’allora dittatore Mobutu, il quale li riteneva personalmente e singolarmente responsabili delle cattive figure subite in campo.

 

Lo Stadio Moses Mabhida in Sud Africa durante scontri tra tifoserie rivali, Aprile 2018.

 

Il clima nel calcio africano era questo: rivalità tribali, dittatori sanguinari, lo sport ostaggio delle peggiori manifestazioni collettive di violenza, e mentre emergevano le qualità atletiche dei singoli (peraltro già note con le gesta delle squadre brasiliane dove si fatica tutt’oggi a vedere un giocatore bianco emergere), alcune squadre del nord Europa iniziarono con continuità a reclutare nei loro vivai prima, e nelle prime squadre poi, una quantità tale di giocatori originari dell’Africa da far pensare che in fondo esse fossero rappresentative più dei Paesi di origine di quei giocatori, che non delle maglie indossate.

Per molti anni a venire, i successi delle squadre francesi e tedesche in primo luogo saranno contrassegnati dalla crescente presenza di giocatori provenienti da altri paesi, geograficamente distanti, ma ricchi di giovani talenti, talvolta emigrati per necessità, altre acquistati a peso d’oro, e la cosa ha fatto talmente scalpore che anche l’Italia, sia pur tardivamente, ha riscoperto il valore dei giocatori stranieri, particolarmente in un periodo nel quale i nostri vivai stentano a formare calciatori di valore internazionale, ed i successi latitano, sia a livello di club che di nazionale.

Siamo giunti all’epilogo di questi campionati del mondo, con le squadre semi-finaliste tutte provenienti dal vecchio continente e quasi tutte imbottite di giocatori immigrati o figli di immigrati, ad eccezione della Croazia, nazionalista, tradizionalmente avversa all’immigrazione, e fa scalpore il fatto che questa squadra piena di talenti, molti biondi e tutti immancabilmente di pelle chiara, debba contendere la vittoria finale alla squadra, la Francia, che forse più di altre in Europa rappresenta il modello di integrazione (almeno in questo ambito) di una nutrita schiera di immigrati figli delle colonie africane sulle quali ancora esercita un forte potere economico e politico.

Le potenzialità spettacolari tra due delle migliori squadre di questa competizione hanno fatto per giorni da sfondo alla contrapposizione ideologica tra nazionalismo e multiculturalità, razzismo e integrazione. Alla fine è stata solamente una bella partita di calcio, giocata con tecnica ed agonismo: la nazionalista Croazia ha dominato la partita, ma la multietnica Francia ha vinto; non so se Marine Le Pen ne sarà rimasta molto contenta, e chissà se è andata sugli spalti dello stadio di Mosca a far compagnia a Salvini, combattuta tra fare il tifo per la squadra della sua nazione, quasi interamente composta da giocatori africani, o se intimamente confidasse in una vittoria dei biondi croati, figli di quella piccola nazione divenuta indipendente dopo il dissolvimento della ex Jugoslavia.

Talvolta lo sport certifica cambiamenti epocali ed ineluttabili, altre volte li anticipa; oggi spero li abbia agevolati anche se l’ottimismo, al giorno d’oggi, è diventata merce rara.

 

 

 

 

 

 

 

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