la società

L’erotismo al tempo di internet

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erotismo al tempo di internet
Da qualche tempo ho cominciato a rivedere film già visti. A rivederli però in coppia. Li associo a seconda di criteri che mi vengono in mente… Si tratta di criteri tematici sulla base dei quali ciascun film integra l’altro e, messi insieme, diventano nella mia mente un testo unico – in un certo senso originale rispetto alle opere singole.
Stamattina, ho fatto girare due film: Lei (Her, di Spike Jonze) e Shame (Vergogna, di Steve McQueen).

Perché li ho uniti? Sia nell’uno che nell’altro, per quanto diversi siano, vi ho visto una condizione molto diffusa – e che anzi penetra in profondità il tessuto emotivo della realtà contemporanea. Quale condizione?
Dunque, nel caso di Lei, il protagonista – che, per lavoro, scrive lettere d’amore alle persone che gliele commissionano, e anche questo è significativo del fatto che l’intera sua esistenza è fondata sui simulacri – si innamora (non inorridite  e seguite il ragionamento) del proprio sistema operativo! Si tratta di un dispositivo molto sofisticato capace, oltre che di parlare con la voce di una donna, di vivere addirittura delle emozioni e, ancora, di essere sempre in fase di crescita, capace pertanto di svilupparsi sulla base delle esperienze di ogni giorno. Nel momento in cui Samantha (è il nome assunto dal sistema operativo) entra nella vita del protagonista, questi – che sta cercando di dimenticare una storia lunga con una donna con cui era cresciuto e che si era allontanata da lui poiché egli si era (lo dice lei stessa) mostrato incapace di gestire emozioni reali – si sente compreso come non gli era mai successo. “Lei” entra così profondamente nella sua vita – peraltro, tutta compressa quest’ultima nel computer – tanto da gestirla in maniera assolutamente appagante, sia dal punto di vista pratico che emotivo. Sulla trama, mi fermo qui: non voglio evidentemente fare spoiling…

 

 

 

 

Nel caso di Shame invece – ambientato a New York mentre Lei era stato collocato a Los Angeles – incontriamo un protagonista (Brandon) che vive da solo in una splendida casa, con un ottimo lavoro, bello e affascinante, con un unico (grosso) problema: non riesce a gestire una relazione degna di questo nome con una donna. La sua vita è fatta, oltre che di lavoro e di precisione maniacale, di sesso. Tanto sesso e condito in tutte le salse: riviste porno, film porno, chat porno, puttane che lo vanno a trovare a casa, avventure nei locali di scambismo, sesso estremo in situazioni estreme etc. etc… Anche in questo caso, sarebbe interessante soffermarsi sulla trama, ma non mi sembra opportuno…

Ora, perché ho messi insieme questi due film? I motivi infatti non sono scontatissimi. Mentre Lei è un film innestato nella tradizione del cinema cibernetico, presentando inoltre i tratti bionici e biopolitici del post-human, peraltro con sortite molto affascinanti e suggestive, nei territori impervi della metafisica, Shame invece si “ferma” nei territori più consolidati, ma non per questo più agevoli dell’esistenzialismo – con tutta la carica di spietato realismo che appartiene a quest’ultimo filone. Mentre Lei è ambientato nel futuro prossimo, Shame si svolge in uno scottante presente. E, quanto alle differenze, potremmo continuare a lungo.
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Eppure, i due film come detto sono vicini. Questo perché sia nell’uno, sia nell’altro, il tema dominante è costituito da un uomo che sviluppa la propria vita erotico-sentimentale quasi esclusivamente nello spazio virtuale. Sia l’amante appassionato del proprio sistema operativo, sia il Brandon di Shame rinunciano a vivere in una dimensione concreta – ad avere cioè un rapporto con una donna di cui gestire momenti alti e momenti bassi, e con cui soprattutto “rischiare” un approccio” di tipo emozionale, per donarsi a più – apparentemente – tranquillizzanti performance. Che cosa c’è di più tranquillizzante infatti di una donna che non è una donna ma che vive in un computer (che è un computer) e che ha la capacità di gestire in maniera materna e potenzialmente infinita la vita di un uomo?

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Che cosa può essere, inoltre, più gratificante di quel senso di onnipotenza che scaturisce dal passare da una donna all’altra? Donne di carta o in immagine; donne sempre nuove e con corpi continuamente diversi e da scoprire; donne che fanno tutto ciò che si chiede loro e che non chiedono nulla dopo esser state pagate?
Tutto bene? No, malissimo! Theodore, il protagonista di Lei viene lasciato dalla sua “amante”: il dispositivo tecnico su cui si reggeva la voce di Samantha, infatti, molla l’umano e decide di andare alla ricerca di altre dimensioni. Il sistema operativo, nel corso della relazione con l’umano, è andato troppo avanti, ha scoperto tante cose nuove e, data la sua infinita capacità di memorizzare e calcolare dati, mostra ora il bisogno di nuove dimensioni. Non si sofferma più sulle parole, confessa a lui con felice espressione, ma sugli spazi fra le parole. Intende dire che soltanto nelle vastità sterminate della materia fisico-matematica, nella discontinuità dell’essere, nel vuoto ontologico, nell’abissale spazio quantico, “lei” può spingersi verso territori metafisici illimitati dove risiedono i misteri della materia inesplorata. Tali dimensioni, invece, sono destinate ad essere sempre precluse a lui, così come a tutti gli umani. Insomma, bisogna pervenire necessariamente ad una tesi radicale: dopo essersi impegnato “sentimentalmente” con un ente che riteneva “controllabile”, l’uomo scopre che proprio quella dimensione era la meno controllabile di tutte.
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Per quanto riguarda Brandon, il protagonista di Shame, la cosa è invece ancora più straziante. Passa da una esperienza all’altra – una più frustrante dell’altra – e mai riesce a mostrare un minimo di affetto concreto per un essere umano che non passi attraverso il potere del denaro. Neppure con sua sorella, l’unica persona al mondo che si interessi a lui – persona a sua volta fragile e bisognosa dio calore – riesce a trovare un’intesa affettiva, tanto che lei si taglia le vene.

 

 

 

 

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Dalla visione di queste due opere, ritengo dunque si possa concludere che l’individualismo tecnocratico nel quale soprav-viviamo ci concede – e questi film (e tanti altri) lo evidenziano bene, ma lo mostra benissimo la vita in generale – una parvenza di onnipotenza. Si tratta tuttavia soltanto di un’illusione, di una chimera fantasmatica. L’irrealtà che abbiamo saputo costruirci si sporge sull’infinito, ma quell’infinito – nel mentre ci promette uno stato di vertiginoso benessere, promettendoci il controllo assoluto sulla nostra felicità, in realtà, ci porta verso territori (come la favola dell’apprendista stregone) ancora più spaventosi di quelli che per prudenza ossessiva e talvolta patologica cerchiamo di evitare.

Theodore e Brandon rifiutano il reale: essi approfittano delle possibilità offerte dalla tecnica per poter sfuggire al destino (anche) conflittuale e ansiogeno nel quale sembra necessariamente inscritto il rapporto erotico. In questo modo, però, Theodore e Brandon non fanno affatto esperienza della realtà. La loro esperienza rimane impigliata in una sfera apparentemente protetta – protetta dalla tecnica e dal denaro –, ripiegando dunque in una sorta di “selfie”.

Da questo punto di vista, Theodore e Brandon siamo tutti noi: ci facciamo dei selfie e pensiamo di essere i più belli del mondo. E se non lo pensiamo, vogliamo almeno che gli altri lo pensino. E, tuttavia, guardando il nostro selfie, non vediamo altro che un viso. Quell’immagine ci osserva a sua volta e non dice e non dirà mai niente, e non farà mai niente, che noi stessi non diremo e non faremo. Dentro quell’immagine c’è una vastità tale da essere illimitata e dunque non comunicabile. Quel viso immobile che vediamo non ha argini, né mediazioni ed è muto come soltanto può essere un immenso vuoto.

L’individualismo tecnocratico si libra, con un’ebbrezza che non ha precedenti nella storia dell’uomo, sul nulla…
La dimensione più inquietante di tutte!

 

 

 

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