le scienze

La storia non è destinata a ripetersi

SCI Età del bronzo

Siccità e disordini scatenarono il crollo globale della società nell’età del bronzo. Sta succedendo di nuovo?

di Nina Fedoroff e Eric H. Cline – 12 Gennaio, 2016
(Traduzione Redazione Modus)

 

 

L’anno 1177 a.c. segna approssimativamente la disintegrazione della prima civiltà globale esistita nella storia dell’umanità: quella esistita nella tarda età del bronzo. Al suo apice, un fiorente commercio di materie prime, prodotti agricoli e manufatti, dai gioielli alla ceramica, dalle spezie al vini, coinvolgeva tutta l’area mediterranea estendendosi al nord, fino quasi alla Scandinavia a nord, l’Afghanistan e l’India ad est.
Poi, dopo secoli di splendore, il mondo civilizzato dell’età del bronzo trovo una fine improvvisa quanto catastrofica.

Le culture del tempo che popolavano il Mediterraneo, ed in particolare l’Egeo, tra le quali ricordiamo Grecia, Turchia, Cipro, Egitto, Siria, Libano, Israele, Iraq e Iran, formavano un complesso sistema fortemente interconnesso. Gli archeologi continuano a discutere circa i fattori scatenanti dell’improvviso crollo. E in effetti ci sono stati più errori correlati.

Negli ultimi anni, tuttavia, gli scienziati hanno iniziato a mettere insieme un quadro sempre più convincente di come la civiltà dell’età del bronzo si è disgregata ed è crollata. I re chiesero spedizioni urgenti di grano, provenienti da altri paesi poichè il clima era diventato più arido: siccità e carestia avevano flagellato la terra. Popoli del mare invasero e saccheggiarono le città costiere. Erano rifugiati affamati o l’ISIS del tempo? Forse entrambe le cose?

Mentre i dettagli specfici sono difficili da ricostruire, sappiamo come finì la storia. I molti regni del Mediterraneo caddero come tessere del domino in pochi decenni. Le loro fiorenti economie e le loro culture sono scomparse, come i loro sistemi di scrittura, la tecnologia e l’architettura monumentale.

Avanziamo velocemente nel tempo, al 2007, anno che segnò l’inizio della peggiore siccità a lungo termine che la Siria ha vissuto nella storia moderna. Nel 2008 i tre quarti degli agricoltori dell’area, videro la perdita totale del raccolto ed i pastori persero circa l’85% del loro bestiame. Nel 2009 le Nazioni Unite hanno riferito che più di 800.000 siriani avevano perso tutti i loro mezzi di sostentamento a causa della siccità. L’ONU ha stimato che al 2011, da due a tre milioni di sisriani erano sprofondati nella povertà estrema.

Contadini sfollati, pastori e le loro famiglie emigrati verso le aree urbane alla ricerca di posti di lavoro e di cibo, che vivono in tende lungo le strade e intorno alle città, mettendo in crisi le infrastrutture urbane. Un governo che non risponde alla crisi umanitaria in corso, ha favorito ribellioni iniziate a Daraa, diffuse poi a Raqqa e Hassakah e trasformatesi poi nella guerra civile di oggi. Si, è stata colpa del cambiamento climatico, al di là di ogni dubbio ormai, ma anche di una lunga storia di cattiva gestione del governo, ed errata politica del lavoro.

La Siria non è un caso isolato. Una combinazione di riscaldamento climatico, incremento della popolazione, sfruttamento eccessivo delle risorse idriche, concentrazione e approcci antiquati all’agricoltura, stanno minando la stabilità del paese, dopo che ciò era già accaduto nei paesi del bacino del Mediterraneo. Peggio ancora, la spirale perversa crea le condizioni per cui si precludono le possibilità di fare ritorno nelle terre di origine ove, quindi, cessa il conflitto.

Vediamo i migranti che arrivano dal Medio Oriente e dall’Africa come rifugiati politici. E naturalmente lo sono. Ma più precisamente. sono rifugiati ambientali. in fuga da terre che non potrebbero più sostenere lpeconomia agricola senza profondi cambiamenti nel modo di gestire terra e acqua.
Noi non sappiamo come finirà questa storia e come sarà il mondo, per esempio, nel 2077. Quello che sappiamo è che noi, a differenza di coloro che vivevano nell’età del bronzo, comprendiamo ciò che sta succedendo e sappiamo come porre rimedio, almeno in senso tecnico.

La scienza, in particolare chimica e genetica, e la tecnologia, hanno consentito enormi progressi nella produttività agricola. Infatti, senza fertilizzanti, con semi migliori e trattori, la nostra popolazione non sarebbe cresciuta molto di più rispetto a quel miliardo di contadini che vivevano sulla terra quando Malthus ci disse che saremmo stati per sempre condannati alla fame, mentre oggi siamo sette miliardi di persone, in gran parte urbanizzate e di cui solo la metà hanno esperienza di fame cronica.

C’è ancora molto da imparare su come produrre cibo in base alle nuove condizioni climatiche anche se cerchiamo di ottenere migliori risultati con meno terra ed in modo più sostenibile. Ma le scoperte genetiche e le tecnologie della fine del 20° secolo, ci hanno fornito gli strumenti idonei. Avremo bisogno di modificare gli organismi geneticamente per prosperare con le nuove condizioni climatiche, con meno terra e acqua. Avremo bisogno sempre più di sofisticate macchine a guida GPS per massimizzare le rese, riducendo al minimo l’inquinamento ambientale.

Tutto questo è possibile. Ma allo stesso tempo vediamo una crescente avversione per la scienza e la tecnologia nel mondo sviluppato. Entrambi, modificazione genetica e agricoltura tecnologicamente sofisticata (es. allevamenti intensivi), sono ampiamente contrastati, mentre i metodi di coltivazione “organici”, vecchio stile, sono enfatizzati. C’è spazio per entrambi, ma anche il dubbio che avremo bisogno di maggior apporto dalla scienza, non meno, se vorremo soddisfare le esigenze di una popolazione in crescita.

Forse il problema più profondo e immediato è il modo in cui gestiremo l’integrazione di milioni di rifugiati, compresi quelli che un tempo coltivavano la terra in Siria, ora in fuga da persecuzioni e fame. La sfida di oggi è quella di dare da mangiare, aiuto e integrazione sociale a persone di tradizione così diversa dalla nostra, in una società globalizzata con un crescente stress ambientale.
Il mondo dell’età del bronzo è crollato. E il nostro?

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