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Leicester, la mia Disneyland

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Leicester, la mia Disneyland

Ci ho provato. Ho percorso i 2000 chilometri che separano Roma da Leicester immaginando quello che avrei trovato. Ho messo nello zaino block notes e penne convinto di realizzare un reportage sfaccettato sulla città del miracolo. Giuro che ci ho provato. Ho cercato di mettere avanti la mia professionalità, l’essere giornalista prima di tutto. Ci ho provato, ma sono stato travolto. Non ho appunti scritti, ma una marea di post-it sul cuore e negli occhi. Credevo di andare a Leicester e mi sono trovato a Woodstock. Sì, perché per la nostra generazione, per quelli che hanno sempre sognato l’improbabile sorpasso dell’irrazionalità sulla logica, questo sabato di Maggio nelle East Midlands sarà sempre ricordato come il giorno in cui il mondo si è capovolto. Tutti hanno danzato, cantato e riso in questa festa. Tutte le etnie, tutte le età, gli sconfitti di sempre improvvisamente proiettati sul gradino più alto del podio. Una fiumana di persone salita sul più improbabile carro dei vincitori che il calcio abbia mai visto.

 

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 Io e il sosia di Jamie Vardy fuori dallo stadio.
    Si chiama Lee Chapman e fa il postino.

 

Nessun problema, la gente di Leicester non fa scendere nessuno. Include, come fa da decenni. L’integrazione è sottintesa in questa terra di mezzo in cui ognuno ha bisogno dell’altro. Una “terra di mezzo” che non ha il sapore acre di Mafia capitale, anche se Claudio Ranieri è per tutti “The Godfather”. Questa è la capitale del calcio, del popolo e del romanticismo. Questo è il posto che temevamo non esistesse.

 

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Tifose prima di entrare allo stadio

 

Una città di circa 300 mila abitanti, con solo il 45% di bianchi europei. Sikh o pakistani, gialli o neri, a Leicester non fa differenza. Tutti i colori si perdono nel blu delle Foxes. “Where are you from?”, mi chiede Robert, insegnante di inglese per stranieri a Cambridge. Lo incontro sul 158, il pullman che porta a Leicester da Earl Shilton, un piccolo paesino della provincia. È il luogo di nascita di Robert e anche l’unico alloggio che ho trovato nel raggio di 30 chilometri. Sono le 9 e mezzo di Sabato 7 Maggio. Passeremo tutta la giornata insieme. Sarà il mio Virgilio in questo Paradiso improvvisato.

 

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 Robert Coe, la mia guida a Leicester

 

Sognava questo giorno da quando è nato. Non lo aspettava, perché nessuno qui poteva davvero pensare di vivere una storia così. E invece eccola la Storia, proprio qui a due passi da Nottingham, la più famosa città dei dintorni. Pochi mesi fa, quando gli chiedevano “where are you from” rispondeva Leicester. Poi, per farsi capire, aggiungeva “close to Nottingham”. Adesso vuole condividere l’emozione di essere al centro del mondo. E io mi lascio guidare verso lo stadio. Mancano 7 ore alla partita, non abbiamo i biglietti, ma non importa. Forse li troveremo, forse no. Andiamo in pellegrinaggio, sonnambuli di un sogno collettivo che va avanti da 5 giorni. Da quando Hazard ha stoppato la rincorsa del Tottenham e regalato la certezza del titolo.

 

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 Lee Jobber, tifoso del Leicester da sempre,
  conosciuto ovunque come Lee “the drummer”

 

Incontriamo Lee Jobber, il tifoso del Leicester più famoso al mondo. Il gigante buono per eccellenza, decine di tatuaggi sul corpo dedicati alle Foxes. Vede tutte le loro partite da quando aveva 4 anni. Oggi ne ha 36 e dal 2003  suona il tamburo allo stadio. Lontano dagli spalti, fa l’insegnante di sostegno per bambini disabili nelle scuole locali. Sia lui che Robert, a differenza di tanto loro concittadini, non hanno mai tifato anche per un club più prestigioso. Neanche nel 2009, quando i campioni di oggi affrontavano lo Yovile in League One, la terza serie. La nostra Lega Pro.


Si abbracciano e sorridono. Poi Rob gli chiede dov’era lunedì, il giorno del trionfo. Lee racconta, Robert scoppia a piangere. Un compassato professore d’inglese in lacrime nel ripensare alla sua gioia più grande. Paragonabile solo alla nascita di mio figlio, mi spiega, asciugandosi rapidamente gli occhi. Ha il pudore di un adulto e il candore di un bambino. Lo capisco e chi non lo capisce difficilmente capirà tante altre cose.

 

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  Un gruppo di italiani in giro a Leicester già da venerdì sera.

 

Mi chiede chi sono questi italiani che arrivano con dieci pullman. Sono gli ultimi romantici, Rob, quelli abituati più ai bassi che agli alti. Guardali, nessuno di loro ha la maglia della Juve. Hanno quella del Bari, quella del Parma, del Padova, della Reggina. La periferia del calcio in gita fuori porta.

 

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    Vardy e Mahrez,dall’ombra alla gloria in una stagione da Paul Mcfegan

 

Si sono immedesimati in questa squadra di reietti. Si sono rivisti in un capocannoniere che viene dalle serie minori e che pochi anni fa giocava col braccialetto elettronico alla caviglia per una rissa nata per difendere un amico disabile. Italiani impazziti per un algerino pagato 400mila sterline due anni prima. Veniva dal Le Havre e doveva essere un rinforzo per puntare alla promozione in Premier League. Oggi vale 100 volte di più e i giocatori del campionato lo hanno incoronato “best player of the year”. Vardy e Mahrez, ma anche Drinkwater e Kante, Okazaki e Ulloa, Morgan e Huth. Alfieri, semidei, eroi. Ragazzi come tanti, speciali come nessuno prima.

 

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da Simon Stacpoole /Offside

Ma per smuovere una carovana simile dall’Italia (e tanti mezzi privati) ci voleva una “connection” speciale. “Ranieri, oh oh, Ranieri, oh oh oh. He came from Italy, to manage this city”, canta l’esercito tricolore dalle mille divise. Le note di Nel blu dipinto di blu per un’ode al condottiero che a 64 anni arriva in porto con un vascello di fortuna. Ha solcato mille mari e spesso è naufragato. Ha sempre trovato un altro timone e un nuovo equipaggio. In viaggio, fino alla terra promessa.  Always the bridesmaid, never the bride, dicevano di lui n Inghilterra.

 

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 Vestiti da sposa a Leicester

 

Una damigella che osserva la festa nuziale. Ora Leicester lo ha sposato e Robert dice che da qualche settimana le famiglie locali hanno iniziato a chiamare i neonati “Claudio”. “What a beautiful name”, ribatto. Robert annuisce. La gente continua ad affluire nei dintorni dello stadio. E inizia a cantare, trascinata da un gruppo gospel che intona i cori dei tifosi invocando i propri dei. Il King Power Stadium è la loro chiesa. I fedeli tengono il ritmo e contano i minuti. Alla messa vera e propria mancano ancora quattro ore.

 

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 Mauro Altieri e Assan El-Oualidi, il duo italiano della Peter Pizzeria

 

C’è tempo per parlare e racconto a Rob che la sera prima sono stato a mangiare nel locale in cui Ranieri portò la squadra a festeggiare la prima partita senza subire reti. Era ottobre, Leicester dormiva senza sognare. L’allenatore voleva dimostrare due facce del suo italian style: non prenderle e non prendersi troppo sul serio. Il posto si chiama Peter Pizzeria, la margherita preparata da Mauro Altieri da Nola è da Champions League. Al tavolo accanto al mio, c’è Paolo Benetti, il vice di Claudio Ranieri. È lì con amici. Non lo disturbo. Poi, visto che finiamo quasi in contemporanea, all’uscita mi avvicino. Il tifoso e il giornalista combattono su cosa dire. Vince il primo: “Grazie Paolo, grazie davvero, è da un anno che mi emoziono grazie a voi”. Lui ringrazia me e poi ci mettiamo a parlare, ma questo sarà argomento di un prossimo pezzo.

 

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  Daniele Taverna e Antonio De Vecchi, la coppia piemontese del Gelato Village

 

A 300 metri da lì c’è anche una gelateria gestita da due piemontesi. L’hanno aperta nell’estate del 2014, un anno prima dell’arrivo di Ranieri. Si chiamano Daniele Taverna e Antonio De Vecchi, fanno coppia anche nella vita e hanno conquistato la città prima dell’allenatore romano. “Ranieri è una persona squisita, all’inizio veniva spesso, poi per lui è diventato più difficile camminare per Leicester. Ma sappiamo che si fa rifornire dai suoi collaboratori”, racconta Daniele, un perito elettrotecnico, ex dipendente Telecom che in Inghilterra ha lavorato anche come operaio di una nota ditta di patatine. “Okazaki è quello che viene più spesso, è innamorato del nostro gelato”. Non è il solo. Su Tripadvisor, “Gelato Village” sta scalando tutte le classifiche. Venti mesi di vita e sesta migliore gelateria del Regno Unito.

 

Robert non la conosce. Ma presto la proverà. Per il momento ci riempiamo lo stomaco con le samosas, una sorta di fagottino che un gruppo di indiani frigge e regala davanti allo stadio. Poi mi porge una lattina di Tyskie. Economica, polacca e leggera. All’inizio, perché col passare delle ore le Tyskie consumate si avvicineranno ai gol di Vardy in campionato. Accanto a me, in molti batteranno a fine serata il record di Nordahl: l’ospedale locale conterà infatti più del doppio dei ricoveri abituali. Quasi tutti per ubriachezza. Niente di grave. Peccato solo per i dottori che hanno dovuto preferire Ippocrate a Dioniso.

 

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Dopo un rapido saluto ai giocatori in arrivo, ci mettiamo alla ricerca dei tagliandi. Nei giorni precedenti circolavano cifre spaventose per l’accesso allo stadio. Migliaia di sterline. Non è così. La speranza di tutti è nell’arrivo dei tifosi dell’Everton. È una situazione surreale. La polizia finge di non vedere i capannelli che si formano all’arrivo dei mezzi da Liverpool. Il bagarinaggio è vietato, ma in Inghilterra i biglietti della squadra ospite non sono nominativi. Io e Robert riusciamo a farci “regalare” un biglietto a testa. Sta piovendo e mancano 45 minuti al fischio d’inizio. Sono felice, soprattutto per lui. Entriamo trafelati nel settore ospiti, ma dopo pochi sguardi circospetti ci rendiamo conto che il 70% delle persone intorno viene da Leicester. Se ne accorgono anche gli altri tifosi dell’Everton. Non ne sono stupiti. Applaudono Bocelli come il resto dello stadio e assistono alla festa senza alcuna animosità.

La partita è una passerella. Vince 3-1 il Leicester, con una doppietta di Vardy intervallata da un gol di Andy King. Nel finale i pochi sostenitori dell’Everton potranno esultare per la rete della bandiera di Mirallas. Robert ha cambiato posto, qualche gradino più sotto, per stare più vicino alla zona calda del pubblico di casa. Per noi sembra assurdo, ma in Inghilterra, i due settori sono praticamente confinanti. Accanto a me nel frattempo si è messo Matt. È un pubblicitario. A differenza di Robert, è di Leicester ma tifa per il Liverpool. Me lo dice piano, perché quelli dell’Everton sono tolleranti con gli avversari che vogliono far festa in casa loro, ma non certo con un rivale cittadino nella loro curva. Di vedere la partita non ne ha troppa voglia e si preoccupa più dei rifornimenti al bar.



Ci beviamo un po’ di Singha, la birra thailandese che ha il monopolio della distribuzione negli impianti della Premier League. Matt vuole sfidarmi, convinto della superiorità britannica e della sua prominente pancia. Al terzo giro, lo vedo barcollare, fare una smorfia di stupore e porgere la mano: “Respect”, dice prima di sparire verso il bagno. Ne approfitto per riavvicinarmi a Robert, che mi aveva cercato al telefono invano. L’iphone si è spento prima  degli acuti di Bocelli e di Mahrez, mi sarebbe dispiaciuto non continuare la festa con lui.

 

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da EFE

 

Dopo il triplice fischio, inizia un’altra partita, quella dei tifosi temerari che tentano la disperata corsa sul terreno di gioco. In fuga dagli steward, in cerca di dieci secondi di gridata libertà. A giudicare dal modo in cui vengono bloccati, i tre che ci riescono si pentiranno a lungo del loro coraggio. Sul campo è il momento della coppa alzata al cielo da Wes Morgan. Un trofeo disegnato proprio, scherzi di un anno incredibile proprio da un gioielliere di Leicester, il 52enne di Paul Marsden. Esplodono i fuochi d’artificio e schizzano le stelle filanti. Tutti gridano un improbabile “champeones, champeones, olè, olè”, una specie di neolingua che neanche Robert, cui mi rivolgo in veste di professore di Cambridge, sa spiegarmi. Perché cantano così non lo saprò mai, ma anch’io mi ritrovo a gridarlo al cielo di Leicester. Quando le divisioni linguistiche tornano ad avere una logica, gli altoparlanti diffondono un classico e intramontabile “We are the champions”. Da brividi, come sempre, molto più di sempre.

 

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La dirigenza thai (da AFP - Thai PBS)

 

Indimenticabile anche il giro d’onore del presidente thailandese della squadra Vichai Srivaddhanaprabha, l’uomo che vanta il numero più alto di copia e incolla nella storia del giornalismo per il cognome acquisito di cui si fregia. Diciassette lettere che significano “Luce di gloria progressiva”, un titolo onorifico attribuito alla famiglia Raksriaksorn (il cognome originale) dal leggendario re thailandese Rama IX, in carica dal 1946, sei anni in più rispetto alla regina Elisabetta. E proprio il monarca al settantesimo anno di regno è stato inatteso protagonista del giro trionfale, esposto in un quadro vagamente kitsch alle spalle di Vichai e del figlio, monopolisti dei duty-free dello scalo di Bangkok con la loro King Power.

 

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Robert e Steve Walsh

 

Poi lo stadio si svuota e le strade si riempiono. Rumori di clacson incessanti. Bandiere al vento. Cori spontanei abbracciati a sconosciuti. Robert dà un ultimo sguardo al prato dove fino al 2003 sorgeva il Filbert Stadium. Era a cento metri da quello che lo ha visto diventare campione. Lì dentro c’erano i ricordi della sua infanzia. C’era Steve Walsh, la bandiera che negli anni ’90 lo ha emozionato. Al mattino, quando l’ha incontrato, gli brillavano gli occhi. La gente di Leicester lo ha ribattezzato “Captain Fantastic”.

 

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 Il prato dove sorgeva il vecchio stadio

 

La memoria e il cuore di un “longtime fan” è grande anche quando un presente così luminoso sembra travolgere tutto. Non ha un briciolo di malinconia negli occhi, ma solo la consapevolezza di sapere quanta strada ha fatto il Leicester, suo figlio, per arrivare a quei clacson, alla musica della Champions, ai fuochi d’artificio in campo. Robert si guarda intorno e soffia. “What a day, what a day”. Non piange, ma si trattiene. Dieci ore prima non lo conoscevo, ora so di conoscerlo un pochino.

 

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Ci buttiamo in centro, fra macchinate ignoranti, striscioni in italiano, persone che camminano su taxi che strombazzano festosi e incuranti. È un delirio di popolo. E la notte continua così, fra nuove facce incontrate per strada, come Duncan e Ken, miei migliori amici per due ore nei club di Les-tah. Ormai non mi presento neanche più come giornalista. “Hi, I’m Claudio, I come from Italy and I’m just a fan”. Qui i miei ricordi sono un lungo piano sequenza di abbracci, cori, bandiere, italiani a caccia della bomberata in zona Cesarini e inglesi in cerca dell’ultima goccia. Robert l’ho perso. Ho il telefono spento e nessuna probabilità di ritrovarlo. Il giorno dopo scopriremo di essere ancora vivi per telefono. Mentre la gente comincia a defluire, un tifoso si arrampica sulla colonna dell’orologio nella piazza principale. Nessuno capisce cosa voglia fare. Credo, ma forse era l’alcool, che volesse fermare il tempo. Penso ancora che tutti abbiano sperato che ci riuscisse. E sicuramente vado a letto con la convinzione che l’abbia fatto. Apro gli occhi e sono a Earl Shilton. Sono le 14:35. Il volo per l’Italia era alle 15. Non so se mentre mi perdevo nella festa avevo già deciso di perderlo. Chi se ne frega. I voli si ricomprano. Le emozioni non tornano. Leicester, mia Disneyland, non ti dimenticherò mai.

Leicester, la mia Disneyland

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  Monaci buddisti thai sul campo del King Power Stadium
            da Matt West/Bpi/Rex/Shuttertock
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8 comments

  1. Genesis 15 maggio, 2016 at 09:31

    Di Cenerentola nel calcio ce ne sono state poche e comunque hanno sempre suscitato scalpore, cercando nel successo di queste il motivo principe…che non è mai stato la passione!
    Sono ormai troppi decenni che questo gioco è divenuto un business che deturpa qualsiasi altro pensare. Leggiamo nello scritto di Claudio: il tal giocatore comprato per 400mila…ora vale cento volte di più… Abbiamo, per uno sport, dato un valore ad una persona, ma soprattutto abbiamo dato un valore infinitesimale a chi soffre nell’indigenza più assoluta. Non parlo dei “soliti” africani senza cibo né acqua, ma anche dei connazionali che, per svariati motivi, perso il lavoro, ravanano nei cassonetti (che stanno sparendo dalle città) per sfamare la famiglia.
    Questo è l’assurdo della mente umana: divenire tifosi di qualsiasi guappo talentuoso e lasciar marcire l’amico, il vicino di casa, nella sua miseria. Questo è l’assurdo della mente umana: discorrere di centinaia di milioni, o miliardi, di €uri, senza nemmeno immaginarsi effettivamente quanti o cosa siano, immessi in uno sport che dovrebbe solamente solleticarci il palato la domenica…a questo punto si farebbe la medesima cosa riaprendo il Colosseo, la Rena e tutti gli anfiteatri del mondo conosciuto all’epoca, facendo uccidere dal forzuto bandierato di turno, quanti più indigenti possibile…così per toglierceli dalla vista nel più breve tempo possibile….

    • Remo Inzetta 15 maggio, 2016 at 13:59

      Non è che quello che dici sia sbagliato in assoluto, mi sembra semplicemente troppo radicale, una forma di esagerazione.
      La soluzione ai problemi del mondo non non la trovi nella rinucia allo sport, o all’arte, o ad un certo tipo di lusso, ma in diverse scelte politiche ed economiche che sono a mio parere compatibili con le cose che ci danno gratuitamente piacere, sport incluso; poi ci possono essere esagerazioni, e sarebbe giusto corregerle, ma che vita sarebbe se non ci fosse un po’ di superfluo?
      Quanto ad ammazzare i poveri nell’arena, capisco il piacere della battuta, ma mi sembra un po’ fuori luogo…

      • Genesis 15 maggio, 2016 at 17:29

        Vedi Remo, io non rinnego lo sport, rinnego l’enorme volume di denaro che ci sguazza dentro.
        Spendere decine di milioni per “acquistare” un giocatore, oppure ricevere decine di milioni per partecipare ad un torneo, è un abominio…punto e basta. Ci sono centinaia di milioni di persone che vivono col nulla che trovano, poi leggono di alcuni che in braghe corte se la passano decisamente agli antipodi rispetto a loro…magari con quei soldi tutto il loro paese potrebbe fare i bagordi per anni…
        Queste persone muoiono ogni giorno, ogni ora, ogni minuto perché manca un euro di acqua oppure cinquanta cent di un antibiotico…alla fine il mio esempio “spinto” è bastardamente attinente, perché far morire di inedia qualcuno equivale ad ucciderlo con una spada…
        Radicale? Si, ma….

        • Remo Inzetta 15 maggio, 2016 at 20:22

          Caro Genesis, lo sport ormai è puro professionismo, e risponde alle leggi di mercato. Producono dimensioni conomiche eccessive? Può darsi, come capita a tutti i fenomeni planetari; se guardi al patrimonio dei grandi registi, o dei grandi attori, o dei grandi musicisti, vedrai cifre che fanno impallidire gli “artisti” della pedata, per non parlare del volume d’affari degli sport americani.
          Fermiamo tutto perchè ci sembra immorale?
          La vedo un po’ difficile, e comunque tutti questi fenomeni, sopratutto quelli sportivi, fanno da traino ai movimenti amatoriali, forse qualche cosa di buono lo producono, non credi?

  2. nemo 15 maggio, 2016 at 08:03

    Mi piace, mi piace anche perchè, perdonatemi, lo abbino ad una notizia letta oggi sul giornale , la conferma della condanna, da parte della Cassazione, all’ex DG della Juventus Moggi, dovrà pagare i danni alle squadre danneggiate dal famoso scandalo. Altra storia direte, si, sicuramente, altra storia anche di moralità, che ne dite?

  3. Jair 13 maggio, 2016 at 09:16

    L’articolo di Claudio (nome che è tornato di moda anche a latitudini impensate) ci trasmette la faccia bella della globalizzazione. Una piccola squadra di provincia in questi mesi è stata una sorta di riscatto gioioso di tutte le periferie e dei loro abitanti. Indiani, pakistani, arabi, e più casinari e presenzialisti di tuti, naturalmente, noi italiani: che siamo tanti, anche in una sperduta città in mezzo all’Inghilterra. Alcuni hanno fatto successo, altri restano a faticare umilmente in un posto che fino a ieri era sconosciuto e oggi è diventato la capitale sportiva del globo. Grazie a Claudio Giambene e a quell’altro Claudio che ci hanno fatto conoscere Leicester, England, Italia, Mondo.

  4. Kokab 11 maggio, 2016 at 23:27

    bella l’immagine finale di disneyland, efficace per una storia di rivincita dei poveri, degli eterni sconfitti che come a volte capita nello sport riescono a cambiare l’inerzia delle cose prendendosi la ribalta e il posto di quelli più ricchi, più nobili, più forti e più potenti; c’è sempre del fascino nella vittoria dell’underdog, forse perchè realizza quello che non succede mai dove la vita conta davvero, e perchè ogni prima volta regala a chi la vive delle emozioni che altrove sono già state dimenticate, declassate all’ordinario, da straordinarie che erano.
    non ho mai visto una partita di calcio in vita mia, è uno dei pochi sport che mi è totalmente estraneo, principalmente per snobbismo, ma anche perchè nel calcio è troppo importante il senso di appartenenza e di identità collettiva, ma posso percepire dal racconto il brivido che percorre la schiena di chi c’era e non se lo aspettava, e il sorriso ad un tempo ironico e disincantato di chi ha realizzato un sogno, e se lo capisco io probabilmente gli altri lo capiranno anche meglio.
    benvenuto a claudio giambene, è stato un piacere leggere questa storia.

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