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I resistibili successi del Salvini in cravatta e senza felpa

I resistibili  successi del Salvini in cravatta e senza felpa I resistibili successi del Salvini in cravatta e senza felpa I resistibili successi del Salvini in cravatta e senza felpa

Il ridente Salvini in cravatta e senza felpa, vero capo di questo governo di inizio estate, imperversa da settimane su media e social media raccogliendo applausi e consensi a destra e a sinistra, favorito dall’inconsistenza di alleati e avversari, e da una straordinaria sintonia con il sentire diffuso del cittadino comune, che ormai identifica nei migranti prima e nell’Europa poi le cause delle sue paure e del suo impoverimento.

Quale che sia il parere di ciascuno sul leader della Lega, non si può negare che sia dotato di scaltrezza politica e di una forma di intelligenza che lo porta ad intuire la direzione da cui spira il vento, e ad aumentarne l’intensità con scelte spregiudicate che assecondano le pulsioni della pancia del paese, un paese che oggi vuole palesemente vedere i migranti inchiodati sulla costa libica o alla peggio affogati nel Mediterraneo, e che pretende dall’Europa delle condizioni di maggior favore nella gestione degli sbarchi, dei flussi e dei respingimenti.

Per questo Salvini le ha cantate chiare a tutti, a chi cerca di gestire l’emergenza umanitaria dei migranti, chiudendo i porti e “suggerendo” alla Guardia Costiera di non rispondere alle chiamate di soccorso, come se fosse alla lunga realmente possibile, e alle cancellerie europee, colpevoli di non prendersi quelli che sbarcano in Italia, sempre di meno invero grazie a Minniti, nella misura che vorrebbe lui. Il risultato sembra dargli ragione, perchè la Lega vola nei sondaggi e gli altri arrancano per difendere a malapena le posizioni; tuttavia, se questa strategia pare perfettamente funzionale ad un nuovo e ravvicinato confronto elettorale destinato a rafforzare il centro destra a trazione leghista, fino a rendere superfluo il Movimento 5 stelle, e ben più difficile che possa essere utile per indurre l’Europa a fare le scelte necessarie a risolvere il problema dell’Italia, per motivi diversi e diversamente intrecciati.

La prima questione riguarda il fatto che Macron, Merkel, e oggi anche Sanchez, hanno tutto l’interesse, per ragioni di politica interna e di politica estera, a contrastare il leader della Lega. Ciò dipende sia dal fatto che rappresentano posizioni chiaramente antipopuliste, vuoi per ragioni ideali, vuoi perché il populismo lo hanno dovuto combattere per arrivare al potere o per mantenerlo, sia perché devono tutelare il pur tremolante edificio europeo, nel quale hanno una posizione storicamente dominante, o del quale pensano di avere bisogno oggi e domani. Il fatto che la Francia e la Spagna abbiano la coscienza sporca sui migranti non ha impedito loro di sparare a palle incatenate sulla nuova politica italiana, mettendo in una situazione evidentemente imbarazzante il premier ufficiale nella sua recente visita a Parigi, dalla quale ha portato a casa solo una pacca sulla spalla. Allo stesso tempo la Libia, che ha un governo sostanzialmente eufemistico creato dall’interventismo francese, ha risposto picche al premier ufficioso in persona sulla questione degli hotspot in terra d’Africa. Difficile considerare questi esordi del nuovo governo gialloverde dei successi strepitosi.

Oggi Conte, dopo aver minacciato il veto sulla risoluzione del Consiglio europeo, incassa un risultato di facciata e dai risibili contenuti, sul quale Salvini si affretta a mettere i puntini sulle i e a rubargli di nuovo la scena dopo sole poche ore di gloria. Quel che resta della pantomima è forse persino peggiore del risultato che avrebbe avuto il veto, e cioè il mantenimento di uno status quo non certo favorevole all’Italia, visto che alla semplice spartizione dei migranti senza diritto d’asilo fra tutti i paesi dell’Unione che sono disponibili a prenderli, è stata approvata la nuova gestione dei movimenti secondari, che riporteranno in Italia i migranti già passati in altri paesi. Naturalmente ciò dipende dalla debolezza interna del governo tedesco, come ha esplicitamente dichiarato Angela Merkel, ma non è certo la soluzione del problema dei migranti e dei problemi italiani. È più facile che sia il peggioramento della nostra situazione, oltre che la vittoria su tutta la linea dei sovranisti di Visegrad.

La seconda riguarda i possibili alleati di Salvini, che sono paradossalmente i paesi del Gruppo di Visegrad, rinforzati dai baltici e più recentemente dall’Austria. Sono alleati paradossali perché sono intrinsecamente legati a Salvini sul piano politico e ideologico, ma sono con lui in completo conflitto d’interessi perché non vogliono nei loro paesi un migrante neanche morto e a nessuna condizione, esattamente il contrario di ciò di cui l’Europa ha un disperato bisogno. Su questo punto c’è un tema dirimente, perché i populisti, i sovranisti e i nazionalisti, Salvini e i suoi scomodi alleati lo sono tutti, sono strutturalmente estranei e contrari all’idea che sta alla base dell’Unione europea. Di più, ne portano alla luce la natura bislacca e asimmetica, cementata dalla moneta ma priva della politica, perennemente in bilico fra interessi generali e sovranità nazionale, ed è facile che questa Europa debole e politicamente incompiuta, picconata al suo interno dai populismi di lotta e di governo, possa presto presentare il conto ai suoi cittadini e ai suoi governi nazionali, offrendo come possibili alternative il fallimento totale del sogno di Ventotene, o le lacrime e sangue da versare per salvare il salvabile. Il fatto che l’accordo di ieri cristallizzi il privilegio accordato ad Orban e ai suoi sodali lascia intatta questa questione, e nessuno dei paesi di Visegrad ha uno sbocco sul Mediterraneo.

La terza riguarda la natura dei governi di Visegrad, che non solo sono nazionalisti e sovranisti, ma sono anche in diversa misura incompatibili con la concezione liberal democratica che sta alla base dell’Europa. Sono governi autoritari sostenuti da un vasto consenso popolare, sono assieme alla Russia di Putin e alla Turchia di Erdogan i concreti modelli di quella democrazia illiberale che è diventata negli ultimi anni la nuova frontiera della scienza politica teorica e pratica, per la quale ci si deve allontanare velocemente dai principi fondamentali dello stato di diritto, non escluso nei casi più gravi il principio di separazione dei poteri, perché considerati inefficaci, inefficienti e quindi obsoleti. È del tutto evidente che questi paesi non dovrebbero stare nell’Unione europea, alla quale hanno potuto aderire per ragioni geopolitiche e strategiche, con il non celato intento di usufruire dei benefici che derivano dal far parte di una comunità multinazionale senza assumersi i conseguenti e a volte pesanti oneri associativi; oggi ci sono, pesano, votano e ottengono dei chiari successi, come quello di ieri, nel quale hanno definito i limiti di movimento di Merkel e Macron, ed è ben difficile immaginare che domani possano contribuire al consolidamento dell’Europa acconsentendo a quelle sostanziali cessioni di sovranità che sono indispensabili per non far fallire rovinosamente il progetto unitario, ben più importanti di quella relativa alla gestione della moneta avvenuta all’inizio del millennio, .

La quarta riguarda il fatto che i governi di Visegrad hanno già iniziato a contagiare l’Europa, in modo evidente in Austria, che oggi non ha pagato il prezzo in sanzioni del suo precedente esperimento populista, e in modo ancora abbozzato in Italia, mentre in Francia e sopratutto in Germania sono stati respinti con perdite, non prima tuttavia di avere consolidato le posizioni e creato instabilità e insicurezza nei due paesi guida dell’Europa. Se le cose dovessero peggiorare, e se per esempio sulla questione degli spostamenti secondari un Seehofer domani ancora insoddisfatto dovesse far cadere il governo di Angela Merkel, si aprirebbero degli scenari che sono persino difficili da immaginare nella loro drammaticità, non solo in vista delle elezioni europee del prossimo anno, che si potrebbero trasformare in ogni singolo paese in un referendum sulle politiche relative ai migranti, ma sulla ragion d’essere dell’Europa stessa e sulla natura dei suoi confini interni ed esterni, che potrebbero diventare tanti nuovi muri di Berlino.

 

La cosa è così poco improbabile da aver già determinato il suo primo rilevante effetto, l’accordo di ieri che sancisce una gestione a due velocità della questione dei migranti, salvaguardando gli stati più incarogniti dal sovranismo populista: a parte il fatto di aver guadagnato del tempo, che certo in politica può contare, a me pare solo un diverso modo per far fallire l’Europa. In ogni caso, quale che sia l’epilogo dello scontro in atto fra chi ancora crede nell’Europa, o quanto meno nella sua necessità, e chi invece la considera semplicemente uno strumento asservito alle diverse sovranità nazionali, Orban per primo e Salvini per ultimo, è chiaro che la posta in gioco è quella della sicurezza contro i diritti, e non importa se l’insicurezza è quella percepita e i diritti sono quelli reali.

Questi problemi sono tutti più grandi di Salvini, e la loro soluzione non è nella sua disponibilità, se mai fosse nella sua volontà, non solo e non tanto per i suoi limiti, che pure ci sono, perché i suoi talenti non fanno di lui uno statista, ma perché sono troppo grandi per tutti, e lo sono per il nostro paese in particolare. È un gioco nel quale nessuno può veramente vincere, ma nel quale tutti possono perdere in diversa misura, e nessuno è indiziato a perdere quanto noi. Proviamo ad escludere il lieto fine, che l’odierno accordo di sicuro non garantisce, e ad immaginare le altre due soluzioni possibili, quella delle frontiere che si chiudono, e quella dell’Europa che salta per aria, e poi guardiamo la carta del Mediterraneo: a chi resterà in mano il cerino della crisi? A Malta? Possiamo immaginare le nostre navi in assetto di guerra che pattugliano il canale di Sicilia affondando ogni gommone? Possiamo immaginare che gli altri paesi Europei, che già oggi ospitano molti più stranieri di noi ci faranno degli sconti di fronte all’opinione pubblica mondiale? Possiamo pensare di essere l’unico terminale di questa crisi planetaria, con Salvini che guida le cannoniere? Possiamo immaginare il costo economico, politico, morale e sociale di questa operazione protratta nel tempo? Veramente possiamo? Veramente crediamo che un’Europa nella quale rinascono le frontiere sia l’Europa prospera del futuro? Davvero possiamo credere che la piccola Europa di Visegrad, che oggi canta vittoria, sia quella che risolverà i nostri problemi e ci garantirà il benessere di fronte ad una globalizzazione oggi dominata da americani e cinesi, oltre che dalle regole del mercato? Ci crediamo davvero?

Io non so se ci credono veramente quei milioni di cittadini europei che scambiano l’effetto con la causa, e attribuiscono alla presenza di uomini simbolicamente neri la ragione del loro diminuito benessere, oltre che, in casi sempre più frequenti, del loro impoverimento. Nessuna statistica, nessuna valutazione economica, nessuno studio, per quanto argomentato e autorevole, riesce scardinare questa certezza, e il fatto che il mix di liberismo sfrenato e globalizzazione, inventati a cavallo dell’Atlantico negli ultimi trent’anni abbia prodotto nello spazio di una generazione la più grande ricchezza mai vista sulla terra, e la sua più ineguale distribuzione, riesce a ridimensionare la paura sempre più diffusa dell’estraneo e del diverso, al quale vengono istintivamente attribuite tutte le colpe, anche le proprie.

Certo, l’Europa ha delle responsabilità imperdonabili nella proliferazione dei populisti e nel successo dei sovranisti: è stata troppo ineguale e troppo burocratica, non è riuscita a darsi una leadership all’altezza dell’impresa,  è riuscita a coniugare il rigore e le corte vedute degli stati più forti con la visione strategica più intelligente e le politiche interne più dissennate degli stati più deboli; non è riuscita a convincere nè gli stati più ricchi a risolvere economicamente le crisi più acute, come se le costruzioni politiche non avessero un costo, nè quelli più poveri a correggere i loro difetti strutturali, come se tutto dovesse essere loro perdonato. La globalizzazione e il liberismo hanno dettato le regole, che solo gli stati più virtuosi e solidi sono stati in grado di sostenere, e oggi che la situazione è scappata di mano i cittadini di mezza Europa si immaginano che la soluzione sia quella di Visegrad, come se quei paesi non fossero la quintessenza del capitalismo liberista creato dalla globalizzazione. Il che equivale a dire che la soluzione del problema sarebbe una omeopatica cura da cavallo, contemporaneamente un ossimoro e una stupidaggine.

Sul punto specifico, quello dei migranti, è giusto ammettere che il problema esiste, non oggi in realtà, perché il calo demografico dell’Europa li ha resi indispensabili in tutti i paesi in cui vivono e lavorano, ma fra qualche decennio, quando l’Africa avrà un numero di abitanti non doppio, ma quadruplo di quello dell’Europa: è indispensabile pensare a soluzioni intelligenti, perché la demografia non fa sconti a nessuno, ma la soluzione intelligente non sarà mai quella di allungare la lista delle 36.000 persone affogate in questi anni nel Mediterraneo, senza considerare il numero incalcolabile di quelli che sono morti nel deserto o per mano dei trafficanti di carne umana, ai quali non può essere lasciata mano libera girando la testa dall’altra parte e delegando ad una Libia inesistente delle responsabilità che non le possono competere. Non può essere questa la soluzione perché questa strage infinita, solo la punta di un iceberg molto più grande, nega alla radice i principi su cui si fondano la democrazia moderna e la parte migliore della civiltà occidentale, ma non lo può essere anche perché questa guerra insensata che baratta i diritti con la “sicurezza” finiremmo col perderla. Pensare che la guerra ai migranti sia lo strumento per battere il liberismo e la globalizzazione non è solo una cosa da razzisti, e una roba da imbecilli.

 

 

 

 

 

 

 

 

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