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Venezuela, petrolio e geopolitica. Non parliamo di democrazia

La crisi venezuelana, che sta rapidamente correndo verso sviluppi decisamente imprevedibili, ha caratteristiche del tutto insolite per gli standard di politica internazionale ai quali siamo da decenni abituati, prevalentemente caratterizzati da tempi lunghi e da negoziati inconcludenti, sotto l’ombrello delle grandi potenze militari, che hanno quasi sempre cercato di garantire che non si passasse il reciproco punto di non ritorno.

 

Naturalmente non sempre i conflitti sono stati composti, e alcuni sono anche stati combattuti, ma non ricordo un caso in cui tutti i grandi paesi occidentali abbiano dato un ultimatum di otto giorni ad un presidente in carica per convocare le elezioni, pena il suo disconoscimento e il riconoscimento formale dell’opposizione interna; questa minaccia, qualitativamente ben diversa dalle normali sanzioni economiche, e persino da un’invasione militare, rivolta ad un paese letteralmente spaccato in due e a rischio di una possibile guerra civile, alza l’asticella delle relazioni internazionali ad un livello veramente inconsueto.

 

 

Tutto ciò avviene, si dice, in nome della democrazia che il regime di Maduro ha brutalmente calpestato, riducendo per buona misura il suo paese alla fame. Ora, io credo che le considerazioni sulla qualità del regime di Maduro e sulle condizioni economiche del Venezuela siano entrambe giuste, ma onestamente non credo che la minaccia recapitata dai principali paesi occidentali, e dalla stragrande maggioranza dei paesi sudamericani c’entri nulla con la democrazia e con i suoi valori.

 

Il presidente in carica ha ottenuto il suo primo mandato nel 2013, con elezioni della cui correttezza è lecito dubitare e con un margine ristrettissimo sul suo avversario, mentre il secondo mandato è stato ottenuto per abbandono della contesa da parte dei partiti di opposizione, e con una astensione superiore al 50% degli elettori. Ha praticamente sempre governato per decreto, sulla base di “Leggi abilitanti” concesse prima dall’Assemblea Nazionale, e successivamente, dopo aver perso la maggioranza parlamentare, dal Tribunale Supremo di Giustizia; non contento di ciò, nel 2017 ha convocato delle elezioni per eleggere un’Assemblea Costituente, che oltre ad essere  stata votata di nuovo da una minoranza di elettori, si è posta in conflitto con l’Assemblea Nazionale, in una spirale in cui si intrecciano mortalmente i poteri dello Stato, senza che vi sia alcun reciproco riconoscimento.

 

Nicolas Maduro attorniato da effigi di Simon Bolivar

 

Contemporaneamente le condizioni economiche del paese, già provate dalle sanzioni inflitte per anni al regime chavista dagli Stati Uniti, e dalla diminuzione del prezzo del petrolio, sono drammaticamente peggiorate, non solo con riferimento ai principali  parametri economici (inflazione fuori controllo, debito,  depressione), ma anche rispetto alla disponibilità di beni di prima necessità, per la criminalità dilagante che ha richiesto interventi militari straordinari, e per l’alto indice di miseria diffusa. Non so se sbaglio, ma quel che si legge dell’attuale Venezuela a me richiama alla memoria il morente regime albanese di Enver Hoxha: difficile non pensare che il politico Maduro sia nella migliore delle ipotesi uno scappato di casa, totalmente inadeguato al ruolo che ricopre.

 

Eppure, anche se tutto questo è vero, credo che la bislacca democrazia venezuelana, o quel che ne resta, sia stata del tutto irrilevante nel determinare gli schieramenti geopolitici che oggi alimentano lo scontro, che sono legati esclusivamente all’immensa ricchezza petrolifera del paese, o a logiche di schieramento e conflitto che con la democrazia c’entrano anche meno del petrolio.

 

Se la democrazia degli altri fosse un reale problema dei paesi liberaldemocratici dell’occidente, e se fosse  possibile esportarla dove non c’è, l’Afghanistan, l’Iraq e la Libia sarebbero oggi dei paesi compiutamente democratici con i ritratti di Montesquieu esposte negli uffici pubblici. Non è così, e quando serve la mancanza di democrazia di un alleato non è mai stata un problema per i paesi occidentali.

 

El Helicoide, architettura brutalista degli anni '50 inglobata dalle favelas di Caracas

 

L’Arabia Saudita e le monarchie del golfo, pur con un benessere fra i più alti del mondo, sono abbondantemente al di sotto della linea di potabilità democratica, traguardo verso il quale si stanno avvicinando a grandi passi anche la Turchia, fondamentale tassello della NATO, e il gruppo dei paesi di Visegrad, guidati da Ungheria e Polonia. Naturalmente può essere che Maduro sia un problema superiore ad Erdogan o alla famiglia Saʿūd, ma se anche ciò fosse vero, le ragioni non attengono sicuramente alla natura della democrazia. Certo, in nessuno di questi stati con i quali intratteniamo buoni rapporti c’è la miseria del Venezuela, ma se fosse solo questo il problema il paese caraibico potrebbe essere trattato alla stregua di uno dei tanti stati africani a cui si spediscono cibo e medicinali destinati a finire sul mercato nero.

 

Se ci distacchiamo un attimo da queste considerazioni, e guardiamo in faccia i veri protagonisti di questa crisi, nella quale l’Europa si sta zelantemente infilando in nome della democrazia, non facciamo fatica a vedere qualcosa di realmente inquietante. Maduro è sostanzialmente uno dei tanti leader populisti sudamericani, probabilmente più incapace della media, ma non meno sbrigativo nelle azioni finalizzate a mantenimenti del potere. Al suo fianco si sono schierati soprattutto Putin, che è un satrapo orientale scaltro e spregiudicato, alla guida di un paese ancora sottosviluppato ma dotato del secondo esercito del mondo e di un deterrente nucleare decisivo, e Xi Jinping, probabilmente il più potente autocrate della terra, che pompa miliardi di dollari nelle casse venezuelane, avendo come Putin tutto l’interesse a mantenere il petrolio caraibico fuori dalla disponibilità degli Stati Uniti.

 

Juan Guaidó, con copertina di Simon Bolivar, ad una manifestazione a Caracas.

 

Dall’altra parte il capo dei “buoni”, il campione della democrazia, sarebbe Donald Trump, quello dell’America first, il più importante leader del populismo occidentale, e quindi dell’imbarbarimento dell’occidente, quello che ha l’ambizione di fare del mondo il suo cortile di casa, a scapito di quell’Europa che prospera troppo sotto la protezione americana, di quei russi che si ostinano ad essere poveri e armati fino ai denti, e di quei cinesi che manco concepiscono la democrazia da più di 4.000 anni, ma si sono sfacciatamente comprati il suo spropositato debito pubblico.

 

Se poi allarghiamo un po’ la visuale e ci allontaniamo dal nostro punto d’osservazione, vediamo che a fianco dell’impresentabile Maduro si sono schierati, oltre ad altri prevedibili avversari degli Stati Uniti, come ad esempio l’Iran, anche paesi come la Turchia del satrapo numero uno per odiosità personale, e paesi sudamericani tradizionalmente ostili agli States, come Cuba e la Bolivia. Una citazione a parte merita il Messico, oggi stranamente di sinistra, nonché a rischio di quella straordinaria prova di libertà e civiltà che è il muro sognato da Trump, e di una gran massa di profughi venezuelani che premono ai suoi confini. Con Trump ci stanno invece rispettabili leader come il canadese Trudeau, e un fascista omofobo e razzista come Bolsonaro, nostalgico dei golpisti che hanno insanguinato il sudamerica per decenni, con il quale sarebbe meglio non prendere neppure un caffè.

 

In mezzo a questa compagnia di giro di leader noti e sperimentati, non ho personalmente nessuna ragione per ritenere che il giovane capo dell’opposizione venezuelana reciti la parte del cattivo, e di ciò gli faccio credito fino al punto di non aver neppure approfondito la sua storia personale. Guaidò, a capo dell’Assemblea Nazionale, gode certamente di un grande consenso in patria e di un vasto sostegno internazionale, anche da parte di paesi che non sono in palese conflitto d’interesse con il suo; non ho neppure difficoltà ad ammettere che se fossi venezuelano non starei certamente dalla parte di Maduro, ma non mi pare sia questo il punto.

 

Nella guerra del petrolio venezuelano**  la contesa per il potere nazionale mi pare di gran lunga l’ultimo dei problemi, non solo perché a volte i dittatori possono persino essere il minore dei mali, e qui la lista sarebbe lunghissima, da Ataturk al Al Sisi, passando per Saddam, Gheddafi e Assad, ma perché mi pare che la qualità dello scontro e la posta in gioco superino gli standard che abbiamo fino ad oggi sperimentato, lasciandoci senza modelli di comportamento a cui ispirarci e possibili soluzioni da perseguire. Gli Stati Uniti hanno da oltre un secolo la forza economica e militare per vincere qualunque conflitto, ma a dispetto di ciò non li hanno certamente vinti tutti, e la loro storia recente, da Bush figlio in poi, non è stata certamente brillante. Fin dove si spingeranno gli americani per cacciare Maduro dal potere? Fino a che punto russi e cinesi saranno disposti a proteggere i loro interessi economici e politici? E che ruolo vuole più modestamente giocare oggi Erdogan dalla lontana Turchia, dopo aver messo in croce il principe ereditario Mohamed Bin Salman per il piacere di fare dispetto di Trump?

 

Ma poi non è solo questo il problema. Oggi gli interessi degli Stati Uniti non coincidono più con quelli dell’Europa, non solo perché Trump vuole il fallimento dell’Unione Europea almeno quanto Putin e sicuramente meno di  Xi Jinping, ma anche perché rappresenta compiutamente quella deriva populista che l’Europa sta subendo e che invece dovrebbe evitare. Che interesse ha l’Europa ad allinearsi dietro a Trump a caccia del petrolio venezuelano? L’unico mi pare sia l’interesse economico immediato che deriva dalle relazioni commerciali, ma di veri interessi politici, rispetto a questa amministrazione repubblicana, non riesco francamente a vederne alcuno.

 

Mi pare questa la vera radice del problema, fra l’altro imparentata con la questione iraniana, ed è un problema che attiene agli equilibri geopolitici del pianeta. A me pare chiaro che dal punto di vista di Trump la posta in gioco in Venezuela è quella della marginalizzazione delle risorse energetiche dei russi, l’unica vera ricchezza della potenza militare avversaria, e del contenimento dell’espansionismo politico ed economico dei cinesi, che invece di ricchezza ne hanno anche troppa. È persino comprensibile questa ambizione americana, penso che esisterebbe anche con una diversa amministrazione, ma dubito che corrisponda agli interessi del resto del mondo.

 

La concentrazione eccessiva del potere non è mai una buona cosa, per principio, perché se ne perde il limite, e l’America di oggi, che non è certo quella post bellica, si muove in una logica che è ad un tempo nazionale ed imperiale, a mio modo di vedere senza la luce di una proposta culturale e di una visione del mondo che possa essere condivisa al di fuori dei suoi confini. L’America di Trump non esercita una leadership, ma si sta muovendo verso una logica di potenza di tipo ottocentesco, e questo, in un mondo globalizzato e multipolare può essere estremamente pericoloso, perché i suoi avversari, che certamente non sono neanche lontanamente dei paesi democratici, non sono affatto delle tigri di cartone.

 

L’occidente che oggi si schiera a favore della democrazia venezuelana è un occidente che sta perdendo la sua identità liberaldemocratica, è un occidente che sta accarezzando lo stesso populismo di Maduro, di Putin, di Erdogan e dei leader dei paesi di Visegrad, nessuno dei quali è tanto più spregiudicato di Trump, ammesso e non concesso che non lo siano invece di meno. È un occidente che si affida al valore catartico del voto, come se la democrazia fosse solo consenso, e non anche divisione dei poteri, rispetto delle minoranze e limite di alcune libertà. È un occidente che si sta chiudendo, che sta dimenticando la forza della legge, che sta consentendo all’economia di soffocare la politica, e che sempre più spesso glissa sui diritti e le libertà degli altri, che vengono riconosciute solo se corrispondono ai suoi interessi. E per buona misura questa cesura fra amici e nemici si sta consolidando anche all’interno degli stati, oltre che fuori dai loro confini, frantumando sia l’identità dei cittadini che quella delle classi dirigenti, e scardinando il contratto sociale.

 

Naturalmente tutto ciò non fa di Maduro, che probabilmente è pure un cretino, un politico presentabile, e di Guaidò l’inconsapevole complice di un disegno altrui, le cose non sono mai così semplici, ma dobbiamo sapere che nel cercare di decidere la partita che si sta giocando in Venezuela ci stiamo schierando contro russi e cinesi su un paese che gravita nella loro orbita, e a fianco di un altro paese che si è appena dato l’obbiettivo di indebolire e se possibile smantellare l’Europa.

 

Io non ho nessuna soluzione a questo problema, che sia attuabile qui ed ora, perché non sembrano esserci margini per una trattativa fra le grandi potenze coinvolte, e ancor meno sembrano essercene all’interno del paese caraibico. Tuttavia se pensiamo di combattere per la democrazia dei venezuelani senza combattere per quella dei sauditi, vuol dire che non stiamo combattendo per la democrazia, ma solo per il petrolio, noi europei fra l’altro in conto terzi, e soprattutto che non sappiamo quello che stiamo dicendo.

 

La posta in gioco di questa partita riguarda l’ambizione americana di un mondo unipolare, e quella russa e cinese di un mondo multipolare, nel quale i quasi due miliardi di persone che vivono in questi paesi, che è bene ricordarlo non si pongono la democrazia sostanziale come obbiettivo, restino fuori dall’area di influenza dell’occidente. È giusto? È sbagliato? Dal loro punto di vista è certamente giusto, e dubito che sarebbe una buona idea cercare di imporre una soluzione diversa con la forza. In ogni caso, a prescindere dai principi,  personalmente credo che all’Europa converrebbe di più un mondo multipolare, tanto più oggi, nel momento in cui l’occidente che si sta chiudendo su sé stesso sta imparando velocemente quanto la democrazia possa essere ridotta a banale esercizio di un potere carismatico che ne imbastardisce la natura. In questa storia avventurosa e pericolosa sarebbe bello che nessuno parlasse di democrazia. Per decenza.

 

 

 

 

** Articolo con ulteriori informazioni sulle particolarità del petrolio greggio del Venezuela.

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