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Gli amori folli e precari di Cristina Comencini

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È stato un amore intenso e senza pace quello tra Claudia e Flavio. Intenso, ma evidentemente asimmetrico sin dall’inizio. Troppo.
Lei (Lucia Mascino) innamorata “senza rimedio”, esagerata, insicura, ansiosa, nervosa e a tratti asfissiante, perché ossessionata dalla paura di perderlo (e infatti lo perde).
Lui (Thomas Trabacchi) invece, narciso, freddino, a tratti anaffettivo, distaccato e cerebrale; travolto nella relazione più dalla passione di lei, che dai suoi personali sentimenti.
Entrambi quarantenni inoltrati, docenti in un’università romana e dunque belli, colti, intelligenti e liberi.

Un amore infelice e tormentato per incompatibilità caratteriale, con tutte le incomprensioni e i contrasti che ne conseguono, e per la mancanza di una sintonia di fondo: lei sogna matrimonio e un figlio, che lui però non vuole. Alla fine sembra cedere, ma in procinto del grande passo, il suo sguardo si rabbuia, ci ripensa e se ne va, mentre lei esclama avvilita: “Ma fai almeno la valigia, cazzo! È umiliante essere lasciata da un uomo con lo zaino!”.
La lascia per Giorgia, una trentenne, bella, dolce, rassicurante e, soprattutto, tranquilla. Naturalmente Giorgia se la sposa senza tanti tentennamenti, perché dice a sé stesso “che questa volta sarà felice” (ma non troppo).
Inizia allora per Claudia l’inevitabile, drammatica, lunga elaborazione del lutto amoroso, in cui a momenti di cupa e disperata rassegnazione si alternano punte di battagliera e ossessiva caparbietà: dopo ventotto messaggi senza risposta (“forse perché è finito il credito”), lei gli scrive: “Il nostro amore non finisce, perché io non voglio.” E invece il loro amore finisce, perché lui ha deciso così.

In questo lungo, interminabile lutto, fondamentale e impagabile per la pazienza che dimostra nel ruolo di consolatrice, è la preziosa amica e collega antropologa (in ogni storia che finisce c’è sempre una poveretta, condannata a sorbirsi all’infinito gli stessi racconti, i pianti, le domande, le angosce e le recriminazioni dell’abbandonata).
Col tempo però, anche il lutto di Claudia – insieme ad un’improbabile relazione lesbica di ripiego con un’allieva – sembra passare, così come è passato l’amore di Flavio.
Un giorno poi, si incontrano di nuovo in facoltà e, davanti ad un caffè, mentre si raccontano le loro vite e i loro ricordi amari e ancora leggermente inaciditi, in un dialogo, che forse è l’unico momento autentico di tenerezza di tutto il film, si parlano col pensiero senza dirselo:

– Come sei invecchiato amore mio! Hai gli occhi un po’ tristi.
– Sono tanto stanco, amore mio! Lei è così giovane e questo è faticoso!
– Ma non ti manca mai di fare l’amore con me, di parlare con me, di litigare con me?
– Mi mancano tutte e tre queste cose, ma con lei non soffro più.

Quindi Claudia si alza e se ne va, ma non prima di avergli augurato perfidamente di diventare padre di una figlia femmina, che un giorno sarebbe stata abbandonata e inconsolabile come lei, per colpa di un uomo come lui…

Poi, citando Proust e traendo le sue conclusioni mentre cammina sul Lungotevere, butta a fiume il vecchio cappello rosso insieme al passato e a tutto il dolore, e, come per incanto, sembra diventare finalmente più leggera e più sicura di sé:

E dire che ho sciupato anni della mia vita, che ho voluto morire, che ho avuto il mio più grande amore per un uomo che non mi piaceva, che non era il mio tipo… No questo è Proust. Tu eri il mio tipo, eccome! Ma è successo a noi come a tutti, l’amore se ne è andato. E oggi ti perdo. Adesso, se mi fermo e ci penso, l’accetto…Alla fine, cazzo, anche i Beatles ci sono lasciati!

La trama di questa storia nella sostanza è identica a quella di tanti altri amori infelici, di cui il mondo è pieno; e poiché finiscono tutti allo stesso modo, la si può raccontare per intero.
Vale la pena vedere il film, invece, per la geniale recitazione a tutto tondo di Lucia Mascino nella parte di Claudia che spazia dall’esaltazione alla depressione; per quella altrettanto pregevole di Carlotta Natoli, nelle vesti dell’amica paziente; e per l’ironia amara di certe scene esilaranti e di alcuni dialoghi, come quello, gustosissimo, tra la protagonista e la portiera del palazzo.
Lucia – contenta di aver perso la causa di divorzio perché lei dal marito non vuole niente, “né casa, né figli, né soldi” – vive beatamente un nuovo amore, che invece al mondo ci sa stare benissimo, senza nessun problema.
La donna sembra rispondere al ritratto dell’amante che Sartre delinea nell’Essere e il nulla, quando scrive che “ciò che l’amante esige, è che l’amata abbia fatto di lui una scelta assoluta”. E infatti Lucia è innamorata, amata e felice:

– Che ti ridi Lucia?
– So’ felice, so’ innammorata!…
– Oh!… Ma di chi ti sei innamorata?
– Ci ha 38 anni, un fiore… però è rumeno, mi sa che è un problema, vero professore’?
– No. Non direi.
– Infatti io lo amo!
– E lui ti ama?
– E certo, sennò che lo amo a fa’!?

Claudia replica sconsolata a quella illuminante risposta: “E certo… sennò io che lo amo a fa’!?
E allora, alla fine di questa storia senza lieto fine viene da pensare – seguendo ancora Sartre – che se è vero che l’amore è sempre difficile, perché è sostanzialmente conflitto di due libertà che vogliono paradossalmente impadronirsi l’una dell’altra – ma come libertà, non come cose – forse è altrettanto vero che quelli che amano tanto e pensano troppo, sono ancor meno capaci di vivere amori che sanno stare al mondo, perché i loro sono destinati a soccombere sotto il peso della loro stessa sofferta ed elucubrata intensità. E, d’altro canto, va da sé che la tranquilla stabilità di certi amori assomiglia più alla pace perpetua di un cimitero, che alla tregua rinfrancante tra due combattenti, sfiniti dalla lotta… ma vivi.

 

 

Amori che non sanno stare al mondo. 2017. Regia: Francesca Comencini, Sceneggiatura: Francesca Comencini, Laura Paolucci, Francesca Manieri, Cast: Thomas Trabacchi, Lucia Mascino, Carlotta Natoli, Iaia Forte, Valentina Bellè.

 

 

 

 

 

 

 

 

Alba

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