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Le prime elezioni politiche europee

Le prime elezioni politiche europee

È ben strano il destino dell’Unione Europea, probabilmente la costruzione politica più ambiziosa tentata nella storia recente senza ricorrere alla guerra, anzi, all’opposto, progettata per seppellirne il ricordo per sempre. Per oltre 50 anni è stato un progetto lontano, un’immagine sullo sfondo delle vicende politiche nazionali, nata dal pensiero visionario di alcuni uomini imprigionati su un’isola, e poi concretamente sviluppata da generazioni di leader politici di diversa ispirazione e caratura, a passi lenti e per molto tempo quasi impercettibili. Per molti anni non ci siamo quasi accorti delle elezioni europee, un rito secondario delle nostre democrazie, che veniva considerato solo per misurare la salute in politica interna dei principali partiti, quelli di ispirazione cattolico-liberale, e quelli appartenenti alla famiglia socialista, che in un quadro di sostanziale non belligeranza ci hanno infine portato a cedere concretamente all’Unione alcuni pezzi delle sovranità nazionali, fino  a quando quasi tutti i principali paesi hanno rinunciato per la prima volta a uno dei loro poteri fondamentali, quello di battere moneta.

 

In tutti gli anni del suo sviluppo l’Unione Europea è stata essenzialmente un prodotto delle classi dirigenti, una costruzione elitaria, anche nel senso nobile del termine, che i cittadini hanno considerato con distacco ma senza ostilità, visto che i numerosi benefici  non hanno implicato contropartite serie da ripagare. Gli uomini e le merci viaggiavano liberamente, l’economia è stata per molti anni all’interno di un ciclo positivo, l’Unione promuoveva e investiva nello sviluppo dei singoli paesi, garantiva rassicuranti condizioni di equilibrio, e chi era fuori dal nucleo storico dei fondatori bussava alla porta per entrare, fino a quando, gradatamente, il numero degli stati membri è passato dai sei iniziali ai ventotto finali, prossimamente destinati a calare di uno con l’uscita del Regno Unito. Naturalmente ci sono sempre stati dei nazionalismi minoritari che contestavano il processo di unificazione dell’Europa, quello degli inglesi prima di tutti, ma fino all’adozione dell’Euro e anche dopo, fino alla crisi del 2008, non hanno mai scaldato il cuore dei cittadini in una misura sufficiente a cementare  un consenso antieuropeista, e a mettere veramente in discussione la natura in qualche modo non popolare della costruzione dell’Europa.

 

Oggi tutto questo non è più vero, l’Europa non è più una prospettiva pacificamente acquisita, dopo un decennio in cui i movimenti sovranisti hanno guadagnato progressivamente consenso, e per la prima volta dal 1979, data delle prime elezioni europee, ci avviciniamo ad un voto che conterà finalmente qualcosa,  un voto con cui i cittadini potranno seriamente decidere se vogliono l’Europa nel loro futuro, o se preferiscono interrompere il processo che ha discretamente accompagnato le loro vite e ritornare dentro i più semplici e accoglienti confini della piena sovranità nazionale.

 

Le ragioni che hanno portato a questa nuova consapevolezza sono ormai sedimentate nel dibattito e nel pensiero politico degli ultimi dieci anni, e avrebbe ben poco senso ricostruirle nel dettaglio una volta di più. Certo, l’Europa in divenire ha grandi responsabilità nella propria crisi: troppo burocratica e troppo poco politica, troppo diseguale economicamente e socialmente al suo interno, e troppo vasta per essere realmente omogenea, forse troppo audace nella sperimentazione della moneta unica, la sola che non ha dietro di sé una vera autorità statale, e troppo timida nel definire una identità politica forte e realmente condivisa.

 

Tutti questi limiti non hanno resistito né al fuoco della crisi del 2008, né alle dinamiche della globalizzazione, e quando sono emersi dallo sfondo in cui si trovavano sono diventati ad un tempo il peccato degli europeisti e la ragione dei sovranisti, con diversi fondati motivi. Il tiepido e maggioritario consenso dell’Europa elitaria ha sofferto del consenso entusiastico di cui ha goduto la minoritaria Europa dei popoli, come si autodefinisce, e così in pochi anni lo scivolamento verso forme di sovranismo autoritario e illiberale dei piccoli paesi di Visegrad si è sommato alla crescita del consenso di movimenti populisti e chiaramente di destra in alcuni dei grandi paesi fondatori. La Francia e la Germania fino ad ora sono riuscite e resistere all’assalto del populismo, grazie anche alla nascita di nuovi partiti centristi o ad alleanze fra i socialisti e i democristiani che fino al giorno prima si contendevano il potere, certificando con ciò la crisi degli equilibri precedenti, ma l’Austria e soprattutto l’Italia hanno già visto il trionfo di schieramenti di destra che hanno spazzato via i vecchi partiti grazie ad un consenso popolare forte e reale basato sul rifiuto delle vecchie classi dirigenti e delle politiche di rigore che hanno portato avanti.

 

Certo, le questioni economiche si sono sommate e confuse con il problema dell’immigrazione, coniugando in modo sostanzialmente artificioso il benessere con l’identità, ma i dettagli ormai contano poco, e oggi ciò che si percepisce chiaramente della dinamica del confronto in atto è la natura entusiastica e popolare del consenso che spinge i sovranisti, e la difficoltà che incontra il vecchio estabilishment a costruire uno schieramento fondato su idee e uomini che possano cementare un consenso altrettanto entusiastico fra i loro elettori. Questo processo, che era sempre stato arginato e contenuto nei limiti di un forte dissenso all’Europa, si è infine rafforzato e radicalizzato, rendendo per la prima volta contendibile la maggioranza del prossimo Parlamento europeo.

 

In questo confronto lo schieramento europeista sconta oggi un doppio e perdente conflitto d’interesse sui due temi decisivi della prossima campagna elettorale, che fra l’altro è iniziata da mesi nel campo sovranista. Sia sull’economia che sul tema dei migranti gli interessi nazionali sono sostanzialmente opposti, sul mercato elettorale, agli interessi dell’Europa, sia perchè sul piano economico non si reggono più le due velocità che caratterizzano i paesi più ricchi, più sviluppati e meno indebitati, rispetto a quelli che si trovano nella condizione opposta, sia perché sul piano sociale qualunque variazione all’attuale politica dell’immigrazione, ossia ogni variazione dello status quo, che tutti ritengono troppo penalizzante, sarebbe a vantaggio di qualcuno e a svantaggio di qualcun altro.

 

È difficile cercare un consenso per l’Europa su temi che sono impopolari dentro i confini nazionali, ed è ugualmente difficile cercare il consenso su temi nazionali se si vuole proteggere il processo di consolidamento dell’Unione. Per i populisti è più facile, non devono cercare una sintesi politica che guardi al superamento delle sovranità nazionali, perchè nel loro programma c’è solo l’Europa dei popoli, sostanzialmente un ossimoro che non porta da nessuna parte, se non alle piccole patrie che saranno spazzate via dalla globalizzazione.

 

Certo, l’Ungheria di Orban è stata censurata, e personalmente ritengo sia una buona cosa, perché credo ancora che i principi abbiano un valore, ma non c’è la forza, non c’è la volontà, e non ci sono neppure le condizioni tecnico giuridiche per cacciare da un’Europa troppo grande chi in Europa ci vive da parassita. Il risultato paradossale potrebbe persino essere quello di rafforzare i partiti populisti degli altri paesi, perché le idee di Orban accarezzano la pancia di un elettorato sempre più spaesato e spaurito, al quale non sono offerte alternative capaci di smuovere le coscienze da qualcuno che abbia la forza e la credibilità per esprimere e garantire quella sintesi politica che oggi manca, e che oltre un certo limite è sempre mancata.

 

Naturalmente anche la strada dei populisti è in salita, devono conquistare tanti voti per diventare maggioranza in Europa, e forse questo balzo in avanti è al di fuori delle loro possibilità, ma hanno anche il vantaggio di potersi permettere una mezza vittoria, e cioè un aumento significativo dei loro seggi, capace di condizionare il Parlamento dalla comoda poltrona dell’opposizione. All’opposto agli europeisti non basterà vincere, dovrebbero vincere bene per dare una svolta al processo di disgregazione dell’unità europea che la crisi economica e i migranti hanno innestato in modo drammatico, e oggi onestamente non si vede come ciò possa succedere.

 

Eppure, a dispetto dei limiti che ha avuto e che ha, l’Europa delle elites, fosse pure irriformabile, e anche se non ha mai veramente parlato ai cittadini, è ancora la scelta di gran lunga migliore rispetto alla pretesa Europa dei popoli, e contro questa Europa dei popoli che si sta delineando, marchiata a fuoco da fascisti, populisti e sovranisti di ogni genere e specie, varrebbe la pena di votare per qualunque tecnocrazia, fosse pure guidata dal principe Vlad,  se non c’è una alternativa migliore. Perché, e a questo gli elettori non pensano quasi mai, l’interesse convergente di Trump, di Putin e della Cina, che è in diverse misure quello di disgregare l’Europa e ridurla a tanti piccoli stati sovrani e ininfluenti, non è nel mondo globalizzato l’interesse dei cittadini europei.

 

Trump, che è meno intelligente di Putin, lo ha spiegato in termini chiari: l’America che tratta separatamente con tutti, e tutti sono più piccoli e più poveri di lei, è l’America first del suo perverso sogno americano, ma ammesso e non concesso che sia questo il sogno degli americani, è da vedere se può essere il sogno del resto del mondo, e nostro in particolare. Putin, che sta alle nostre porte, guida un paese che ha il Pil dell’Italia e il secondo esercito del mondo, così grosso che vincerebbe a mani basse una guerra contro l’Europa intera, se non ci fossero gli americani, perché non dovrebbe volere l’Europa disgregata? La vuole così tanto che non ha lesinato sostegno a personaggi che probabilmente disprezza, come Marine Le Pen e Matteo Salvini, per mandarci in questa direzione. Di nuovo, è questo l’interesse dei cittadini europei? E poi la Cina, ha un Pil vicino a quello americano, essendosi anche comprata il debito pubblico a stelle e strisce, possiamo interessargli come mercato, ma possiamo interessargli anche come concorrente, e al netto dei bizantinismi orientali, non è automatico che sia interessata alla sopravvivenza del concorrente piuttosto che del mercato, se mai lo è stata.

 

In un mondo diventato troppo grande per noi, nel quale il nostro benessere è inversamente proporzionale al nostro peso politico, oggi dobbiamo decidere se il benessere, non sempre compiutamente meritato, può sopravvivere in una qualche misura senza un peso politico adeguato. La domanda è semplicissima, ma sembra che nessuno sia nella condizione di dare una risposta all’altezza del problema, per una ragione o per l’altra: per questo le prossime elezioni saranno le prime vere elezioni politiche dell’Europa. Potrebbero essere anche le ultime.

 

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