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Renzi perderà

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La legislatura volge al termine, mestamente, come sempre terminano le legislature, e mentre il treno di Renzi viaggia con alterna fortuna fra le città italiane, il PD pare avviato ad un incerto destino elettorale, guidato da un leader che non sembra aver compreso gli errori che lo hanno portato dal trionfo delle europee del 2014 al rovinoso risultato del referendum costituzionale del 2016, entrambi segnati da quella magica cifra del 40% che a me pare sia stata male interpretata in tutte e due le occasioni, perché sia nella vittoria che nella sconfitta ha prima dimostrato che l’Italia è un paese irrimediabilmente di destra, e ha poi segnato il limite massimo, credo anche molto sopravvalutato, del perimetro del centro sinistra a trazione renziana.

 

Il segnale del “liberi tutti”, e dell’avvio della campagna elettorale, è arrivato con l’approvazione del Rosatellum, sul quale Paolo Gentiloni ha dovuto mettere obtorto collo la fiducia, ed è del tutto evidente che da quel momento siamo entrati in una fase di turbolenza politica nella quale Renzi farà la cosa che sa fare meglio, la campagna elettorale, con l’obbiettivo dichiarato di essere il prossimo Presidente del Consiglio, in quello che si prospetta essere il parlamento più ingovernabile di sempre: per fare cosa, al di la della generica barriera al populismo rampante, nessuno lo sa, forse neanche lui, e forse a nessuno veramente interessa saperlo.

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Naturalmente la legge elettorale serviva, non fosse altro perché sarebbe stato imbarazzante votare con un sistema nato da ben due sentenze della Corte Costituzionale su leggi sfacciatamente temerarie, e magari il Rosatellum è pure meglio dei Consultelli, non saprei dire in realtà, ma a me pare che la dinamica della sua approvazione coniughi tali e tanti problemi di forma e di sostanza da rendere francamente indifendibile  la sua paternità da parte del PD, e inevitabile un prezzo salato da pagare in conseguenza.

 

Il primo problema deriva dal fatto che la nuova legge è stata pensata con il retropensiero, probabilmente sbagliato, di penalizzare il Movimento 5 Stelle, e ciò non è mai saggio, sia perché l’immagine è di per sé imbarazzante e alimenta l’impopolarità, sia perché compatta sempre e orgogliosamente l’elettorato avversario, che in questo caso non ne aveva affatto bisogno, e ancor meno ne aveva bisogno il PD.

 

Il secondo nasce, come vulnus incancellabile, dalla richiesta del voto di fiducia, procedura che potremmo eufemisticamente definire insolita per una legge elettorale, essendo questa una delle più importanti regole di base che dovrebbero essere condivise da maggioranza e opposizione; la cosa in questo caso è tanto più grave sia perché deriva dalla totale sfiducia del PD nei suoi parlamentari, eletti con il premio di maggioranza del Porcellum e destinati ad essere domani impallinati nei collegi del nord e di una parte cospicua del sud, sia perché nonostante l’accordo sulla legge della Lega e di Forza Italia, nessuno intesterà ad altri che al PD la sua approvazione, e il metodo con cui è stata ottenuta.

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La terza sta nel danno d’immagine causato dalle bacchettate sulle dita che il PD si è preso da tutti per la scelta dirompente della fiducia, e in particolare per quelle di Napolitano prima e di Grasso poi, che a giudicare dalle reazioni stizzite, almeno nei confronti di Grasso, devono avere già fatto male, e altro ne faranno allontanando ancora di più quel segmento di elettorato, squisitamente di sinistra, che a queste cose ci tiene molto. Naturalmente Grasso fa male perché viene percepito come il possibile federatore degli infiniti partiti e partitini di sinistra alla sinistra del PD, oggi guidati da un branco di scappati di casa indecisi a tutto da anni, e per questo privi di qualsiasi credibilità; è possibile che sia così, anche se mi pare difficilissimo, perché sarebbe contro la natura stessa della sinistra italiana, ma se è bastata l’idea per avere paura vuol dire che un problema sulla natura e sull’identità della sinistra esiste, come peraltro si è visto anche in altri paesi europei, e qualcuno nel partito se ne preoccupa.

 

La quarta sta nella legge in sé, non tanto perché è come al solito una brutta legge, come a mio parere lo sono tutte quelle che non sono squisitamente maggioritarie o proporzionali con alta soglia di sbarramento, ma perché sembra fatta apposta, a dispetto delle intenzioni, per penalizzare il PD, evidentemente ancora accecato dall’illusione del 40%, e autisticamente inconsapevole delle batoste rimediate ovunque dal referendum in poi. Non è solo una questione di sondaggi e di simulazioni, tutte negative per il partito di Renzi, a me pare essenzialmente un problema legato alla struttura della legge, che coniuga collegi a liste bloccate, e che in una situazione sostanzialmente tripolare finisce col favorire i partiti radicati nelle aree più intensamente popolate, il nord e il sud, che sono quelle dove oggi il PD è tragicamente più debole, e dove per questo rischia di fare un bagno di sangue nei collegi. Detto in altri termini, non si era mai visto nessuno che approvando la legge elettorale insaponasse la corda con cui impiccarsi.

 

Questo è il punto di partenza, il qui ed ora da cui muove Renzi per cercare la sua vera investitura popolare in un luogo diverso dalle primarie del PD, aiutato in ciò anche dalla discreta prova di Gentiloni, che non a caso gode di una popolarità prima impensabile; è una condizione difficilissima, anche per un animale da campagna elettorale come lui, e io credo che perderà, ma perderà per ragioni più squisitamente politiche, che sono del tutto diverse da quelle tecniche e di immagine che riguardano la vicenda della legge elettorale.

 

La prima è una semplice ragione statistica: il popolo italiano, che poche volte ha dato prova di accettabile intelligenza elettorale, nella seconda repubblica ha sempre mandato a casa la maggioranza uscente, credo per una forma di provincialismo ignorante che prescinde da meriti e demeriti, non per altro; in ogni caso, sorvolando sulle ragioni, se la regola vale e si conferma, il PD dovrà scendere da cavallo perché è il suo turno. La cosa mi pare tanto più probabile perchè in politica sconfitta chiama sconfitta, ben oltre gli effettivi demeriti di un partito, e fra un PD che naviga di bolina da oltre un anno, e una destra che corre col vento in poppa per l’inerzia del contesto e della situazione, non mi pare possa esserci partita: i due ridicoli referendum del lombardo veneto, ridicoli nel merito ma non nella sostanza politica, sono ben più di un campanello d’allarme.

 

La seconda è legata alla personalità di Renzi, un leader divisivo come nessuno mai in Italia, anche più di Berlusconi, capace di suscitare odi furibondi in misura ben maggiore dei consensi fideistici che pure raccoglie; lo dicono i numeri, è odiato visceralmente dai grillini, dalla destra e da una parte importante della sinistra, e lo dicono le immagini che costruiscono il suo personaggio muscolare e crudele di rottamatore infinito, incapace di accettare il dissenso, la critica e la sconfitta. In questo mi pare emblematica la sceneggiata dell’abbraccio di fine ottobre con Gentiloni a Pietrarsa, di fronte ai dirigenti del PD: da una parte quelli “storici” che consapevoli dei rischi gli hanno chiesto di porsi il problema della sinistra elettoralmente unita, e dall’altra quelli del giglio magico, miracolosamente risanati in massa  dopo l’incidente della conferma di Visco come banchiere centrale, che hanno sardonicamente sorriso quando Renzi ha detto che è disponibilissimo ad aprirsi a sinistra se la sinistra fa quel che vuole lui. Questa scena mi lascia immaginare l’epilogo della campagna elettorale, con i renziani di provata fede blindati nelle liste del partito, e gli altri a sacrificarsi nei collegi, ma bisognerà pur dire da qualche parte che i renziani doc del giglio magico Craxi non se li sarebbe presi neppure come nani e ballerine, e che ciò costituisce un problema, oltre che per il consenso del PD, anche per la natura stesa della democrazia, perché tutto ciò va ben oltre l’anticamera del populismo.

 

La terza è costituita dalla visione politica di Renzi, e dal suo progetto per il futuro del paese. Io credo che Renzi si consideri molto moderno perché si immedesima con trent’anni di ritardo in Tony Blair, e pensa che il suo compito sia quello di svecchiare la sinistra e portarla nel terzo millennio, come se il tempo, i fatti e le condizioni fossero indifferenti, come se la visione socialdemocratica della storia fosse e dovesse essere un rottame di fronte al liberismo dilagante, e come se Giuseppe Sala fosse una sorta di Che Guevara de noaltri. Nel momento della massima ineguaglianza sociale degli ultimi 70 anni, nel tempo in cui il reddito si distribuisce nel modo più iniquo, mentre il populismo e la destra più estrema divorano i tradizionali bacini elettorali della sinistra, l’idea di Renzi è quella di contendere fino in fondo i voti della destra pensando di poterne prendere di più di quelli che perde a sinistra, come se quei voti fossero veramente contendibili invece che ben presidiati da partiti radicati e strutturati, o da movimenti che col voto di protesta ci vanno a nozze in un modo che lui non potrà mai imitare, non fosse altro per il fatto che sarebbe solo la loro imitazione.

 

Naturalmente le previsioni elettorali sono un azzardo e un gioco pericoloso con quale spesso ci si scotta, ma io trovo inquietante l’immagine di Renzi che va alla guerra in compagnia di Verdini e della Boschi, la bella e la bestia che sostituiscono l’austero Enrico Rossi perché inattuale e inelegante, come un Bertinotti qualunque, senza contare che dietro a Rossi, o a Grasso, ci sono idee e storia, visione e progetto, politica e negoziato, senso del dovere e senso dello stato, principi e compromessi, radicamento e consenso, tutte cose che a lui appartengono poco, o che non gli appartengono affatto, ma che sono nella natura di quei milioni di uomini e donne di sinistra, non contendibili per la destra, che si sono spostati nell’astensione o nel cono di irrilevanza di Bersani e D’alema pur di non stare con il giovane rottamatore fiorentino, che detestano, dal quale non si sentono rappresentati, e che vogliono politicamente morto.

 

Sempre più uomo solo al comando, circondato da tanti nessuno plaudenti, Renzi si dirige a grandi passi e con una grinta allo stesso tempo invidiabile e incomprensibile verso una campagna elettorale in cui parte da sfavorito, e dalla quale il PD rischia di uscire come terza forza, costretto nella migliore delle ipotesi ad accomodarsi al tavolo di Berlusconi, e neppure sullo scranno principale. Io credo che Renzi non possa vincere, e che bene avrebbe fatto a sé stesso, alla sinistra e al paese se avesse tratto le conseguenze politicamente e moralmente dovute dopo l’esito per lui mortale del referendum, che lo ha reso il grande perdente di questa fase storica. Non ha avuto la statura per fare questa scelta, credo gli manchino il senso di identità e di appartenenza necessari, che mi pare gravissimo, ma soprattutto, a dispetto delle sue molte qualità, e del suo essere animale politico, mi pare che non capisca la politica, che oggi non è più la prosecuzione della televisione con altri mezzi. Per questo penso che Renzi perderà.

 

Renzi perderà

Simulazione di possibili esiti del Rosatellum bis dell’Istituto Cattaneo e Open Gate Italia

 

 

 

 

 

 

 

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1 comment

  1. Tigra 9 novembre, 2017 at 23:02

    Credo che sia vero che Renzi è indigeribile per una parte troppo grande dell’elettorato di sinistra, che è indispensabile per vincere anche se è minoritaria. Credo anche che per togliere argomenti a Bersani e D’Alema, e ridare la voglia di votare a tanti elettori, dovrebbe cedere sulla linea politica che ha scelto, se non altro per ragioni di opportunità, e provare a costruire prima delle elezioni un’alleanza su un programma che non sia solo il suo, e non sui nomi dei partiti e sulle facce dei leader. Credo infine che un ragionamento così finemente politico, andreottiano direi, sia fuori dalla sua portata.
    Che poi il vero problema sia di tipo ideale, culturale e identitario per lui è assolutamente inimmaginabile: non so se Renzi perderà, ma farà di sicuro una gran fatica a vincere.

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