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Perché Mattarella ha ragione e tutti gli altri hanno torto

Perché Mattarella ha ragione e tutti gli altri hanno torto.

Lo stallo nel quale si trova la situazione politica italiana dopo quasi tre mesi dalle elezioni politiche è determinato da molti fattori, alcuni in via di soluzione (o definitivamente risolti), altri apparentemente irrisolvibili. Dopo lunghe trattative svolte in modo del tutto irrituale, e secondo alcuni persino al di fuori della prassi costituzionale, Lega e Movimento 5 stelle hanno faticosamente raggiunto un accordo, ed hanno proposto al Presidente della Repubblica il nome di un candidato gradito ad entrambi i gruppi parlamentari, capace di ottenere la fiducia del Parlamento e di dare quindi inizio all’attività di Governo.

Giuseppe Conte, avvocato, professore di diritto privato all’Università di Firenze, vanta solide conoscenze giuridiche, ma manca totalmente di esperienza politica, e dato che condurre il Governo in un Paese come l’Italia non pare essere cosa da poter affrontare a cuor leggero, Mattarella ha voluto ponderare bene la decisione di affidargli l’incarico, e lo ha alla fine fatto riservandosi poi di dare un giudizio sulle candidature per i Ministeri, ritenendo necessario affidarli a persone con comprovata capacità di sostenere il gravoso impegno; lo scoglio sul quale tutta la procedura rischia di arenarsi è sull’individuazione del nominativo che dovrebbe gestire il Ministero più importante, non solo perché detiene tutte le leve economico-finanziarie del Governo, quanto perché è quello che forse più di ogni altro avrà il compito di raccordo tra il nostro esecutivo e gli organismi europei.

Com’è noto l’Italia è da sempre sotto stretta osservazione da parte della Commissione europea in quanto è il Paese che detiene il debito pubblico più grande in rapporto al PIL, ed anche perché è quello che si è sempre dimostrato più riottoso a seguire le regole che l’Europa si è data in materia di sana e prudente gestione; nel tempo si sono alternati esecutivi di spesa (Berlusconi e Renzi) a esecutivi di maggiore rigidità (Monti, Letta), intervallati da brevi esperienze nelle quali il debito pubblico si è ridotto e nel contempo si è cercato faticosamente di dare impulso all’economia (Prodi). Dopo la fallimentare esperienza del 2011, quando Berlusconi fu di fatto costretto a rassegnare le dimissioni sotto la spinta dei mercati finanziari che stavano in massa abbandonando gli investimenti in titoli di Stato italiani (lo spread che era schizzato sino alla quota di 600 bp, ha imposto a Monti una cura di lacrime e sangue i cui esiti ancora facciamo fatica a superare), il paese ha ricominciato lentamente a crescere, sempre però sul crinale di una forte tensione con l’Europa: il nodo è quello della ricerca di una maggiore flessibilità che non sempre viene concessa, e quando ciò non accade viene limitata notevolmente l’azione di Governo, riducendo i capitoli di spesa a cifre che, quando non ottimamente utilizzate, non riescono a dare all’economia quell’impulso necessario ad ottenere tassi di crescita che in altri paesi si verificano normalmente, ma dai quali noi restiamo lontani.

Nel momento in cui il ciclo economico espansivo mostra qualche segnale di rallentamento, la BCE si prepara a ridurre l’immissione di capitali freschi nell’economia europea e Draghi inizia a tirare le somme della sua lunga e proficua (specialmente per noi) esperienza a capo del massimo organismo finanziario dell’Unione, noi ci accingiamo a varare una nuova fase politica nella quale a dirigere l’attività di Governo saranno i partiti che più si sono mostrati scettici nei confronti delle politiche comunitarie, sino ad arrivare a paventare più volte la necessità di un loro profondo ripensamento, se non addirittura ad ipotizzare la nostra fuoriuscita dall’euro ed il ritorno ad una moneta nazionale, vista, secondo me erroneamente, come la soluzione di tutti i mali. E proprio queste forze politiche hanno designato come figura di spicco per ricoprire il ruolo di Ministro dell’Economia, colui che più di ogni altro ha espresso perplessità, sia sulla nostra adesione all’euro che sull’opportunità di restare nell’ambito della moneta unica: il Prof. Paolo Savona.

Sia chiarito subito che Paolo Savona è uno degli economisti italiani più noti ed apprezzati, che vanta non solo una lunga carriera accademica, ma anche una importante esperienza in ambito politico, avendo ricoperto in passato numerosi incarichi di vertice nel settore pubblico oltre che in quello privato, sino a ricoprire importanti incarichi di Governo: dal punto di vista dell’esperienza e della competenza non c’è quindi nulla da eccepire. Il fatto è però che in passato più di ogni altro ha manifestato il suo gradimento per una politica di confronto aspro fino allo scontro con l’Europa, e questo sembra cozzare non tanto con la vocazione europeista manifestata da Giuseppe Conte dopo aver ricevuto l’incarico, quanto con la necessità di non spingere la tensione in ambito intra comunitario ai limiti del calor bianco, al fine di non mettere in atto processi di rottura la cui composizione sarebbe assai difficile.

Per comprendere bene quale siano i termini della questione occorre ripercorrere a ritroso le tappe della nostra travagliata vicenda europeista sino a delimitare pochi ma importanti aspetti:

  • L’adesione all’Europa prima ed all’euro poi è stato un lungo cammino gestito a livello governativo durante i vari passaggi, per poi arrivare alla obbligatoria ratifica parlamentare avvenuta con iter di legge ordinaria, quindi senza che siano stati previsti strumenti di semplificazione.
  • La decisione di recedere dai trattati internazionali non può essere soggetta a referendum se non previa modifica della Costituzione, e necessita di un iter inverso che passi dal Parlamento: da ricordare che il trattato di Lisbona (l’ultimo in ordine di tempo) fu ratificato a luglio del 2008 all’unanimità.
  • Il Trattato di Maastricht che tra l’altro ha istituito l’euro prevede per i paesi che ne facciano richiesta e che abbiano le caratteristiche necessarie, le dovute procedure di adesione, ma né in quel trattato né in altri successivi è mai stata prevista una procedura per uscire dall’euro mantenendo l’adesione alla Comunità economica europea. Qualsiasi Paese desiderasse ritornare alla moneta nazionale dovrebbe fare esattamente ciò che ha fatto il Regno Unito: chiedere l’attivazione dell’art. 50 del Trattato di Lisbona per uscire definitivamente dall’Europa.

Sono passati dieci anni da quando abbiamo deciso di ratificare il Trattato di Lisbona, e sarebbe paradossale che due forze politiche, solo per aver avuto un successo elettorale e con una maggioranza numerica esigua, attivassero per via governativa una serie di provvedimenti tali da portarci, prima a ricattare l’Europa forzandone le regole, e poi ad uscirne; per di più con un’astensione alle ultime elezioni che non è stata da record ma che sicuramente è risultata molto importante.

Bene fa Mattarella a manifestare le sue perplessità per un Governo incardinato su di un Presidente del Consiglio del tutto privo di esperienza e con un fortissimo Ministro dell’Economia che ha più volte delineato i suoi intendimenti, e non si comprendono le proteste per questo suo atteggiamento, visto che la Costituzione gli attribuisce il potere di nomina del PdC e, su indicazione di questo, dei Ministri, assolvendo così al suo ruolo di garanzia che non può esaurirsi in un presenzialismo di facciata e privo di contenuti.

Nel contempo mal si comprende l’impuntatura di Salvini e Di Maio su di una figura (Paolo Savona), che pur essendo indicato come il più importante Ministro di un Governo del cambiamento, rispecchia appieno lo stereotipo di politico di lungo corso contiguo ai poteri forti, proprio quel tipo di politico che è stato duramente combattuto in campagna elettorale. Scorrendo il curriculum di Paolo Savona si resta impressionati dalla quantità e importanza degli incarichi ricoperti, e appare singolare che il solo essere contrario all’euro possa bastare per ritenerlo la linea del Piave sulla quale far naufragare, prima che inizi ad operare, il Governo del cambiamento. Molto più facile che gli scopi siano ben altri, primo fra tutti quello di un ritorno alle urne nel più breve tempo possibile, per di più potendo aggiungere al vecchio armamentario di becerume politico, anche le invettive contro un Presidente della Repubblica che sta onorando al meglio il suo gravoso incarico.

 

 

 

 

I vincitori stanno scrivendo la storia; purtroppo!
AAA Governo disperatamente cercasi
4 marzo 2018, prova di democrazia o crisi della democrazia?

 

 

 

 

 

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