le storie

La speranza di un nuovo mondo e la conoscenza forse perduta.

a speranza di un nuovo mondo e la conoscenza forse perduta.

Nel 1934 venne stampata una delle più importanti opere del teologo tedesco Walter Bauer, dal titolo “Ortodossia ed eresia nel Cristianesimo delle origini”; di quest’opera, originariamente scritta in lingua tedesca e poi tradotta in inglese, non esiste una versione in italiano, per cui essa è circolata prevalentemente nel mondo protestante con scarsa eco nel mondo cattolico; chi volesse leggerla dovrebbe ricorrere al testo originale o ad una delle sue traduzioni in lingua inglese, oppure accontentarsi, come ho fatto io, delle citazioni che di essa fanno diversi storici e filosofi e della quale proporrò una brevissima, ma credo molto esauriente sintesi: Bauer sosteneva che la Chiesa delle origini, o meglio, le sue varie sfaccettature ricostruite dopo secoli di ricerche e scoperte anche abbastanza recenti (vedi Rotoli di Qumran), fosse eretica rispetto all’ortodossia che ci è stata tramandata.

Questa affermazione si presta a due considerazioni: una ovvia e l’altra molto meno, ma dall’impatto dirompente. La prima considerazione è quella che Bauer ha affrontato in modo cronologicamente del tutto illogico il rapporto tra eresia ed ortodossia; infatti è comunemente inteso che l’eresia sia la manifestazione di critica se non addirittura di rifiuto dell’ortodossia; per cui come poteva la Chiesa delle origini essere eretica rispetto ad un canone religioso che ancora non era stato definito? Bauer ha volutamente insistito su questa apparente contraddizione che porta fatalmente alla seconda considerazione: in quella affermazione esiste tutta la drammatica presa d’atto della distanza esistente tra ciò che Cristo e la sua vita sono probabilmente stati ed hanno rappresentato nel tempo in cui le note vicende si sono svolte, ed il racconto che di esse è stato tramandato fino a noi.

 

 

La Chiesa più o meno come la intendiamo noi oggi, deve la sua nascita  al Concilio di Nicea, convocato nel 325 dall’Imperatore Costantino il quale, secondo la versione ufficiale, si era convertito alla nuova religione e voleva quindi contribuire a consolidarne le basi per l’evangelizzazione dell’Impero; più realisticamente con quell’atto l’Imperatore ha voluto dirimere le controversie religiose esistenti al tempo in seno alle comunità cristiane, incentrate prevalentemente sulla vera natura di Cristo e le conseguenti dispute che finivano spesso in tumulti dove il sangue scorreva a fiumi. Quello di Costantino fu il tentativo estremo di unificazione dell’Impero attraverso un’unica religione per evitare ciò che poi fatalmente accadrà: la sua completa disgregazione.

Per quasi 1200 anni la Chiesa cercherà faticosamente di definire un canone religioso per porre fine alle ricorrenti divisioni; fu infatti solo con il Concilio di Trento che dal 1545 al 1563 si definirono i termini della Controriforma cattolica in risposta alla Riforma protestante di Martin Lutero. In esso venne per la prima volta ufficializzato il corpo delle regole costituito dai 27 testi componenti il Nuovo Testamento (1).

 

 

La posizione della Chiesa del Concilio di Trento rispetto non solo alle questioni prettamente teologiche, è stata ben riassunta più tardi nel “De Romano Pontefice” dal Cardinale Roberto Bellarmino (per intendersi, quello che mandò al rogo Giordano Bruno, e le cui tesi servirono in seguito per istruire il processo a Galileo Galilei) il quale scrisse:

“Se anche il Papa errasse comandando dei vizi e proibendo delle virtù, la Chiesa è tenuta a credere che i vizi siano buoni e le virtù cattive”.

E il Cardinale Bellarmino è stato canonizzato nel 1930 da Papa Pio XI, appena pochi anni prima che Bauer ci fornisse la sua opinione su ciò che era stata la Chiesa alle origini: una polemica destinata a proseguire.

Prima che la pietra tombale della Controriforma chiudesse in ambiti angusti il dibattito teologico e condizionasse lo sviluppo culturale di tutta l’area geografica tradizionalmente cristiana, in particolar modo a partire dallo scisma del 1054 tra Chiesa d’oriente e Chiesa d’occidente, il confronto anche aspro tra il cristianesimo dogmatico ed intransigente di Roma e quello più aperto alla divulgazione della cultura greca della quale la parte scismatica orientale era permeata, non si era mai sopito.

Al di là della naturale avversione al paganesimo ellenistico, la Chiesa temeva moltissimo la contaminazione della libertà di pensiero della quale il mondo greco aveva dato per secoli sfoggio; una parte della Cristianità voleva cancellare quattromila anni di storia del pensiero sviluppatosi prima della nascita di Cristo, imprigionandolo nella memoria dei 33 anni in cui dalla nascita ufficiale del Salvatore si era giunti alla sua crocifissione. L’altra al contrario guardava a quei secoli apparentemente perduti nella speranza di tramandarne lo spirito ma, come vedremo risulterà perdente.

 

 

Per comprendere quali fossero le pulsioni contrapposte che animavano la Chiesa nel tardo medioevo e quanto queste abbiano inciso sulla storia successiva, è utile rileggere alcuni passi di un famosissimo romanzo di Umberto Eco, Il nome della Rosa, nel quale l’autore racconta una storia tratta da un manoscritto benedettino in lingua francese, ove si trovano molti degli elementi di cui ho sino ad ora solo accennato: la disputa teologica tra francescani e domenicani sulla reale natura giuridica degli abiti di Gesù (li possedeva o no?), con evidente contrasto tra la povertà delle origini invocata dai francescani e l’opulenza della Chiesa del tempo difesa dal papato (2); la natura penitenziale della vita umana corrotta dalla comicità e dal grottesco, tipici delle commedie greche (3); la modernità orientale contro l’arretratezza occidentale (4); il giudizio infallibile della fede contro i dubbi della ragione (5); la necessità di tenere segreti testi ritenuti pericolosi (6). Quel periodo di fervore ideologico e libertà di pensiero che animerà anche il XV° secolo troveranno il loro tragico destino con la Controriforma del secolo successivo.

Passati quasi cento anni da quel 1327 nel quale Eco ambienta la trama del suo libro, il confronto tra la cultura greca e le sue conoscenze, che ritroviamo ovunque nel mondo pagano (7), e quella occidentale saldamente ancorata alla fede in Dio, prosegue all’inizio del XV° secolo quando il 6 luglio 1439 si aprì a Firenze il Concilio nel quale ci si proponeva di riunificare comunità ecclesiastiche frammentate e distinte, non solo territorialmente, tra loro: bizantini, armeni, siri, copti, caldei, popolazioni residenti nell’area danubiana e comunità disperse dall’Asia Minore sino all’Etiopia; popoli e culture diverse confluirono a Firenze per sancire sotto la Chiesa di Roma la composizione delle divisioni, ma con l’accettazione da parte di quest’ultima di istanze non banali, volte al recupero di una tradizione che affondava le sue radici nel paganesimo ellenico. Insieme agli ecclesiastici, confluirono a Firenze filosofi e studiosi come Giorgio Gemisto Pletone e Bessarione i quali nel Concilio vedevano l’inizio di un processo ancora più ambizioso, tendente a recuperare antiche tradizioni filosofiche a partire da Zoroastro sino a Pitagora e Platone, depositarie di un sapere universale che vedeva nel Sole l’elemento unificatore, l’eterno universo divino la cui comune accettazione avrebbe potuto auspicabilmente portare in seguito anche al superamento delle divisioni esistenti tra le tre religioni monoteiste (8). Programma questo estremamente ambizioso, che finì con il naufragare ben presto di fronte alle eccezionali resistenze sorte nell’ambito dell’ortodossia romana, ma che ebbe comunque conseguenze eccezionali su quel periodo che non a caso chiamiamo Rinascimento.

 

 

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Di quell’evento durato in tutto quattordici anni, di cui quattro fanno parte della parentesi fiorentina (dal 1439 al 1443), la città serba il ricordo particolarmente in due opere d’arte per le quali il confronto tra linguaggio letterale (ciò che l’opera rappresenta) e quello allegorico (il messaggio che essa sottende) finisce per fornire interessanti spunti di riflessione; e se è del tutto evidente che la rappresentazione di un evento serviva a rendere accessibile l’evento stesso al popolo pressoché analfabeta, l’allegoria in essa più o meno nascosta era il modo in cui l’artista personalizzava l’opera, nascondendo in essa messaggi che talvolta dovevano essere abbastanza evidenti, altre volte abilmente celati ai più e disponibili solamente a chi possedeva le qualità, non necessariamente solo la cultura, per comprenderli. Si tratta di due affreschi, o meglio, di due cicli di affreschi sui quali è utile soffermarsi per comprendere lo spirito del tempo, di quel tempo in quella città.

 

 

Il primo dei due è “Il Diluvio” di Paolo Uccello in Santa Maria Novella, iniziato nel 1425 e terminato nel 1449; purtroppo è pervenuto a noi in non buone condizioni, sia per il fatto di essere stato dipinto nel chiostro e quindi soggetto alle intemperie, sia perché all’inizio del XIX secolo quel luogo venne adibito a scuderie per i cavalli e il ciclo di affreschi venne “arricchito” di griglie per il fieno murate senza il minimo rispetto per il luogo, con le immaginabili conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Su di esso non mi soffermerò molto: interessante notare come il messaggio letterale (la rappresentazione del diluvio universale) e quello allegorico, (il travaglio della Chiesa d’Oriente che come un’arca che passa dalla tempesta al sereno, si appresta alla riunificazione con la Chiesa di Occidente, con al comando il Patriarca Giuseppe II nei panni di Noè (9) ), siano di facile lettura e rappresentino l’ottimismo dell’artista sul felice esito del Concilio, esito che, come sappiamo sarà tutt’altro che tale (felice).

 

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La simbologia della scena spazia dalla metafora della purificazione, con il passaggio dalla tempesta al sereno, al superamento delle divisioni all’interno della Chiesa e chissà forse anche alla nascita di un “uomo nuovo in un nuovo mondo”; in ogni caso di una nuova era in virtù della raggiunta unificazione conciliare. A benedire l’evento, in piedi tra le due arche Papa Eugenio IV il quale ebbe proprio in Santa Maria Novella la sua sede temporanea durante i lavori conciliari. (10).

 

 

Il secondo ciclo di affreschi è “Il corteo dei Magi” ed è pervenuto a noi in perfetto stato di conservazione, ad eccezione di una finestra aperta su una parete che ne taglia un pezzo deturpandolo. In esso il senso letterale è evidente dal titolo, ma ad allegoria, Benozzo Gozzoli ha voluto aggiungere allegoria e l’interpretazione diventa, non solo più difficile ma probabilmente addirittura fuorviante.

La Cappella dei Magi si trova al piano nobile del Palazzo Medici Riccardi; all’interno di essa l’artista ha affrescato tre scene su corrispondenti facciate della Cappella.

 

 

Per curiosità sono andato a rileggere ciò che di quel ciclo di affreschi aveva scritto Giulio Carlo Argan nel volume secondo della sua Storia dell’Arte, vecchio libro degli anni del liceo; a pag. 221, sopra una foto nella quale per evidenti esigenze tipografiche la scena rappresentata in uno degli affreschi è stata tagliata mutilandola in quella maestosità che si percepisce nella visione totale, si leggono queste parole:

“…nel Viaggio dei Magi (1459) non sa far altro [Benozzo Gozzoli; ndr] che riproporre, con un frasario più moderno e più accessibile alla borghesia elegante del tempo, l’ideale “cortese”

A sostegno di una visione scolastica la Professoressa Diane Cole Ahl, storica dell’arte, definisce il ciclo di Benozzo “Il più esteso studio di paesaggio in Italia del secolo”; altri aggiungono che, sia pur stilizzato, il paesaggio è quello toscano, con campi coltivati, filari di alberi e strade bianche. Io che in Toscana ci sono nato e ci vivo, per quanto mi sforzi, non riesco a vedere in quei contorni e in quella vegetazione i tratti tipici della mia regione. Scorrendo il ciclo di affreschi si notano diverse piante di Araucaria e di Yucca (piante sconosciute prima della scoperta delle Americhe), un cervo dalle orecchie straordinariamente grandi (tipiche di una razza andina) e aguzzando la vista all’interno dell’affresco nella parete ovest, si nota un indio adornato con un copricapo tradizionale del popolo Inca: la Mascapaicha ornata da tre piume dell’uccello sacro Curiquingue, che notiamo altrove in molte immagini nelle quali è rappresentato il leggendario capo Inca Pachacùtec.

 

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Ufficialmente il quadro celebra l’arrivo a Firenze del Duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, del Papa Pio II Piccolomini e del Signore di Rimini Sigismondo Pandolfo Malatesta, tutti diretti a Mantova ove si sarebbe dovuta decidere l’ennesima crociata per la riconquista di Bisanzio caduta in mano ai turchi, ma anche la fine di quel periodo nel quale la riconciliazione tra le chiese cristiane avrebbe dovuto concretizzarsi dopo l’ottimismo di venti anni prima al Concilio di Firenze.

Quello che in realtà fa Benozzo Gozzoli, più che celebrare un evento noto, è raccontare più di venti anni di una storia che stava per essere cancellata dall’oblio.

 

 

La prima cosa che colpisce della serie di affreschi è che, nonostante si riferisca alla tradizione dell’Epifania, i tre cortei non convergono verso la grotta della natività; in realtà il riferimento a questa è presente sopra l’ingresso prima di accedere alla cappella, ma una volta entrati, lo si perde completamente. Poi colpisce la composizione dei tre cortei nei quali, a partire dalla parete est, si vede il giovane Re Gaspare seguito dai membri della famiglia Medici (dal capostipite Cosimo sino a Lorenzo e Giuliano) insieme a Galeazzo Sforza e Sigismondo Pandolfo Malatesta; in secondo piano, sulla sinistra la delegazione bizantina al gran completo (con Bessarione, Gemisto Pletone e Giovanni Argiropulo). Nella parete sud Re Baldassarre, con la pittura interrotta dalla citata finestra e seguita poi da tre figure femminili a cavallo (le tre sorelle di Lorenzo il Magnifico?), ed infine nella parete ad ovest il Re Melchiorre che conduce il corteo dei notabili fiorentini.

 

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Concludendo, da est ad ovest si segue la coda del corteo sino alla testa dello stesso; in effetti le delegazioni orientali arrivarono a Firenze in tre momenti diversi tra la metà di febbraio e l’inizio di marzo del 1439: iniziò il Patriarca Giuseppe II di Costantinopoli (Melchiorre) seguito dall’Imperatore Giovanni VIII Paleologo (Baldassarre) e dal fratello di quest’ultimo, Demetrio (Gaspare), elencati quindi in senso inverso rispetto alla descrizione.

L’idea di un viaggio fatto dai Medici insieme ai loro tradizionali alleati Sforza e Malatesta sotto la guida dei bizantini, alla volta di terre allora ignote sembra in effetti quella che Benozzo in questo ciclo di affreschi voglia suggerire. Dietro la figura di Gemisto Pletone si vede ben definito, anche se apparentemente in secondo piano, il volto di un fanciullo verso il quale l’anziano umanista bizantino sembra volgere lo sguardo, come a volerlo indicare come suo giovane apostolo e futuro depositario della conoscenza da lui portata a Firenze.

E qui si apre l’ultimo capitolo di un’avventura che mi ha inizialmente incuriosito, poi interessato, quindi appassionato ed infine travolto.

 

 

Allegato a “La Ricerca del Nuovo Mondo e la Mappa Perduta”, abbiamo inserito una tabella relativa alla Cronologia Storica degli avvenimenti ai quali quel testo fa riferimento; essa è stata definita partendo inizialmente dalle date che in quella narrazione non potevano mancare (se non altro per dare al lettore adeguati riferimenti spazio/temporali senza i quali avrebbe potuto smarrirsi), e che si è poi arricchita man mano che il testo prendeva forma e contenuto. Di getto, quasi istintivamente ho voluto indicare la data di nascita e di morte di Leonardo da Vinci anche se, con tutta evidenza, nell’articolo non ne faccio mai menzione; per cui giunto al termine della stesura e rileggendo il testo, mi sono domandato che senso avesse mantenere quei due riferimenti. La risposta che mi sono dato è stata che Leonardo non può mancare in una narrazione del Rinascimento, e così ho lasciato che la sua nascita e morte risaltassero come eventi che hanno in ogni caso segnato quell’epoca.

È stato solo in seguito che quella occasionale scelta si è rivelata giustificata.

 

 

Di Leonardo ci è stata tramandata un’immagine che finisce per non collocarlo in un tempo specifico: un genio ma discontinuo, eclettico ma incapace spesso di andare oltre intuizioni eccezionali, forse persino un po’ maniacale con quella sua abitudine di nascondere i suoi pensieri dietro linguaggi rappresentativi ambigui (a partire dall’inconsueta modalità di scrittura); della sua vita privata si sanno molto bene alcune cose, di altre non si conosce niente come se avesse voluto (lui o altri per lui) scegliere ciò che voleva si sapesse e ciò che invece avrebbe dovuto rimanere nascosto. Uno dei rari casi di profeta in patria e fuori (11), amato al tempo in cui visse esattamente come oggi, cinquecento anni dopo la sua morte.

 

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E iniziamo proprio dalla sua morte avvenuta il 2 maggio 1519 a Cloux (l’attuale Clos Lucé) nei pressi di Amboise, mentre era ospite da due anni del Re Francesco I di Francia, il quale lo aveva accolto, nonostante l’età e il cattivo stato di salute non gli consentisse più l’attività di un tempo. Relativamente alla data della sua morte abbiamo ragionevoli certezze dovute alla presenza di cinque testimoni, oltre al Re (nelle cui braccia si dice che Leonardo sia spirato) e a Francesco Melzi, suo assistente che erediterà la parte più importante del suo lavoro: la biblioteca composta da oltre centocinquanta libri, in gran parte manoscritti dell’artista, purtroppo non tutti pervenuti fino a noi.

Incomprensibile, di contro, che anche la sua nascita abbia destato tanto interesse da coinvolgere testimonianze e appunti doviziosamente raccolti dal nonno Antonio Da Vinci, che fece un resoconto particolareggiato dell’evento, si dice accaduto il 15 aprile 1452 alle ore 3 di notte, nonostante il bambino fosse il frutto di un relazione e non di un matrimonio; infatti il padre, Ser Piero Notaio in Vinci e Firenze, si sposò ben quattro volte ma non con la presunta madre di Leonardo della quale, nonostante approfondite ricerche, si sa ben poco se non che fosse una popolana, forse persino una schiava orientale di nome Catarina (piccola catara?). Anche della sua infanzia e dei suoi spostamenti di quegli anni si hanno recensioni talvolta puntuali, in un’epoca nella quale questa abitudine era alquanto inconsueta, specialmente per un figlio non destinato ad ereditare un titolo nobiliare.

 

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Gli storici dell’arte hanno trovate numerose tracce di ritratti e autoritratti di Leonardo fatti nel corso della sua vita, ma quello più noto si trova presso i Musei Reali di Torino ed è un disegno a sanguigna relativamente al quale sul sito del MRT si trova questa annotazione:

“…Si tratterebbe di un lavoro eseguito dal Maestro ormai sessantenne, poco prima o poco dopo la sua partenza per la Francia.” 

Quindi secondo gli studiosi del Museo, che da anni mantengono in gestione il prezioso disegno, Leonardo si immortalò intorno al 1517 quando aveva ormai superato l’età di 60 anni; in effetti il calcolo sulle date ufficiali conferma che alla sua morte Leonardo aveva circa 67 anni, per cui il disegno venne effettuato quando presumibilmente aveva circa 64 – 65 anni: sfido chiunque a vedere in quel disegno un uomo di 65 anni, sia pur considerando un’età media a quel tempo ben più bassa dell’attuale. Inoltre va tenuto conto del fatto che Leonardo pur non essendo ricco, ebbe una vita piuttosto agiata (almeno per gli standard del tempo) e con poche difficoltà, se non quelle derivanti da alcuni problemi di salute che lo portarono probabilmente alla morte.

 

 

Inoltre le annotazioni puntuali di Antonio da Vinci vengono smentite dalle uniche due fonti storiche giunte sino a noi; la prima è il cosiddetto Anonimo Gaddiamo (12) nel quale testualmente si legge:

“Et morse presso a Ambosia, città di Francia, d’età d’anni 72 a un suo luogo chiamato Cloux, dove aveva fatto le sue habitationj”.

La seconda fonte è costituita dall’onnipresente Giorgio Vasari il quale ne Le Vite… annota:

“Adunque mirabile e celeste fu Lionardo, nipote di Ser Piero da Vinci, che veramente bonissimo zio e parente gli fu, nell’aiutarlo in giovinezza.”

Ed anche:

“Lionardo da Vinci cittadino fiorentino, quantunque fussj legittimo [legittimato – ndr] è figliolo di Ser Piero a Vincj, era per madre nato di buon sangue.”

Ed infine:

“…Per la qual cosa rizzatosi il Re, e presoli la testa per aiutarlo e porgerli favore, acciò che il male lo alleggerisse, lo spirito suo che divinissimo era, conoscendo non potere avere maggiore onore, spirò in braccio a quel Re, nell’età sua di d’anni LXXV”.

 

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Conclusione: Ser Piero riconobbe ufficialmente Leonardo ma probabilmente non ne fu il padre, la madre non era certo una schiava ma più probabilmente una nobildonna fiorentina e quando Leonardo morì aveva un’età superiore ai 72 anni. Le giustificazioni date dagli storici a queste evidenti incongruenze, e che eviterò di commentare, sono le seguenti: Leonardo si ritrasse più vecchio di quello che era realtà, in quanto cercava nei suoi ritratti di evidenziare non solo l’aspetto esteriore ma anche il sentimento del soggetto (la gotta di cui soffriva da sempre e una paralisi alla parte destra del corpo lo facevano sentire più vecchio della realtà); la madre non poteva essere di buon sangue in quanto si trattava di una schiava la quale in seguito andò in moglie ad un contadino, e sia l’anonimo gaddiano che il Vasari si sono sbagliati. Ma a questo punto possiamo ritenere che Leonardo non nacque il 15 aprile del 1452 e probabilmente non a Vinci, nonostante la comunità locale si sia data da anni un gran daffare per supportare la storiografia ufficiale e godere così dei vantaggi economici derivanti dal turismo.

Come detto, oltre alle prove documentali della sua nascita ed infanzia, abbiamo anche una nutrita schiera di ritratti ed autoritratti, che testimonia non solamente l’attività dell’artista nel ritrarsi, ma anche quella di molti altri pittori suoi coevi di ritenerlo così importante da dover essere ripetutamente immortalato.

 

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Il primo autoritratto recentemente accertato di Leonardo è su di una piastrella di maiolica vetrificata; essa raffigura una fisionomia che ritroviamo molte volte in quadri, affreschi e statue; in particolar modo nel David di Andrea del Verrocchio (nella cui bottega si dice che Leonardo, come molti altri, abbia iniziato la sua opera) e in quello di Donatello. Probabilmente un giovane Leonardo è rappresentato, come ricordato, da Benozzo Gozzoli alle spalle di Gemisto Pletone nella cavalcata dei Magi a significare un ideale passaggio di testimone dal vecchio filosofo neoplatonico al giovane e geniale Leonardo, anche se i due per motivi anagrafici potrebbero non essersi mai effettivamente incontrati.

 

 

Come se non bastassero le suggestioni dettate da coincidenze più o meno fortuite, datazioni improbabili ed eventi inspiegabili, una nuova se ne aggiunge e per comprenderla dobbiamo tornare indietro, a quella volta affrescata nella Sagrestia vecchia di San Lorenzo a Firenze, allo zodiaco rappresentante la data del 4 luglio 1442; e se, mentre immersi nel blu della cupola, ci voltiamo a guardare verso il lato opposto, si noterà un busto in terracotta, immagine di un fanciullo, per il quale la Fondazione Zeri dell’Università di Bologna ci fornisce le seguenti specifiche tratte dal suo Catalogo on line.

Datazione dal 1450 al 1464, autore Desiderio da Settignano (o Donatello?), soggetto San Lorenzo, Titolo San Leonardo… Leonardo?

Cosa ci fa l’immagine di un giovane Leonardo in quella cappella in prossimità di un affresco chiaramente indicante una data di un evento ritenuto importante dalla famiglia Medici?

La biografia di Piero il Gottoso ci ricorda che egli ebbe 7 figli: 3 femmine e 4 maschi. Di questi conosciamo il nome di 6: Bianca, Nannina, Maria, Lorenzo, Giuliano e Giovanni (del quale, oltre al nome, peraltro incerto, non sappiamo altro); il mistero del settimo è forse racchiuso nella Sacrestia Vecchia di San Lorenzo?

 

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Occorre a questo punto provare a immaginare una storia piena di suggestioni, in parte basata su indizi, in parte su supposizioni, ma anche supportata da alcune solide basi che possiamo oggi definire documentali.

Nel 1439 si tiene un Concilio a Firenze durante il quale la Chiesa si interroga sulla opportunità di tentare la riunificazione dei culti monoteisti (iniziando dalle chiese cristiane scismatiche), recuperando nel contempo l’antica sapienza ellenica tramandata a Bisanzio, i cui massimi depositari erano dovuti fuggire verso l’Ungheria per scampare all’invasione ottomana. In quel periodo è un fiorire continuo, e non solo a Firenze, di circoli e accademie nelle quali quelle idee, allora rivoluzionarie, vengono diffuse con grande partecipazione da parte delle migliori menti del tempo. Il Concilio però non fu un successo; le resistenze da parte delle gerarchie ecclesiastiche incardinate sulla dottrina e sulla fede consolidate da secoli, impediscono quel rafforzamento della Chiesa dovuto alla riunificazione, che avrebbe dovuto consentire un fronte unito contro l’avanzata ottomana che porterà, dopo la sconfitta di Varna del 1444, alla definitiva caduta di Costantinopoli.

Mentre la Chiesa di oriente vede fallire i tentativi di riconquista di Costantinopoli e quella di occidente veniva pervasa da conflitti interni, il sogno della riunificazione fallisce e quelle idee che tanto avevano acceso gli animi a Firenze e in altri Stati del Nord Italia ove si erano diffuse, rischiavano di finire bruciate in qualche rogo insieme a chi se ne faceva latore.

 

 

Leonardo (nato probabilmente dall’unione occasionale di Piero il Gottoso con una nobildonna fiorentina della quale non si conosce il nome), manifestò sin da piccolo grande vivacità d’intelletto e brillantezza, tali da ritenere che potesse essere destinato a tramandare quelle conoscenze che attraverso Gemisto Pletone, Bessarione e Giovanni Argiropulo erano state consegnate ai vari Poggio Bracciolini e Francesco Sassetti, perché venissero diffuse dopo il Concilio e che tanto entusiasmo avevano suscitato alla corte dei Medici.

Quel rinnovamento auspicato però non ci fu e probabilmente fu deciso che Leonardo, ancora bambino venisse occultato al mondo per evitargli di essere oggetto di persecuzione: documenti distrutti ed altri creati ad arte, Leonardo che va via da Firenze per tornarvi poi da grande protetto dal fratello Lorenzo, mentre Papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini) con la Dieta di Mantova (1458) mette fine al rinnovamento conciliare, i Pazzi a Firenze iniziano a tessere le trame di quella che sarà ricordata come la famosa congiura (1478), e più tardi Lorenzo il Magnifico muore di gotta nel 1492 (come suo padre Piero e probabilmente Leonardo), e con lui il tramonto di un’era.

A quel punto a Leonardo non restava a sua volta, che trovare un modo di tramandare ai posteri le sue conoscenze in modo tale da non veder disperdere nel nulla un patrimonio così importante, e lui che è stato geniale un modo l’avrà sicuramente trovato, un segreto rimasto nascosto e del quale si comincia ad intravedere il significato.

 

Uno dei più recenti tentativi di visualizzare Leonardo da giovane è dei programmatori del video gioco di successo "Assassins' Creed".

 

Dimenticavo un curioso aneddoto riguardante le tre sorelle maggiori di Lorenzo il Magnifico: la più anziana, Maria nacque nel 1445; per la sua devozione venne soprannominata “santa”; ebbe un figlio e morì nel 1479, ben prima che egli divenisse Cardinale. Bianca nacque alla fine dello stesso anno della sorella maggiore, sposò Guglielmo Pazzi al quale dette 16 figli e morì anch’essa giovane, a 43 anni; si dice che in quanto fosse una delle modelle predilette da Sandro Botticelli tra le componenti della famiglia Medici, le sia stato attribuito l’appellativo di “pinta” (dipinta). Lucrezia, detta Nannina, più giovane rispetto alle sorelle, visse 45 anni ed ebbe due figli dal marito Bernardo Rucellai con il quale animò l’Accademia neoplatonica degli Orti Oricellari e la cui memoria si tramanda negli odierni giardini annessi alla villa dei Rucellai a Firenze; devo proprio dirvi quale era il diminutivo con il quale veniva affettuosamente chiamata?

 

 

Un Ringraziamento particolare al dott. Riccardo Magnani per i numerosi spunti di riflessione ed i suggerimenti forniti, frutto dei suoi lunghi anni di studio su Leonardo; il mio racconto idealmente termina dove inizia il suo.

 

 

 

 

Note:

(1) testi peraltro la cui conoscenza era consolidata da secoli – tra gli altri, i 4 vangeli, gli Atti degli Apostoli, le Lettere di Paolo, l’Apocalisse e le Epistole Cattoliche);

(2) confronto tra il francescano Ubertino da Casale ed il Cardinale Bertrand;

(3) dialogo tra Guglielmo da Baskerville ed il vecchio Jorge da Burgos all’interno della Biblioteca;

(4) la meraviglia destata dagli occhiali – Oculi de vitro cum capsula – di Guglielmo da Baskerville sui monaci amanuensi nello Scriptorium;

(5) Bernardo Guy che chiede l’approvazione di Guglielmo da Baskerville nel processo agli eretici;

(6) il secondo libro della poetica di Aristotele sulla cui esistenza gli storici non sono concordi e le cui vicende, nella trama del libro vengono concluse con l’incendio della biblioteca e la distruzione di buona parte del sapere in essa conservato;

(7) p.e. il culto del sole e l’importanza di solstizi ed equinozi;

(8) Niccolò Cusano – De Pace Fidei;

(9) della cui identità siamo certi in quanto morì a Firenze durante il Concilio, venne sepolto in quella Chiesa e di lui venne fatto un ritratto proprio in prossimità della sepoltura.

(10) Il “Diluvio” di Paolo Uccello in Santa Maria Novella ed il Concilio di Firenze – Eugenio Marino Ed. Centro Riviste della Provincia Romana;

(11) Si è dovuta inventare una sua pretestuosa incompatibilità con il più giovane ed agguerrito Michelangelo per giustificare la sua definitiva partenza da Firenze

(12) o Magliabechiano – da Antonio Magliabechi nella cui biblioteca venne rinvenuto insieme ad altri codici tra i quali uno di origine atzeca; l’attività e gli interessi di Magliabechi lo portarono ad essere tacciato di eresia. Alla fine della sua vita aveva raccolto circa 28.000 testi antichi i quali formarono il nucleo dell’immenso patrimonio odierno della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze;

 

 

Bibliografia:

  • Firenze e il Concilio del 1439 – Paolo Viti, Leo S. Olschki Editore
  • Il “Diluvio” di Paolo Uccello in Santa Maria Novella – Eugenio Marino, Ed. Centro Riviste della Provincia Romana
  • La stella e la porpora – Giovanni Lazzi e Gerhard Wolf, Ed. Polistampa
  • Storia dell’arte italiana – G.C.Argan, Ed. Sansoni (1969)
  • Il Nome della Rosa – U. Eco, Ed. Bompiani
  • De Pace Fidei – N.Cusano, Ed. Cultura della Pace
  • Inchiesta sul Cristianesimo – R.Cacitti/C.Augias, Ed. Mondadori

 

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